Racconto di Ilaria Pizzini

(Prima pubblicazione)

 

Il primo contatto è stato con i colori. Il verde, o meglio i verdi.

Se non si è mai stati in Maremma non si può sapere quante sfumature di verde ci sono.

Gli olivi innanzitutto, piantati ad intervalli regolari come pacifiche truppe schierate da mano precisa. Centenari – talvolta millenari – custodi di un sapore antico.

I cipressi, presi in prestito ma orgogliosi di allungarsi snelli a segnare i campi.

Le foglie di acanto, che avevo visto nei libri di mio padre, rese marmoree eppure leggere nei capitelli corinzi.

Gli alberi d’alto fusto ad ombreggiare le strade che si inerpicano verso l’Amiata, e i mille steli d’erba della primavera.

Sono arrivata al Boschetto di Montiano nel settembre del 1938, non avevo nemmeno vent’anni. Non più come Ione Magi, diplomata all’istituto magistrale di Firenze ma nell’importante ruolo di “signorina maestra”.

Un’azienda agricola, di non so più quanti ettari, per coltivare cereali e far crescere olivi e bambini. Difficile per loro arrivare alla scuola di Magliano, sede comunale, sia per la distanza sia perché i piccoli iniziavano presto a darsi da fare in campagna, seguendo le orme dei genitori. Il fattore quindi – Baccioli si chiamava – con la benedizione della contessa, proprietaria dell’azienda agricola, aveva deciso di costituire una scuolina all’interno della tenuta. Tanti, troppi i maestri maschi che erano stati chiamati a combattere, così con l’aiuto di amici fiorentini aveva cercato, e trovato, una maestra appena diplomata. In una parola, me. Per motivarmi a fare del mio meglio, mi offrivano vitto e alloggio ma sarei stata pagata “a bambino promosso”: nemmeno questo mi aveva spaventata, e piena di zelo ed entusiasmo sono partita per la Maremma.

Scesa dal torpedone, mi è venuto incontro il fattore: il viso cotto dal sole, la stretta decisa, la camicia a quadri dalle maniche rimboccate e una voce pacata e profonda con cui mi ha accompagnato a vedere il mio nuovo regno. Una grande stanza al pianterreno del podere più grande, proprio vicino all’aia dove si pesa il raccolto, per ospitare una quindicina di bambini e bambine dai 6 ai 12 anni.

«Bisognerà che se li vada a cercare, gli alunni» ed è stato davvero così. I miei primi giorni sono trascorsi a girare la campagna, parlando coi genitori e cercando di convincerli perché mandassero i figli a scuola. Erano braccianti, povera gente, abituata solo a faticare senza tregua e senza speranza.

«Ormai è grande, mi aiuta» questi i padri, mentre le madri, le mani strette nel grembiule, annuivano quando parlavo loro dell’importanza di avere almeno la licenza elementare. «È solo per mezza giornata – la voce tenue ma decisa – vuoi che non abbia un futuro come te, come noi?»

Così alla fine sono riuscita ad averla la mia classe, e me lo ricordo ancora il primo giorno di scuola: Sergio, 8 anni tutto spigoli, dal naso alle ginocchia. Anita, i codini stretti stretti che parevano inchiodati, la piccina della compagnia. Adolfo, il nome ingombrante come lui, un marcantonio di 12 anni che racchiudeva un insospettabile animo gentile. Poi tutti gli altri, che negli anni si sono succeduti: Antonio, Luigi, Mariastella, Ettore e Achille, gemelli identici nell’aspetto e nelle birichinate. Ciascuno è rimasto nel mio cuore. Insegnare loro a leggere e scrivere significava aprire una finestra sull’infinito, anche in una realtà che sembrava immutabile.

Non è stato facile sai ma nemmeno così difficile come può sembrare adesso. Certo dopo poco è scoppiata la guerra ma non abbiamo mai davvero patito la fame. Qualche ragazzo è partito per il fronte, e le donne dovevano lavorare di più ma i campi e gli olivi hanno continuato a produrre, e le bestie a nascere, crescere ed essere macellate. Anzi, si cercava di fare bella figura con la Commissione che veniva ad interrogare gli alunni a fine anno: si preparava un gran pranzo sull’aia, e ognuno tornava a casa con un fagottino di verdure fresche dell’orto o una salsiccetta.

È stato lì che ho conosciuto Edgardo: alto e moro, fiero antifascista – per spregio il sabato sera indossava la camicia rossa appartenuta al nonno garibaldino, e mi portava a ballare. Mi corteggiava, io mi sono innamorata. Facevamo progetti, il cuore volava alto nonostante tutto. Fossi rimasta, chissà. Poi c’era don Enzo, che veniva a dire Messa e si fermava sempre a far due chiacchiere. E la contessa, bellissima donna, sempre elegante anche quando girava per i campi.

C’era ancora il latifondo, la riforma agraria è arrivata dopo.

Padrona, fattore, braccianti vivevano vite parallele come i solchi dell’aratro nei campi: nessun contatto tra loro. Insistevano sulla stessa terra ma non si incontravano mai. Al Boschetto comunque ho imparato la solidarietà tra persone che, al di là del ceto, delle possibilità economiche, persino del pensiero politico, si riconoscevano simili nell’amore e nel rispetto del loro territorio.

I momenti brutti sono venuti più tardi, a cominciare dalla primavera del 43. Ci sono stati bombardamenti: una mattina ho fatto uscire di corsa i bambini da scuola, li ho messi in fila e li ho fatti scendere sulla riva di un fosso. Mi è corso dietro il fattore: «Non così! Sparpagliatevi!» gridava forte e c’è stato un fuggi fuggi generale, che poi per riprenderli ed essere sicura che stessero tutti bene ce n’è voluto di tempo.

Dopo l’8 settembre tutto è cambiato. Edgardo si è nascosto in montagna, coi partigiani. Io sono tornata a casa. Prima di partire ho fatto un’ultima volta il giro delle campagne, a salutare i miei alunni casa per casa. Ho pianto lasciandoli.

A Firenze non ci si stava, siamo sfollate – con la mamma, il babbo è rimasto – a casa della nonna a Cavriglia e lì siamo rimaste fino alla fine della guerra. Mi è arrivata qualche lettera di Edgardo, sembrava un altro mondo – forse lo era.

Poi ho ricominciato ad insegnare, ho incontrato Pietro e ci siamo sposati: i figli, la vita che tu sai.

Oggi è il mio ultimo giorno di scuola: ci sarà una festa, lo so. A te, figlia mia, che mi chiedi sorridendo quale sia il ricordo più bello dei miei anni di scuola, rispondo: il verde della Maremma.