Racconto di Michele Morrone

(Prima pubblicazione – 8 marzo 2019)

 

Come neve dal cielo colava la pittura dalla soffitta sulla testa di Luciano. Aveva intinto, un tantino di troppo il pennello dentro il secchiello di vernice appoggiato sulla base in alto della scala apposita per imbiancare casa. Aveva fatto, con fogli di giornali, la classica barchetta che gli imbianchini o muratori di solito indossano sul capo per non sporcarsi. La posizione in cui si trovava era un tantino “rozza”, ma al quanto efficace, se si voleva portare a termine il restauro dell’appartamento. Il piede sinistro, poggiato sul terzo scalino della scala mentre il destro, di piede, stava sul primo scalino in alto, mantenendosi con la mano sinistra sulla congiuntura delle rotelle della scala e con il braccio destro, un po’ curvo di schiena, pressando la parete della soffitta con la pennellessa, avanti e indietro lineare, guardando di sottecchi la traccia che lasciava la passata, dava il giusto tono di bianco scelto e riflettuto con la proprietaria di casa per sette giorni di seguito, a quel soffitto del soggiorno. Nel bagno bisognava farlo azzurrino, il soffitto. “Capito Lucianì? Nella stanza da letto, un giallo paglierino appena appena accentuato, mi raccomando…”. Pensava alla follia mondiale, Luciano, tra una pennellata e un’altra. A quanta colpa avessero le famiglie a proliferare e indottrinare; folli, pazzi, matti che imperversano a ogni angolo del globo. E di quanta pazzia lui e il resto della popolazione terrestre fossero giunti a consapevolezza; a una peculiare percentuale di coscienza collettiva. In altri termini: a un’acquisizione di nuovi strumenti mentali per definire le anomalie d’una normalità appresa come modello di un prototipo “iniziale”, per fare riferimento a un unico sano pensiero di razza, robusto e in salute ma però sfigurato, non curato e ammalato e nello stesso tempo emarginato, quindi spregiudicato. In altri termini Pazzo! Pensiero schizzato. Il classico pensiero che esce fuori dalla testa. E perché poi, se non mai, verrà ancora per inciso di nuovo sempre costante all’autorità non mantenuta poi così tanto se si va a vedere che in fondo in fondo, in fondo alla storia della follia mondiale, era bello addentrarcisi e passare il tempo. Specie con la macchiolina di vernice sul naso, a pensarci, veniva meglio il tutto. Cioè, l’imbiancata che si stava dando al soffitto e la continuata gioia che si procurava nel tendere a delle intuizioni così argute e tecniche, ma a dare specialmente un’immagine operativa alla scenografia imbianchina, era lo specchiarsi a quello specchio grande che stava all’angolo della stanza, tipo adesso che sceso dalla scala e spostatala, risalito e toltosi un po’ di sudore dalla fronte con la manica del maglione bianco a dolce vita che indossava sotto la tuta di jeans, specchiandosi, si sorrideva e si andava condensando all’odore di vernice intorno, in un unico corpo di effluvi chimici di bianco solido colante in pennellata maestra, e la folgorante percezione di come portare a termine una questione così delicata e distruttiva come la pazzia lui continuava a immaginarsela, a santificarla e a tutto questo tramite il riflesso obliquo di rimando all’immagine propria che lo specchio forniva agli occhi compiaciuti. Compiaciuti dall’immagine propria riflessa obliquamente. Angeliche visioni esalate e sprigionate dalla vernice sparsa sul soffitto e dal secchio sulla scala che si manteneva ‘tienimi che ti tengo’. Ma sembrava anche che certe volte lo facesse apposta a insozzarsi la tuta da lavoro con macchie di vari colori, primeggiando, come colore, ovviamente, tenendo presente l’ultima imbiancata fatta e il colore scelto. Ovvio. Chiaro. Il bianco di adesso si depositava quando per l’appunto cadeva sulla tuta che adesso come adesso era il giallo e il verde e il rosso che in percentuale corrispondevano al 90% dei colori, con solo il 10% di puntini bianchi che qua e là sparsi se ne restavano circondati dagli altri colori, in evidente quantitativa numerica maggioranza sulla tuta. La tuta che indossava solo per lavoro. Dividere i matti stupidi dai matti geniali. Quelli ritardati e quelli