Racconto di David Cerulli
(Prima pubblicazione)
L’attimo prima gli disse: «come si fa a essere ambiziosi e al tempo stesso buoni con gli altri?». L’attimo dopo gli chiese di sganciarle il reggiseno e massaggiarle le spalle. Quello dopo ancora non voleva più risposte né carezze. Lara scattò in piedi, facendo cadere la tazza di gin tonic che teneva fra le ginocchia sulla moquette, poi si voltò a cercare sé stessa negli occhi di chi aveva già smesso di esserci, e la fece finita con Salinger; il salotto si riempì di un suono simile a uno sparo – l’inconfondibile lamento che fanno due pagine scritte nel chiudersi di colpo l’una sull’altra –. Lara buttò Franny e Zooey sul divano, là nell’intreccio di trame lasciato dai loro corpi sui cuscini, dopodiché si mise sulle punte e infine sollevò una gamba: Lara era tornata a essere la ballerina di danza classica d’un tempo.
Tim la guardò esibirsi senza dire una parola. Se ne restò a cavalcioni del bracciolo, in una mano mezzo panino al prosciutto e nell’altra il bicchiere mezzo vuoto; quella sera non sapeva più cosa stesse bevendo; forse vino o birra o vodka, di certo non il gin, lo detestava. Be’, che differenza avrebbe fatto saperlo. Era ubriaco.
«Hey ti sei fatta male?»
«No, figurati se mi faccio male. Ho solo perso l’equilibrio» disse Lara, dopo che Tim ebbe allungato il braccio e teso la mano verso di lei.
«Fermo Tim, fermo ho detto. Non c’è bisogno che mi aiuti».
«Puoi rialzarti da sola».
«Esatto, posso farlo da sola».
Lara aveva provato a fare una piroetta, finendo col rovinare sulla moquette. I suoi seni, ora, erano circondati da laniccio e molliche. Tim e Lara, ovunque andassero, era sempre e solo per lavorare, sempre e solo per affittare il monolocale che potevano permettersi; le pulizie di casa (se così può essere chiamato un contratto d’affitto), le facevano sempre e solo il giorno prima di andarsene da un’altra parte a ricominciare tutto daccapo.
«Resti lì sdraiata?»
«Sì, non voglio più muovermi. Oggi e domani. Per sempre, ferma qui».
«Hai il giorno libero anche domani?»
«No, domani non è libero. Ma me lo prenderò libero lo stesso».
Lara era immobile. La faccia rivolta verso Tim. La guancia poggiata sulla fibra sintetica le faceva venire in mente un atollo affiorato da una discarica. Lara lo guardava con gli occhi di una volta, gli stessi occhi di quella mattina, quando i due si erano incontrati e si erano piaciuti senza dover aprire bocca, qualcosa era scattato in entrambi ed era bastato solo tener alto lo sguardo il tempo dovuto.
«Mentre cadevo l’anca mi ha parlato».
«Dai, non adesso. Non ce la faccio. Lara, per favore, non ora».
«L’anca sfasciata mi ha sussurrato: tutta colpa di Tim; non è un segreto fra ossa e anima?»
«Cristo Santo, sono passati anni. Avevi detto di avermi perdonato. Eravamo appena maggiorenni».
«Tu lo eri. Anagraficamente, è ovvio».
Lara sollevò le spalle quel tanto che le bastò a girare la testa dall’altra parte, verso il televisore e la parete spoglia (a eccezione di un crocifisso appeso in alto), dietro di esso. Una settimana fa Lara era tornata dal turno serale coi capelli rasati a zero. Una sua collega e amica e a detta del personale in cucina non solo questo, una giovane ragazza che come Lara faceva la cameriera nel bistrò specializzato in brunch, dove entrambe lavoravano da più di tre mesi, le aveva fatto quell’acconciatura da skinhead. Lara è fatta così, aveva scritto Tim ieri nel suo diario, una previsione smentita l’indomani dall’imprevedibilità degli elementi. Domani prevista pioggia. Domani invece eccoti schiarite. Domani sereno. Domani invece eccoti il diluvio universale. Domani è primavera. Domani invece ecco che ritorna l’inverno.
«La vedi la cicatrice qua dietro? In un certo senso è opera tua» disse Lara, premendo l’indice sulla nuca nel punto in cui i dottori avevano messo il primo dei venti punti di sutura, occorsi a chiudere la ferita che si era aperta in seguito all’impatto, lasciando in vista il cranio.
«Sai che c’è? Me ne vado a letto».
«Scappa. Davanti alla realtà, dalla verità e da tutto il resto, lui scappa!Sei proprio un’artista, Tim».
Tim addentò il panino e ammorbidì il boccone bevendo quello che era rimasto nel bicchiere. Nel frattempo, Lara, raccontava al quadrante buio del televisore di quando era stata una bambina felice insieme a mamma e papà. Raccontava di come le sarebbe piaciuto avere un fratellino e una sorellina, “perché sono figlia unica anche se di unico non ho niente?” Raccontava di come suo padre le aveva insegnato a guidare la familiare, di come era bello sbattere gli occhi tanto era il sole che picchiava sul cruscotto, “cambiare le marce e uscire da una curva. Seduta al volante sulle gambe di papà”.
Lara raccontava di quando aveva deciso di partire per rendersi indipendente e aveva cercato “un briciolo di umanità” con cui condividere vittorie e sconfitte, sogni e pane e quotidianità, di quando aveva chiesto al ragazzo della libreria:«Ciao, dove posso trovare i classici in edizione tascabile?» e quel ragazzo che era Tim l’aveva accompagnata al piano meno uno dell’edificio.
Dopo il ricordo dell’infanzia e quello dell’adolescenza venne la parte più dura, cruda, venne il passato e con sé il danno irreparabile – il principio dell’età adulta.
«Se quella notte avessi fatto guidare la tua principessa sedicenne», Lara ripeté la parola tua sottovoce e scosse la testa, poi aggiunse «chissà, magari adesso noi non saremmo qui a dannarci l’anima per arrivare a fine mese. Magari tu non scriveresti più e io sarei in giro per il mondo a fare spettacoli. Al Bolshoi, a Broadway o dove mi piacerebbe andare? Ma Tim deve fare l’uomo, deve far vedere a tutti i suoi amici a quei perfetti sconosciuti quanto è grande, quanto è in grado di reggere l’alcol, quanto è ispirato dalla ragazza che ha accanto. Sei sempre stato un’artista, lo sai?».
Lara sfiorò la superficie della moquette con le dita. Intinse i polpastrelli nell’alone umido che odorava di ginepro e chinino. Si portò le dita alla bocca e represse un conato di vomito. Tim si era sdraiato sul divano, le mani intrecciate dietro la testa e gli occhi chiusi come oblò che danno su un mondo che gira più forte, un mondo che si sposta nello spazio, lasciando un solco di luce nel buio del cosmo. «Cos’è? Non hai niente da dire? Ti sei bevuto anche la lingua?»
Tim scalciò via le pantofole che aveva ai piedi, mandandole a schiantare contro la tenda che schermava la finestra del salotto. Sulla stoffa lisa moriva il giorno, sul vetro si riflettevano nuvole di passaggio in corsa verso il tramonto. Là fuori, da qualche parte giù in strada, la voce di una donna. Una frase urlata a qualcuno, una frase che né Tim né Lara riuscirono a comprendere.
Una frase che doveva aver a che fare con la vita.
Mi piace, quanto c’è e quanto non c’è di autobiografico?