Racconto di Cristina Biolcati

(Terza pubblicazione – 22 gennaio 2021)

 

 

 

Le mani di mio fratello, quando scriveva gli articoli per il giornalino della scuola, erano tutte tinte di blu. Blu i polpastrelli; blu la lieve peluria delle nocche; blu gli occhiali e talvolta anche la fronte, perché lui si scordava di averle sporche e si toccava la faccia. Era solito mettere un foglio di carta carbone fra lo scritto e il rullo, così poteva avere subito due belle copie del suo documento. In un’epoca in cui i ragazzi facevano tutto a mano, lui batteva sui tasti con forza, quelli di una macchina di cui non ricordo neanche più il modello. La sola cosa che so è che aveva la scocca rossa, e che era bellissima.

L’avevamo in casa, ereditata dai nostri genitori. Lui si metteva alla scrivania di papà, con puntiglio. Si concentrava fino allo spasmo, una vena gli gonfiava la fronte. Poi, quando aveva terminato di scrivere il breve pezzo che l’indomani avrebbe dovuto consegnare all’insegnante (mio fratello spesso si occupava della rubrica dello sport), mi lasciava il posto, perché io invece ero l’addetta a parlare di moda.

La seggiola calda emanava tutto il suo fervore e io, piccola, mi raggomitolavo a un’estremità, pensando di avere neanche la metà del suo talento. Odoravo la carta carbone, che mi riportava all’interno di quelle tipografie che avevo visitato da bambina (solo alcuni anni prima), quando ancora si usava andarci per scegliere i santini da far stampare in occasione della Comunione o della Cresima. Immagini sacre che il tipografo mostrava su un catalogo, da sfogliare direttamente sul bancone, mentre i macchinari alle spalle rumoreggiavano. E lì, c’era esattamente quell’odore. Di nuovo, di buono, ma con un retrogusto di antico, quello che aveva l’inchiostro seppure a dovere ingabbiato.

Cosa potevo scrivere, io? Mi sentivo debole. Per marcare quei tasti ci voleva forza. Bisognava non avere paura di sporcarsi le mani. Mentre la sottoscritta, signorina quote rosa, non era intenzionata a farlo. Tutto mi costava fatica, allora mio fratello mi vedeva svogliata, e tornava a batter cassa.

«Sei scema, Assuntì?» diceva, ogni volta. «Domani mattina dobbiamo consegnare i pezzi, e tu guardi i centrini!»

Guido alludeva al fatto che nostra madre fosse fissata col lavoro all’uncinetto e avesse ricoperto di pezzi fatti da lei, con le sue mani, tutto il salotto.

Allora io maledivo il fatto di essere gemelli. Fossi stata solo un po’ più grande o più piccola, non saremmo stati nella stessa classe, e lui non avrebbe potuto controllarmi con quella determinazione che aveva, quasi rappresentassi una “cosa” sua.

Puntualmente mi facevo di lato, e ci pensava Guido a battere il mio pezzo. Non osava correggermi, né criticare quel che avevo scritto, perché lui non era un autore. Era piuttosto, un esecutore. Era innamorato di quei tasti, di come riuscissero a trasformare qualcosa di puramente aleatorio in un testo egualmente riconosciuto; tale e quale a una pagina di libro che spesso insieme leggevamo.

Con quella macchina potevamo scrivere anche un romanzo, e una volta ci abbiamo provato. Io dettavo, lui scriveva. È uscito un bel malloppo, di circa una cinquantina di pagine. Che ovviamente abbiamo realizzato in duplice copia: una per me e una per lui. Era una storia di pirati, mi rendo conto un po’ troppo simile allo sceneggiato di Sergio Sollima che proprio quell’anno (il 1976) era uscito in televisione. Ma allora ci pareva di essere originali. Inventavamo anche scene d’amore, fra il nostro pirata di punta e una bella fanciulla bionda che lui doveva salvare, però le ingenuità erano talmente tante, che la storia non la lesse nessuno.

So che lui ha bruciato quel manoscritto, alcuni anni dopo. Lo ha rinnegato in una notte di luna, che aveva bevuto, dando fuoco alla carta col suo accendino. Io invece lo conservo ancora, così come conservo i giornalini della scuola, con le nostre firme sotto agli articoli.

Il giorno in cui papà portò a casa una nuova macchina per scrivere, più moderna, Guido s’incupì. Lui intendeva agevolarci la vita, era tutto soddisfatto. Non che l’acquisto fosse brutto, anzi. Io mi ci trovavo meglio, perché i tasti erano più teneri. Il rullo era inglobato e non sporgeva; il foglio non aveva bisogno di regolare ogni volta la centratura con la ghiera. È vero, era grigia. Quella rossa, di cui davvero non ricordo il modello, venne portata in solaio e lì rimase. Purtroppo i miei genitori avevano la ferrea convinzione che se si comprava qualcosa di nuovo, andasse utilizzato. Per cui, i lacrimoni di Guido che ogni sera saliva per una scaletta angusta e si sedeva in adorazione di una splendida “rossa”, posta in un angolo a prendere polvere, non intenerirono nessuno. Guido smise di scrivere, o comunque, lo faceva di rado. Aveva perso interesse, quasi se vedesse nella sua fatica di maschio la soddisfazione di arrivare a un risultato. Dava a me da battere i suoi articoli, era sempre più svogliato.

Dal canto mio, invece, scrivevo moltissimo. Inventavo storie; componevo testi poetici. Io non avevo bisogno di alcuna fisicità, per sentirmi realizzata. Amavo la scrittura per il mistero che si cela nelle parole, non di certo per il meccanismo che ci stava dietro.

Nel corso degli anni, finita la scuola, Guido ha aperto in questo ordine una copisteria e una ditta dove si rilegano i libri. Con l’avvento dell’era digitale, il suo settore, così prettamente meccanico, si è ritrovato spesso in crisi. Io, invece, mi sono arrabattata a recensire un po’ di tutto, ho pubblicato persino due romanzi, che in pochi hanno letto. Credo dipenda dal fascino che hanno sempre avuto su di me le storie, fine a sè stesse, per il piacere di raccontarle. Come quando, io e Guido, abbiamo scritto quella faccenda di pirati e non l’abbiamo fatta leggere a nessuno.

Quando vado a trovarlo, Guido mi sorprende sempre con la sua forza bruta, il suo carattere irruento. Mentre stappa una birra, oppure mi apre un barattolo di cetriolini, ritrovo mio fratello.

Lui non sa che una parte di me, in fondo al cuore, lo ricorderà sempre come il bambino dalle mani blu. Blu le dita; blu la loro sottile peluria, persino gli occhiali. Il mio gemello blu, che tiene assieme le mie parti e mi completa. Dal quale, se non fosse stato per una vecchia macchina da scrivere, non avrei avuto l’occasione di affrancarmi e prendere così la mia strada nel mondo.