eccelsi. Scatenati e legati dalla stessa sostanza degenerante. Si certo, non aveva studiato e non si era mai più di tanto informato a livello letterario sulla questione fondamentale che lui proseguiva, – La Pazzia – come forza da assurgere per terminare i lavori che lui tanto si dava da fare. E però allo stesso tempo si rendeva conto che era impossibile poter affermare una guarigione alla follia, questo mentre rifiniva una macchia più chiara, che con la precedente passata aveva creato una piccola stonatura cromatica, un bianco meno bianco del restante soffitto imbiancato. Come entrare dentro alla follia, era convinto che non si poteva superare una certa soglia (il punto del non ritorno) perché in questo, e il suo intuito c’era arrivato molto tempo prima, ma che già ormai sembrava da 5 anni, il ritmo propellente per affrontare il mestiere e le giornate, e scardinare comunque con passate di pennello il pensiero che più gli premeva affrontare: la follia dell’uomo e la sua traccia.Tutti si complimentavano con lui per il lavoro fatto. Addirittura veniva definito uno dei più bravi imbianchini del quartiere. Dicevano che aveva lo stesso “tocco” del padre, purtroppo morto con una grave malattia diagnosticatagli dai medici – cancro – e causatagli appunto dalle esalazioni delle tinture e dagli aggiuntivi chimici che si usavano mettere nella vernice bianca per farla cambiare di colore. O altri preparati di tipo sempre composti speciali, per affermare il prestigio nel lavoro anche come uomo. In prospettiva dall’alto sembrava una scenografia del teatro dell’assurdo con tanto di dramma e monologo interno. Uno di quei momenti magici dove si scoprono nuovi criteri paralleli, dimensioni esoteriche affascinanti, possibili mondi più crudeli della vita, caraibiche invettive del desiderio etc. Accendendosi una sigaretta, in una micro pausa improvvisata, faceva i raggi x al lavoro appena terminato. Squadrare gli angoli con la luce semi luce e semibuio. Quando la liscezza, e l’uniformità del colore, rimaneva tale e quale, con tutti questi accendi e spegni, allora, solo allora, ci si poteva rilassare e godersi, riposandosi anche, il tempo la stanchezza e i piccoli dolorini al braccio che avevano dato forma alla riuscita dell’imbiancata. Un lavoro fatto bene! Non ci si poteva aspettare dal proprietario di casa una risposta contraria alla soddisfazione del lavoro appena compiuto. Difatti  non aveva mai avuto,  come si dice in termini dialettali: una cazziata. Da nessuno. Anzi, si sorbiva complimenti di ogni sorta e certe volte prendeva dei soldi in più di quelli pattuiti per il lavoro finito. Dicevano che era così perfetto nel mettere la carta e a imbiancare o fare dei tramezzi o arcate in cartongesso, nessuno con questa precisione di stile e di buon gusto, mai nessuno era riuscito a farlo così bene. Uno dei pochissimi in città, dotato di geometria edile, studiata in campo lavorativo a calcare, trarne le conclusioni, applicando le conoscenze dei ricordi di quando lui era piccolo e osservava suo padre lavorare. Suo padre strampalato con una fisionomia e corporatura rasente la fusione fra un orso abruzzese e un leone della savana. Un cavernicolo dall’aspetto truce con caratteristiche intellettuali fra uno scienziato indisciplinato e un maestro di intuizioni indotte per il fine di renderlo non un genio, ma abbastanza fine di testa per fronteggiare il prossimo con semplici calcoli nella comunicazione. Gli veniva automatico seguire la logica del risultato compiuto. Proprio così. Non altrimenti. Riduci e moltiplica per dividere aggiungere e sottrarre, al fine di trovarsi esatti con il risultato e seguitare una certa dinamica di passaggi logici che esemplificano il percorso proprio così e non altrimenti. La sbruffoneria era quella che ne era venuta fuori a Luciano. Si sentiva forte con i risultati già pronti, troppo presuntuoso quando si lasciava andare con attacchi di presunzione con il prossimo. Nell’immaginario delle persone del quartiere s’era formato una specie di mostro sadico, pronto alle peggiori manifestazioni sessuali, bestiali e sataniche. Una specie di fortuna che se la coccolava godendo rispetto, salute e appalti