Racconto di Gianluigi Vanni Bettega

(Decima pubblicazione – 8 novembre 2020)

 

 

 

Rimasto vedovo e sopravvissuto ad un tumore, aveva abbandonato la grande abitazione in riva al lago per stabilirsi in un bilocale all’ultimo piano di una palazzina sull’angolo che immette sulla strada per la Valsassina. Ogni tanto mi fermavo da lui per scambiare quattro chiacchiere, lui si sedeva al tavolo e mi invitava a sedermi dirimpetto, dopodiché esordiva: questa non te l’avevo mai raccontata.

Come già sai, esordii nel mondo del lavoro presso un fabbro di Bellano, avevo 13 anni quando imparai da lui a forgiare i chiodi: erano grossi chiodi a sezione quadra che si impiegavano per abbellire portoni importanti dando loro un aspetto quasi minaccioso. Ebbene, il Cechintulee, così chiamavano quel fabbro, possedeva una Guzzi Sport 15 mentre dirimpetto Giorgio il macellaio aveva una Gilera. Tra i due erano continui sfottò, addirittura il Cechin lasciava la moto accesa sul cavalletto, metteva il manettino a tutto ritardo e la moto scandiva un minimo che permetteva di contare i giri! La lasciava cantare così per delle ore, perché la Gilera di Giorgio non teneva per niente il minimo!                                                                                                                                                                           Un giorno di febbraio, essendoci poco lavoro, chiesi a Cechin di lasciarmi in vacanza. Era il periodo del pesce persico e presso le rocce sotto casa mia ne brulicavano parecchi. Il tempo è splendido, siamo a fine febbraio, spira leggera la Breva da cui mi ripara il promontorio di Morcate. Ho ai piedi gli zoccoli e lascio in casa la giacca, armato di canna, lenza, vermi e sacchetto per le prede, seduto su un grosso sasso, ho già fatto un buon bottino quando mi distrae un rombo sulla statale: è un manipolo di collaudatori della Moto Guzzi, ciascuno a bordo di motocarrozzini trialce. Ritto sul sasso riesco a vederli, d’un tratto uno dei collaudatori perde il controllo, sbanda e finisce nel lago. L’acqua è profonda, lui bardato di tutto punto con casco, giubba in cuoio, stivali e guanti annaspa disperato faticando parecchio per rimanere a galla. Io già mi son tolto tutto quanto avevo indosso, mi tuffo e, conoscendo perfettamente il fondale, lo aiuto a mettersi in salvo.

Tutto sommato è in buone condizioni, saliamo in casa mia, butto una fascina sulle braci del camino, una soffiatina e s’alza subito una fiammata ristoratrice. Salgo un momento in camera e mi rivesto con panni asciutti mentre il collaudatore bagnato si asciuga; i suoi colleghi si tolgono un indumento ciascuno e finalmente si riveste pure lui. Saprò più avanti che non tutti gli uomini che uscivano per far chilometri erano collaudatori, semplicemente, alla bisogna, si cercavano tra gli operai quelli che sapevano condurre una moto. Si fornivano loro indumenti idonei e li si avviava al seguito di qualche collaudatore.

Di questo fatto non faccio accenno in famiglia, potrebbe scapparci pure qualche scappellotto! Papà non crederebbe alla storia e, a quei tempi, non s’andava poi tanto per il sottile!

Due giorni dopo si presenta a casa nostra un signore, sta cercando quel ragazzo che si è buttato in acqua due giorni prima, papà mi chiama e sì, ammetto, sono stato io!

Quel signore – saprò più tardi che si tratta di Battista Gatti detto Gurlet, capocollaudatore della Moto Guzzi – vorrebbe in qualche modo sdebitarsi e allora sbotta mio padre: “se proprio vuole fare qualcosa, trovi un posto in Guzzi per questo lazzarone!” Fu così che il primo marzo del 1941, a 14 anni, entro a far parte dell’Azienda.

Il primo lavoro consiste nel mettere benzina nelle moto da collaudare, durerà un’ora; dopodiché sopraggiunge il sig. Mondo Micheli, direttore di stabilimento, che mi accompagna al reparto Assistenza Clienti, dove necessita un apprendista.

Clienti, per la verità, ce ne son pochi, il reparto è occupato dai tedeschi che ci affidano per le riparazioni le loro BMW, Zundapp e DKW, ma anche Benelli e Bianchi per revisioni o riparazioni. Si lavora alle dipendenze del Maresciallo Urbaski il quale, la sera, ci annusa il fiato per capire se abbiamo “cannettato“ la benzina dalle loro moto. Non sa che noi abbiamo aggirato l’ostacolo, infiliamo sì il tubo per far “damigiana “ però non aspiriamo: nel bocchettone infiliamo una cannuccia, con della “strasa” ( cascame del tessuto ) cercando di far più possibile tenuta, soffiamo con quanta più fora possiamo finché il prezioso liquido sgorga nelle nostre taniche!

