Racconto di Luca Attinà

(Prima pubblicazione)

 

 

Sto navigando su internet alla ricerca di una casa da affittare quando il telefono inizia a squillare.

Devo terminare il nuovo giallo, la scadenza si avvicina.

L’ideale, per me, sarebbe se la dimora si affacciasse direttamente sulle acque spesse e docili di un lago.

Il Telefono continua a suonare.

Accendo la luce e rispondo.

“Pronto!”

“Buonasera, parlo con il signor Davide P.?”

“Sì, sono io”.

“Chiamo dal centro anziani Lunga vita, a Ginevra”.

Scandaglio mentalmente i nomi delle RSA dove alloggiano alcuni parenti anziani ma nessuna di esse porta quel nome.

“Deve venire da noi, e con una certa urgenza, tanto che le abbiamo già prenotato un volo da Roma, ore otto di domani mattina, già pagato. Un nostro collaboratore sarà all’aeroporto ad attenderla.”

“Mi scusi, ma non ho nessun conoscente presso il vostro centro” rispondo sorpreso.

“Va bene, allora ripeto tutto: lei è Davide P. residente in via C.C. a S.?”

“Direi di sì…” rispondo confermando, inequivocabilmente, che la persona che cercano sono proprio io.

“Bene, allora cerchi di non perdere tempo, c’è un signore in fin di vita che ha chiesto urgentemente di vederla, e noi facciamo di tutto per accontentare i nostri clienti. Spero di essere stata abbastanza chiara.”

“Chiarissima, ma potrei almeno sapere chi è?”

“No, mi dispiace.”

“Quindi dovrei venire lì senza sapere di chi si tratta e senza conoscere il motivo per cui vorrebbe vedere proprio me?”

“Senta, è di vitale importanza, altrimenti non l’avremmo contattata.”

“Va bene, verrò.”

“Il nostro cliente ne sarà felice. Buona sera.”

“Buona sera.”

Appoggio la cornetta lentamente, avevo detto di sì, ma non ne sapevo il perché.

 

Stanza quarantaquattro.

La porta è aperta, dall’interno della stanza mi raggiungono delle voci, poi vedo uscire un dottore che mi rivolge la parola: “Purtroppo è morto” e prosegue senza fermarsi.

Potrei andarmene, ma sento una forza superiore che mi spinge.

C’è un solo letto: sopra c’è disteso un uomo privo di vita coperto da un lenzuolo bianco fino al collo.

Mi avvicino ancora e quasi mi spavento, il viso è raccapricciante: ha il labbro superiore gonfio; la bocca, leggermente aperta, fa intravedere denti ancora sani ma serrati, come se digrignasse ancora; vicino all’occhio, rimasto semiaperto, c’è una lacrima di vetro opaco; la fronte è frastagliata da rughe affilate. È il primo viso cadaverico che vedo così sofferente.

 

I tratti del viso non mi ricordano nessuno, così esco dalla stanza ma prima di varcare per sempre quella porta, mi accorgo che sul davanzale della finestra c’è un libro. Mi avvicino e resto stupefatto. Riconosco la copertina, è il banalissimo romanzo rosa che avevo scritto quando frequentavo il liceo. Neanche a casa ne ho più una copia.

Senza pensarci prendo il romanzo e inizio a girare le pagine, finché trovo un pezzettino di foglio di un giornale piegato in due.

Mi guardo intorno, sono sempre da solo, così lo apro e leggo il titolo di un articolo: “In cinque anni scomparse cinque persone dalla zona di R. Siamo di fronte a un Serial Killer?”. Rabbrividisco mentre lo leggo.

Richiudo il foglietto ed esco velocemente dalla RSA.

 

Mentre sono in auto, con il pensiero rivolto a quel titolo di giornale, inizia a squillarmi il cellulare.

“Salve direttore”.

“Salve Davide, scusa se ti disturbo ma ti devo informare di una cosa e poi ti lascio”.

“Okay, sono qui, dimmi pure.”

“Ho dovuto lasciare il tuo numero ad un avvocato, che tra l’altro conosco di fama.”,

“Un avvocato?”

“Pare di sì, volevo solo avvisarti. Aveva una certa urgenza di riferire con te.”

