Racconto di Elisabetta Bordieri

(Seconda pubblicazione)

 

 

Arrivò in treno un’ora prima all’appuntamento in una tarda mattinata afosa e opprimente di mezza estate, dove anche le foglie degli alberi rimanevano immobili a preservare quella poca aria disponibile. Come sempre aveva bisogno di ingessare le forze per ottenere il massimo nel lavoro, di sciamare fuori dalla sua mente per portare a termine il compito che le era stato commissionato. Una professione rischiosa, la sua, che le occupava poco tempo e guadagni proficui, sicuramente immorale, ma di questo Loca si preoccupava poco: aveva le sue strategie per non provare rimorsi, rancori o rimpianti. C’era stato un tempo però in cui nel suo cuore vorticavano sentimenti gentili come in una giostra sospinta da emozioni continue, un tempo troppo poco vissuto in cui il suo nome era un altro, quello con il quale era nata e che quasi non ricordava più, un tempo spensierato quando ancora la vita aveva occhi e voce e offriva piccole opportunità di riscatto per quel piccolo paese ostile e sperduto nelle pianure amazzoniche dell’est colombiano. Solo dopo, poco più che bambina, ormai orfana e sola, le persone del posto iniziarono a chiamarla con quel nomignolo così subdolo e sottile, quasi un incitamento, glielo urlavano dietro ogni volta che passava, fino a cucirglielo sul cuore con ago e filo rosso sangue. La sua voglia di vivere era affamata di sana follia troppo difficile da gestire e da far comprendere, ormai era la squilibrata del villaggio e allora, crescendo, capì che era meglio scendere dalla giostra e privarsi di qualsiasi moto di slancio e di impulsivo sentire, meglio corazzare la sua vita sgretolata di un’imperturbabile patina fino a cristallizzarla, meglio entrare a far parte di quel giro losco e corrotto, meglio far credere a tutti di essere davvero pazza, di essere… loca. In ogni caso questo sarebbe stato l’ultimo suo incarico, voleva smettere con quella vita reticente di pericoli e inganni, ma non poteva certo comunicarlo a loro. Quando si entra nel giro non se ne può più uscire. Era una semplice regola. O dentro o fuori. Come un legionario d’altri tempi. Impossibile trovare una falla all’interno del clan per trovare una scappatoia. Ma fuori significava una sola cosa, esplicita, definitiva e risolutiva. Eppure, sapeva che avrebbe trovato un modo per riorganizzare il secondo tempo della sua vita e per mettere in atto la sua ultima prova di resilienza, solo non conosceva come e quando. Si guardò intorno per capire al volo i connotati di quel paese dove non era mai stata e cercò quindi, ancora una volta, una chiesa qualsiasi nei pressi, come era solita fare prima di mettersi all’opera, una sorta di protocollo cerimoniale, un rito propiziatorio per chiedere perdono a suo modo del suo operato a qualche dio disponibile e, magari, non troppo occupato in quel momento a scorrazzare nei cieli. Ne trovò una un po’ appartata, con un’entrata laterale senza celebrazioni in corso ma solo con qualche manciata di fedeli canticchianti sommesse nenie lamentose. Vi entrò sedendosi in disparte e nascondendo bene il revolver che aveva al fianco: girava sempre armata quando lavorava. E restò in attesa della consueta telefonata che le avrebbe dato il via.

– Ciao, Loca.

Una voce alle sue spalle, fioca ma possente, la fece sussultare. Non si girò e non rispose. Attese che riprendesse.

– È un po’ che non ci vediamo.

Rimase in silenzio ancora.

– Dobbiamo parlare. Esci prima tu, c’è una panchina qui fuori, siediti. Io ti raggiungo a breve.

Si alzò e, come da ordini impartiti, uscì e aspettò.

– Allora Loca, come stai?

– Cosa ci fai qui, Juanita? Perché non mi ha telefonato Ramon come sempre?

– Ehi che modi, rilassati, Ramon si sta occupando di altro e poi dai, un po’ di coalizione tra donne. Ti porto dei saluti, quelli di El nuestro Señor.

– Ringrazialo.

– Tutto qui?

– Non ho mai conosciuto El tu Señor, non so nemmeno se esista.

– Ma lui conosce te e ognuno di noi, come fosse un vero dios, e ricordati che ci ha tirato fuori dalla miseria, non scordarlo mai.

– Non mi interessano i rapporti univoci, genio.

