Racconto di Andrea Mitri

(Seconda pubblicazione – 23 giugno 2021)

 

 

Dapprima l’acqua dei pozzi risultò salata.

Poi, attraverso l’aria della nostra campagna, denso si diffuse l’odore del mare.

La mattina aprivo la finestra e lo respiravo a pieni polmoni; il dottore mi aveva detto che rachitico com’ero non poteva farmi che bene. Ma quando più tardi lavoravo con mio padre nei campi, mi infastidiva che l’odore di salsedine si mescolasse con quello dell’uva e degli orti, costringendomi a rimemorizzare la mia mappa olfattiva.

La nostra vita, comunque, non ne risultò troppo sconvolta.

Alla sera ci riunivamo come sempre intorno al fuoco, lasciando la porta aperta nell’attesa che la brezza ci portasse, adesso, fantasie di navi, balene e pirati; e la domenica, finito il bagno nella vasca, ci piaceva scoprire con la lingua una striscia salata sulle nostre spalla.

Infine arrivò l’onda.

Probabilmente la sentimmo montare sotto il vecchio mulino, filtrare attraverso i canali d’irrigazione e quindi erompere trascinando via con sé uomini, animali, cose.

Io fui tra i pochi fortunati che riuscirono ad aggrapparsi a uno stipite di porta, a un ciliegio non più in fiore, a un tavolo di noce disperatamente galleggiante. Ma gli altri vennero trascinati lungo la pianura, sparsi e dimenticati là dove l’acqua, forse stanca di ribollire, non se l’era più sentita di ridisegnare il paesaggio.

Una volta ritrovati i corpi, pensammo che forse sarebbe stato loro desiderio venire seppelliti in quella terra che avevano da sempre con fatica coltivato.

Pertanto caricammo i cadaveri sulle barche generosamente offerteci dalla Canottieri Olona in segno di solidarietà, legammo al collo di ognuno dei nostri cari una pietra del vecchio mulino e li gettammo nel nostro mare morto, fiduciosi che la natura avrebbe avuto pietà di loro, rimestandoli alla fanghiglia sottostante.

E diventammo marinai.

Nel punto esatto dove nel ’49 vidi passare i corridori del Giro d’Italia costruimmo la prima casa, poi gli attracchi, la taverna, la scuola. Con sabbia di riporto ci inventammo una spiaggia e col tempo riempimmo il nostro mare morto di pesci d’allevamento, sperando che una volta liberati riuscissero, evolvendosi, a dare dignità alle nostre acque, attirassero i pescatori e ci illudessero di far crescere ancora qualcosa nella nostra campagna sotterrata.

Poi, una volta scoperte le virtù terapeutiche delle nostre alghe, il nuovo paese andò sempre più stagionalmente popolandosi di malati di sciatica, fanatici della bellezza, semplici curiosi.

Tutti questi anni io li ho vissuti trasportando persone lungo il nostro mare morto, fermandomi sempre un po’ più a lungo nel punto in cui, nelle giornate limpide assenti di vento, si può intravvedere ancora sul fondo, intatto, il vecchio trattore tedesco di mio zio Alfonso. Ho ripetuto mille volte la mia storia, spesso in un inglese faticosamente appreso dai dischi, spiegando a tutti il perché della scritta Mosè lungo il fianco della mia barca e considerando come in fin dei conti l’aria di mare a me, rachitico, non abbia potuto fare che bene.

Ma ancora adesso che gli anni cominciano a pesare e meno senso si dà alle proprie vergogne, mi riesce ancora difficile ammettere davanti a qualcuno che quell’enorme pesce trascinato a riva nell’estate del ’66 aveva gli stessi occhi atterriti di mio padre nel momento stesso in cui si rese conto che stava arrivando l’onda.