“D’accordo, grazie.”

 

Neanche il tempo di riordinarmi le idee che il cellulare suona di nuovo.

“Pronto?”

“Sono l’avvocato Swuller, buongiorno.”

“A lei”.

“Le anticipo che per telefono non posso spiegarle niente, e immagino come si stia sentendo in questo momento ma la aspetto il prima possibile nel mio ufficio a T. sul lago di Ginevra.”

“Capito, e naturalmente è tutto top secret. Giusto?”

“Guardi, le posso solo dire che ero l’avvocato dell’uomo che è appena trasalito.”

“Capito, allora mi dia l’indirizzo che passo subito da lei.”

 

Sono nello studio dell’avvocato, uomo distinto e di poche parole, dopo aver letto alcune parti del testamento mi lascia delle chiavi.

Sono le chiavi di una villetta sul lago di Ginevra, da adesso sarebbe mia.

Decido di andarci subito.

Quel pezzettino di giornale mi spinge a fare tutto di fretta.

 

 

Mi alzo per andare in bagno. Quando torno a letto non riesco a prendere sonno. Intorno a me, alla villetta, c’è un silenzio assordante. Mi metto a pancia in giù, una mano sotto il cuscino e un braccio fuori dal letto penzolante nel vuoto. Ogni tanto tocco il pavimento con le dita: è fresco.

Ho gli occhi chiusi, finalmente sento il sonno annebbiare i pensieri ma a un tratto qualcosa di freddo mi sfiora la mano che tengo fuori dal letto. All’istante tiro via la mano. Il cuore mi corre a mille.

Forse era solo una sensazione figlia di un profondo dormiveglia?

Devo sconfiggere la paura, allungo il braccio e pigio l’interruttore della luce: la stanza è vuota. Controllo anche il pavimento: niente, solo le ciabatte. Ora devo guardare sotto il letto. Potrei sporgermi e alzare il copriletto, ma ha testa ingiù sento di non essere in una posizione sicura. Meglio scendere, allora mi metto in piedi sul letto e salto il più lontano possibile. Ora ho le spalle al muro, e la porta vicino al mio fianco.

No, non voglio scappare così rimango immobile.

Lascio passare una decina di minuti, l’adrenalina è sparita portandosi via anche la paura, così mi inginocchio, appoggio la tempia sul pavimento, il copriletto non tocca il pavimento, ho qualche centimetro per vedere che sotto il letto ci sono solo dei puffetti di polvere.

Sono solo e così esco dalla stanza e mi stendo sul divano.

 

Mi sveglio, è tarda mattinata, come prima cosa vado in camera da letto, la luce è ancora accesa ma il secondo cuscino attira la mia attenzione: al centro c’è una fossetta.

Lascio tutto così, chiudo la porta a chiave.

 

Penso seriamente di andarmene subito via, la vista del lago a pochi passi, tuttavia, mi rasserena. Il sole è alto, tra me e il lago ci sono file di pini. Li attraverso ma ad un tratto un riflesso luminoso mi acceca.

Cambio direzione, niente più lago.

In uno spazio circolare, sovrastato da pini alti, trovo un box in alluminio.

Mi avvicino. Da un lato c’è della legna e, conficcata in un tronco, un’ascia. Una folata di vento mi investe, solo ora mi accorgo dell’esistenza di un largo sentiero che si infila in una conifera: qualcuno aveva abbattuto una serie di pini.

La porta del box è socchiusa, entro e vedo all’interno: c’è una mini escavatrice, un gruppo elettrogeno ed una pala dove c’è del terriccio secco.

Guardo verso la parte opposta, c’è un cartone appeso, con delle parole scritte con un pennarello.

Mi avvicino lentamente, e leggo:

“Ti ho scelto perché sono sicuro che andrai fino in fondo a questa storia.

Non ci sono prove contro di me, ma penso di essere stato io il serial killer. Ma non mi ricordo più nulla. Colpa della malattia. Strane cose succedevano intorno a me. Sentivo presenze. Ora tocca a te ritrovare i corpi. A farmi colpevole. Io avevo iniziato a cercarli da qui, per dargli una degna sepoltura!”