– Stai attenta a come parli, Loca.

– Se non ci fosse altro, io avrei un impegno, come sai.

– C’è altro. Una variazione di programma. L’obiettivo è cambiato. Si tratta di un mezzo scienziato, un tipo del nord direttamente dalla costa, un fisico di Cartagena.

– Una variazione?

– Su questo foglio ci sono tutte le coordinate. Il tipo ti aspetta nel locale, tu conversando chiederai, come al solito, tutte le informazioni che troverai scritte qui, vedi di studiartele per bene.

– Perché devo farlo io?

– Sei un sicario semplice. Non è contemplato fare domande, né avere risposte. Ricorda: o dentro o fuori.

– Un sicario è un killer e io non ho mai ucciso nessuno.

– Tu spiani la strada per chi materialmente conclude l’affare.

– Io vi do solo delle informazioni, non so che uso ne facciate dopo.

– Mi stai facendo perdere tempo. Hai solo due ore. Ciao Loca.

Juanita sparì all’istante e lei restò sola, incenerita sulla panchina con quel foglio in mano che le bruciava tra le dita. Lesse rapidamente i dettagli e restò lì immobile a scrutare la strada deserta. Qualche goccia di pioggia iniziò la sua danza sull’asfalto rovente, sarebbe durato poco il refrigerio, ma quel profumo di bagnato la rimandava con la mente alla sua fragile infanzia quando ogni acquazzone era una festa e un’occasione di gioco tra bambini per dimenticarsi della povertà. Era passata poco più di un’ora quando vide in lontananza la sagoma di un uomo avvicinarsi, poteva essere il tipo in anticipo. Lo scrutò con prudenza e cautela. Un po’ in là con l’età e con il peso, camminava eretto, camicia bianca aperta sul collo e giacca blu nonostante il caldo opprimente, portava una borsa nera nella mano destra, una di quelle professionali. Sempre più vicino notò i capelli ancora neri e fluenti in armonica sintonia con due occhi chiari incastonati in un viso ovale e magnetico con il sopracciglio destro gradevolmente asimmetrico e irregolare. Le parve un viso familiare, forse visto in televisione o sui giornali. Abbassò lo sguardo per un attimo per non farsi notare e, quando lo rialzò, colse il momento in cui l’uomo entrò nel locale prestabilito. Era lui. Attese ancora qualche istante e si avviò. Lo trovò ancora in piedi accanto a un tavolino.

– Buongiorno, posso accomodarmi?

– Ciao Francisca, certo, prego siediti ma lasciati prima salutare come meriti.

Loca non fece in tempo a schivare un bacio sulla guancia. Poi sentì un colpo perforarle il petto, una scossa elettrica da mille ampere: non sentiva chiamarsi così da secoli. Rimase in piedi.

– Per l’esattezza Maria Angeles Francisca, se non ricordo male. Tutti ti chiamavano affettuosamente Frances, ma a me i diminutivi non sono mai piaciuti e poi la francisca era un’arma lo sai? Una scure da lancio utilizzata dai popoli germanici. Dovresti essere fiera di portare un nome simile e possente.

Una spirale di pensieri disordinati turbinava nel buio della sua mente cercando una via d’uscita. Chi era quell’uomo? Intanto notò un rigonfiamento sotto la giacca all’altezza del fianco. Era armato.

– Ma devo dire che Loca ti dona ugualmente, un nome affettuoso dopotutto.

Poi, quella folgorazione maledetta, quella certezza granitica. E capì.

– Ti va di bere qualcosa? Un po’ tardi forse per un aperitivo ma sono certo che ancora non hai pranzato, su dai, sediamoci. Ramon, portaci due bicchieri di bollicine buone, uno champagne d’eccellenza per un evento così.

Loca restò in silenzio come era stata addestrata dalla vita, mentre immagini e ricordi si rincorrevano nella sua testa in un rovinio infernale, come un’orchestra allo sbando senza direttore. Si sedette dopo di lui.

– Sai Loca, ogni mattina mi alzo e penso che quello sia il giorno zero. Ogni giorno lo è, oggi e anche domani. E allora il mio buongiorno non è riprendere da dove avevo finito ma ricominciare, ricominciare sempre guardandomi indietro senza voltarmi mai. Da giovane non ragionavo così, le mie mattine erano pervase dalla continua ricerca della verità assoluta, solo dopo ho capito che grande errore fosse, perché la verità è un labirinto dentro il quale si cela la sua grandezza. E questo è il mio nuovo equilibrio di vita. Ma beviamo ora e brindiamo alla tua e a questo meraviglioso Paese che è la Colombia.