di lavoro. Era una delizia rivolgergli la parola e fare un discorsetto con lui. Certo un velo invisibile di cocciutaggine scientifica da carpentiere, quello era il minimo da scorgere su quella scorza di Luciano che altro non era. Mischiava le dinamiche della percezione matematica a quelle dell’ascolto di musica jazz, saggezza be-bop ritmata con ironia linguistica e puntiglio, pugno di ferro con carattere da vendere. Se non anche tremendamente affascinato dal rispetto che gli mostravano, allora, lui, ma questo comunque già da quando era ancora vivo il padre, che si dedicava alla meditazione del pensiero universale della follia dell’uomo. Con viabilità, percorribilità, velocità, faceva procedere le sinapsi a ogni disciplina applicata, anche se lui non aveva disciplina nell’applicare le formulazioni su tutto, ma insomma del mestiere che faceva ne andava più che fiero, e se erano tutti soddisfatti e si erano trovati tutti bene con lui, non c’era motivo di preoccuparsi. E invece sì. La follia che è dell’uomo e che forse contaminerà pure gli animali. E invece sì. Questa era la preoccupazione di cui si occupava fin da quando era bimbo e di cui si sarebbe occupato fino alla morte. Dolce forma compatta di un costrutto immaginifico per fini lavorativi. Paziente, certosino nella meditazione sull’uomo e del suo degenerarsi in forma mentis. Pazzo mangia pazzia. Stava coprendo tutti i battiscopa dell’appartamento con dell’adesivo apposito e aveva disposto qualche foglio di giornale per terra e coperto  con buste di plexiglass i mobili nella stanza dove imbiancava. Non aveva bisogno di metodi scientifici nell’analizzare i meccanismi inceppati della mente, semmai era propenso a un’apertura totale della fantasia e correlati. Da piccolo un fatto che lo segnò, che lo portò a una più salda, più manifesta coscienza del proprio captarsi, del sentirsi lui in sé in quanto entità a parte e non altro diverso dal medesimo suo cogliersi così tutto e nell’essenza dello spirito e in quello che si andava formando proprio dentro di lui, lo segnò il primo giorno che il padre se lo portò con lui a imbiancare un intero palazzo. Era estate. Faceva caldo. Le vacanze, gli altri, avevano cominciato già a godersele. Invece il padre sapendo che comunque non aveva bisogno di Luciano per portare a termine i lavori, voleva trasmettergli quella stanchezza che se pure Luciano non avesse fatto niente, magari si fermava a guardare, o magari il padre gli ordinava con piacere di passargli la vernice, martello o altri attrezzi, e che già si poteva vedere bene nella sveltezza di cercare gli strumenti o oggetti richiesti trovarli e portarli al padre con quella soddisfazione negli occhi già tronfi e carichi di vita e ingegno a venire. Semplici insegnamenti pedagogici trasmessi nel cantiere da padre a figlio. Poi a un certo punto della giornata il padre di Luciano decise di fare un break e mangiarsi un panino. Il padre di Luciano dopo aver mangiato il panino e bevuto un quartino di vino disse che un’oretta di sonno faceva bene a tutti e due, ma Luciano vedendo che dei suoi coetanei giocavano a pallone, tra l’altro suoi compagni di scuola elementare, preferì raggiungerli e andare a giocare con loro. Luciano con i suoi compagni coetanei ne combinava di tutti i colori. Non erano mai soddisfatti abbastanza per quanto riguardasse l’interesse primario nello svolgere aggraziatamente le loro strampalate marachelle. Con parsimonia e sdolcinata ingenuità, prematura integerrima predisposizione nello svolgere complicate avventure solipsistiche condivise con gli altri infanti, non si arresero di certo al primo monito lanciatogli da un’anziana vedova vestita di nero che da beghina forgiata in pelle zigrinata, benedetta in sogno visionario o meglio olfattivo di Padre Pio in auge filiforme effluvio santificante, con una bacinella contenente cicerchie e fave o meglio ancora a sbucciare cicerchie e fave seduta davanti all’orto di casa sua confinante col pezzo di terra dove si realizzavano scoperte tecniche lavorative e qualificate esperienze fantastiche per il futuro che li attendeva di questi potenziali discoli, la vecchietta appunto osava dire: “Andate a giocare