Quando ci sono tempi morti mi piace scendere in Sala Prova a trovare il Sig. Bacchi. Era amico di Carlo Guzzi da prima della fondazione dell’Azienda, ha al suo attivo diversi brevetti in campo motoristico, quello che comunemente viene chiamato sistema Puch o DKW competizione, ovvero cilindro sdoppiato, fu da lui inventato e messo in produzione già dal 1924. Mi è molto simpatico, me lo vedo lì col suo grembiule nero tenuto stretto tra le ginocchia per non farselo “mangiare” dal mulinello, che mi mostra trionfante l’ago della bilancia che sale con la fase da lui suggerita!

Mi insegna un sacco di cose, come si calcola il rapporto di compressione, perché si disassa il motore, perché lui lima il pistone nella zona dello spinotto per non grippare. Mi dice pure di fare attenzione che le aste abbiano a lavorare col bilanciere in modo di avere il massimo braccio al momento opportuno: astine troppo corte o troppo lunghe rallentano la velocità di apertura e chiusura delle valvole. Io, appassionato come sono, tutte queste notizie me le divoro!

Passano così quattro anni, durante i quali mi impadronisco del mestiere. Finalmente, è l’aprile del ‘45, la guerra finisce. Subito si pensa al mondo delle corse, compaiono in reparto i bolidi anteguerra: Albatros, 250SS 3 marce, Condor, tutte bellissime! Bisogna pulirle, smontarle, aggiornarle e rimontarle. Io non sono autorizzato a “chiudere “ i motori, devo eseguire solo piccoli lavori e pulire bene i pezzi. Quando Gem, l’operaio anziano si assenta, furtivamente do una occhiata in giro e, se non arriva nessuno, monto e smonto il motore, facendo poi trovare a Gem i pezzi ben ripuliti pronti da montare! Faccio questo giochino un sacco di volte ed è così che prendo destrezza e pratica su questi motori.

Viene un giorno che a Lecco si organizza una corsa su circuito cittadino. Son lì con degli amici come spettatore, stiamo assistendo alle prove dei Clubman, terza categoria. Si forma un capannello di gente, andiamo a vedere, c’è un concorrente che ha grippato il suo Airone! Saprò poi che si tratta del dott. Zoboli, che si diletta partecipando alle corse. Subito gli amici a indicarmi… Lui! Lui è meccanico in Guzzi! Non potendo rifiutare, mi metto subito all’opera: smonto la testa e il cilindro, il cilindro è in buone condizioni mentre il pistone è grippato nella zona circostante il foro dello spinotto. Memore degli insegnamenti di Bacchi, cerco una lima tra gli astanti e limo il materiale grippato. Rimonto il tutto, una registratina alle valvole e via! La moto è pronta per la gara. Zoboli si piazzerà secondo ed io oggetto di ammirazione da quel giorno più considerato.

In seguito a questo successo vengo contattato da diversi corridori privati per dar loro assistenza, attrezzo lo stallino di casa con un banchetto su cui mettere le moto, faccio la patente auto e mi studio le procedure e le pratiche necessarie per partecipare alle gare sia in Italia che all’estero. E’ così che tra i miei piloti ho avuto Claudio Mastellari, Nino Martelli, Duilio Agostini con cui vincemmo la Milano Taranto, Dario Ambrosini non ancora accasato, poi Perosino di Asti e un tedesco di nome TornPrikker.

Torn, eravamo nel 1948, volle partecipare al Tourist Trophy di quell’anno, preparai quindi la sua moto aggiornandola con accorgimenti che via via imparavo in azienda, quando fu pronta la tolsi dal mio banchetto per caricarla sulla Citroen Furgonette, preparai le carte geografiche e i documenti per il viaggio  e partii alla volta  di Dunquerque per poi traversare la Manica, sbarcare a Dover, prendere per Liverpool e da lì imbarcarmi sul traghetto per l’isola di Mann. Attraverso la Francia per intero e, man mano che mi avvicino a Dunquerque mi imbatto sempre più spesso in carcasse di automezzi abbandonati qualche anno prima durante lo sbarco degli Alleati. Da appassionato di meccanica, come passatempo, cercavo di indovinare la nazionalità e il modello dei rottami in cui mi imbattevo. Giunto che fui a un bivio, feci confusione e sbagliai strada, nel cercare di rimettermi sulla giusta via, mi ritrovai in un cimitero di guerra. Migliaia di croci bianche che si stagliavano a perdita d’occhio fecero sì che in quel momento realizzassi l’immensità di quella tragedia. Pensai a mia mamma che piangeva alla notizia della morte di mio fratello sulle rive del Don, pensai che per ognuna di quelle croci una madre stesse piangendo. Scesi dalla furgonette, appoggiato a una croce non riuscii a trattenere il pianto. D’un tratto una voce, stentorea: Qu’esque tu fait? – mi girai verso il gendarme il quale, vedendo le mie lacrime, sommessamente… Pardon, excusezmoi-.