Loca non si mosse e non toccò il bicchiere, doveva rimanere sobria. Lui, sorseggiando, proseguì.

– So che stai fingendo una calma piatta ma che dentro sei in ebollizione. Chiudi gli occhi, inspira ed espira profondamente, trasforma la tua respirazione in un atto consapevole, ti rigenera il corpo e ti disossida la mente. Se impari a ciclizzare questi esercizi otterrai nuovi stimoli e risultati concreti, soprattutto in un lavoro come il nostro sempre sotto pressione.

Incredibilmente Loca si ritrovò a chiudere gli occhi. Si perse in quella respirazione spirituale e anestetica per un tempo che non seppe mai fino a che li riaprì di scatto.

– Va meglio? Juanita, portaci uno spuntino e chiedi a Ramon di rabboccare i calici anche se il suo è ancora pieno.

Erano tutti lì in quel bar, la sua trappola mortale. Sì, è vero, andava meglio. Ora toccava a lei.

– Cosa vuole da me, Señor. Insegnarmi pratiche zen?

Voglio solo farti una sorpresa.

– Odio le soprese.

Allora dimmi cosa vuoi tu, Loca.

Era stata scoperta. Avevano capito che voleva andarsene. Ormai era finita. Tentò il tutto per tutto.

– Francisca non è solo un’arma. Francisca significa anche libre e io voglio essere una donna libera.

Non credeva di averlo detto, un istinto incauto e pericoloso. El Señor restò muto e allora riprese.

– Il mio giorno zero è stato tanto tempo fa e i giorni successivi sono stati uno e poi due e poi tre e poi mille e poi diecimila e poi c’è oggi che è ancora un altro numero. Io mi volto sempre per guardare indietro invece, mi volto tutti i giorni e rivedo la mia infanzia felice, poi la mia giovinezza calpestata e asfaltata, la mia libertà imprigionata. La mia verità è questa ed è assoluta e non c’è nessun labirinto e nessuna grandezza in cui perdersi. E questo paese è bello per gente come lei che si muove in auto di lusso e beve champagne. Perché questo giochetto dello scienziato, Señor? Perché mi ha voluto incontrare? Non credo che lei sia un dios, come dice Juanita, ma so che è tanto astuto da non sottovalutare la mia intelligenza. Cosa sperava di ottenere? Un mea culpa interiore e che cascassi ai suoi piedi? Un gratias vobis a eterna riconoscenza? Io non le devo nulla Señor. Com’era: dentro o fuori? Beh, sa che c’è? Io scelgo fuori. E grazie per lo champagne, si beva anche il mio alla sua salute che alla mia ci penso da me.

Fece per alzarsi e andarsene ma lui riprese.

– Sono a conoscenza della tua insofferenza sempre più forte, io so tutto, diciamo come una sottospecie di dios, e ho un grande potere, Loca.

– Certamente, quello di ordinare a Juanita e Ramon di spararmi. Faccia pure.

– Tu credi davvero che io sia così miserabile?

– Non lo so, me lo dica lei, lo è? E aggiunga pure allora, sono curiosa, quale altro potere ha El nuestro Señor?

– Quello di fare l’impossibile. Fino a oggi ho sempre fatto solo il possibile per te.

– Oh sì, l’ho visto il suo possibile, una vita al limite della malavita. E ora mi dirà pure che sono ingrata oppure che avrei potuto rifiutare.

Fece un cenno ai due di allontanarsi. Loca li vide uscire dal locale e subito dopo sentì il rombo di un’auto. Erano soli.

– Vedi Francisca…

– Non si azzardi a chiamarmi così, quello è il nome della purezza. Io per lei sono solo Loca.

– D’accordo. Loca, io posso renderti una mujer libre, come vuoi tu. Com’è che si dice: se puoi sognarlo puoi realizzarlo. Ti dimostro come. Voltati qualche minuto per favore e stai ferma.

– Anche poeta ora e cos’ha in quella borsa? Un kalashnikov silenziato per polverizzarmi alle spalle?

– Ti chiedo solo pochi minuti.

E di nuovo stranamente Loca si ritrovò a obbedire. Si girò e lo sentì dietro le spalle trafficare, ma restò immobile. Un’attesa di pochi minuti.