al campo sportivo prima che mi combinate qualche guaio con quel pallone”. Anzi, più si eccitavano, a più non posso, facendolo di proposito, buttavano il pallone nell’orticello della vecchia scommettendo chi per primo riuscisse a colpire la bacinella contenente fave e cicerchie ribaltandola con il pallone stesso. E la vecchia, per redarguirli, nell’alzarsi, fece incastrare a un chiodo piccolo, che sporgeva dalla parte dell’angoletto dello schienale della sedia, il lembo della veste nera, spogliando la coscia puntellata da efelidi cancerogene, rivestite da sporgenze e buchi, incavi, fossature, protuberanze di carne flaccida, malandata, putrida, prossima al macero e all’essiccazione di tutta quella vecchia sugli ottant’anni tracagnotta. Notarono stupefatti che in mezzo alle gambe la vecchia aveva un verme che si dimenava compiaciuto senza voler lasciare l’abitacolo ma la vecchia sconvolse ancor di più i ragazzini. Prese in mano la squamosa strisciante figura viscida e se la mangiò. Impauriti i ragazzini scapparono senza guardarsi e ritornarono ognuno sconvolto a riprendere le proprie mansioni: chi a giocare di nuovo e chi, come Luciano, ad aiutare il padre a lavorare. Era ormai chiaro che Luciano non poteva non pensare solo alla follia dell’uomo con qualche aggiunta di percezione sulla questione della sacralità della vita come fondamentale e conseguenziale a tutto il resto implicito a ogni definizione e se anche non scientifica sulle dinamiche e apposite teorie della conoscenza di altre forme di vita e nello spazio dell’universo e in quello spazio dove follia si insinua ad altre forme di verità. La vecchia aliena e la follia universale. Possibile che essere umani di una certa età possano fare dei gesti fuori dal comune e fondersi con altri esseri viventi di diversa specie? Vivere in simbiosi adottando un verme nelle viscere più profonde del sesso rattrappito? Era cresciuto con questa immagine del verme mangiato dalla vecchia come cresce un tumore. Non si era mai più capacitato del fatto che avesse potuto immaginare tutto anche perché a ricordarsi dell’accaduto c’erano sempre le testimonianze degli altri ragazzini. Si, anche loro erano cresciuti in un modo un po’ equivoco da quell’evento. Niente, non c’entrava niente la fantasia, avevano visto per davvero quella vecchia che prendeva il verme ubicato in mezzo alle cosce per poi mangiarselo. Il substrato semicosciente del raziocinio fu letteralmente sabotato da quell’episodio. La crescita metodica sulle percezioni cambiò letteralmente binario canalizzandosi in altre forme di elaborazioni rasenti gli alieni e i pazzi. Luciano comunque s’era dedicato a seguire il padre nel lavoro, a stargli vicino, a rubargli tutti gli atteggiamenti e il mestiere fino al giorno in cui non gli morì proprio sotto gli occhi, dopo giorni e giorni di malattia e di ricoveri all’ospedale. Il destino non lo lasciò solo con quel ricordo ma gli elargì ancora altro materiale tipo quando mentre il padre era ricoverato dentro una clinica specializzata, Luciano si affacciò al balcone di quel plesso e vide con i suoi occhi, dato che a fianco c’era una clinica psichiatrica che confinava con il giardino alla clinica specializzata dove stava il padre e lui, un paziente che raccoglieva dei fiori selvatici e con il mazzo che aveva fatto se li infilò tutti quanti nel culo camminando piegato esibendo il floreale gesto all’invisibile. L’infermiera glieli tolse tutti, i fiori, lui un po’ contrariato e un po’ gratificato si lasciò accompagnare dentro alla clinica. Il virus, il bacillo mentale  che  causa particolari  squilibri  all’essere  umano  come  si  fa  a trovarlo?

Calcolatore di un mondo tutto suo, percepiva tutto lo srotolarsi o il semplice amalgamarsi solido compatto duraturo insorgere stupefacente rivelazione delle cose, delle azioni intraprese dagli uomini e che però non possono svelarsi agli altri simili. Si teneva tutto per sé! Il lavoro era stato terminato. Era venuto più che bene. Si accorse che aveva sporcato quasi niente. La signora si complimentò non poco con Luciano del lavoro portato a termine. Dopo averlo pagato la signora si tolse la dentiera e vomitò un ratto!