– Puoi girarti ora.

Loca si voltò con lo sguardo basso e vide ogni tipo di porcheria sparsa sul tavolo: strisciate di mastice e colla, frammenti di tessuto sfilacciato, pelle artefatta e slabbrata, brandelli di capelli posticci, pezzi di plastica colorata e di cartapesta smembrata. Quello che rimaneva del viso del Señor.

– Ciao Francisca. Sono Pedro. Pedro Miguel Gomez Ortega. Tuo padre.

Il terrore di alzare gli occhi e ritrovarsi davanti uno scheletro o un’accozzaglia di ossa la fece rabbrividire. Poi vide altro. Il sopracciglio destro irregolare e asimmetrico tornò nella sua naturale posizione. I tratti del viso si asciugarono rivelando una snellezza che non c’era prima. Gli occhi divennero scuri e i capelli bianchi e corti. Accantonò il vomito che le saliva dallo stomaco e, glaciale, attese che la sceneggiata continuasse.

– Nessuno sa chi sono e mi trovo costretto a camuffarmi da anni ormai. Esco raramente, troppo complicato, puoi immaginare, vivo recluso, per questo nessuno mi conosce. Oggi ho immaginato che uno scienziato potesse avere questa faccia che vedi ora sparsa sul tavolo. E poi francamente mi diverte mascherarmi. Mi spiace avertelo detto così ma non avevo scelta. Non sono qui a chiederti scusa. Di cosa poi? Di averti tolto dalla strada? Di averti dato da mangiare e da dormire? No, non devo chiederti scusa di niente. E poi sono padre di altri niños e muchachas sparsi per la Colombia e non solo, tutti con la tua stessa storia di emarginazione, ma tutti con qualcuno che badasse a loro. Di tua madre non ricordo nemmeno il nome, come delle altre donne d’altronde, ma tu sei rimasta sola e mi sono preso cura di te, nei modi che sai. Dovrei pretendere dei ringraziamenti ma non lo farò. Sono qui a dirti che puoi andartene, Francisca, del resto sei sempre mia figlia e io un padre che vuole il suo bene.

Loca si alzò di scatto, tirò fuori la pistola e la puntò dritta su di lui che inmediatamente fece un balzo indietro con la sedia e portò la mano sul fianco pronto a usare l’arma.

– Non ti muovere. Ti conviene stare fermo e seduto e non chiamarmi mai più Francisca. Non so chi tu sia e non mi interessa saperlo. Per me resti solo un farabutto e un criminale. Non mi hai tolto da nessuna strada perché non c’erano strade nel mio paese ma solo fango e giungla. Mia madre era una ragazzina quando mi ha avuto, tu nemmeno sai che privilegio hai avuto nel conoscerla e il suo nome invece io ce l’ho scolpito nel cuore. Non so nemmeno se nelle mie vene scorra il tuo stesso sangue ma ti assicuro che un vincolo naturale o un’affinità consanguinea o un grado di banale parentela non hanno nulla a che vedere con il rispetto e la stima. Non sono questi i legami d’amore.

Miguel, impietrito, non si mosse, con la mano ferma ancorata sulla fondina. Loca teneva il dito saldo sul grilletto. Solo il silenzio deflagrava l’aria. Poi d’impulso abbassò il braccio. Gli voltò le spalle e incurante si avviò all’uscita. Si girò verso di lui un’ultima volta.

– Sai una cosa Señor? Ho imparato che è meglio amputarsi prima, che morire di cancrena poi. Me ne vado. Ho una vita da rivivere da capo. Ti lascio il mio nome, il mio passato e il mio disprezzo. Non sei tu a rendermi la mi libertad. Perché io libera lo sono già. Comunque. Da ora.

E poi solo quel fischio acuto, quel breve sibilo ronzante del volo del proiettile, quel suo viaggio a premere avanti a sé nel semispazio, per vincere la resistenza degli strati d’aria fino a risucchiarla in un preciso calcolo di direzione, senza nessuna deviazione di traiettoria. Un suono continuo quasi musicale interrotto solo dal rumore finale della detonazione. Ci fu una reazione esplosiva, un’onda d’urto, un impulso di pressione. Una manciata di secondi e tutto finì. Nell’aria densa solo fumo, polvere, gas e sangue. Sì, ormai era libera, finalmente libera.