Racconto di Mauro Reperto

(prima pubblicazione)

 

«C’è qualcosa che vuoi far sparire?» chiese Aurora a Silvia. Silvia era appena rientrata dal lavoro. Come spesso accadeva aveva trovato in casa la figlia della vicina, la migliore amica di sua figlia Giorgia. Diede un’occhiata al lavello colmo di piatti e bicchieri sporchi.

«Tutta quella roba da lavare» rispose.

Aurora sorrise. «Ho appena costruito uno spariscitore.» Le mostrò orgogliosa un paio di occhiali di cartone che aveva ricavato probabilmente dalla confezione di uno dei giocattoli dell’altro figlio di Silvia, Giovanni. «Basta indossarli e sbattere le palpebre tre volte. Tutto quello che si guarda scompare».

«Ma dai!» Silvia simulò una falsa incredulità.

«Però non so ancora come far tornare indietro le cose».

«Allora meglio non usarli!» Suggerì Silvia.

Qualche giorno dopo la signora Monetti del piano di sotto le chiese se per caso aveva visto il suo gattino Guidobaldo, che era sparito da ormai 48 ore. Silvia disse che non ne sapeva niente, d’altra parte i gatti hanno la tendenza ad allontanarsi. Guidobaldo però non aveva neanche un anno e le pareva strano.

La domenica seguente al parco, Aurora, Giorgia e Giovanni si stavano annoiando come sempre.

«Che cosa facciamo sparire adesso Aurora?» Insisteva Giovanni. «Guarda quel signore che pancia che ha! Fagliela sparire!»

«Se la faccio sparire morirà dissanguato», eccepì lei, «meglio concentrarsi sugli oggetti. Giorgia, vuoi provare?»

«Sì!»

L’amica indossò subito gli occhiali e puntò un gruppo di ragazzi che stavano giocando una partitella nel prato. Fu divertente vedere la loro reazione alla sparizione del pallone.

«Ahahahaaah! I maschi sono proprio dei ritardati!» Commentò Giorgia. Poi sussurrò all’amica per non farsi sentire da suo fratello: «Ma il riscatto per Guidobaldo quando lo chiediamo?»

Aurora le serrò forte il braccio. «Non parlare di queste cose quando c’è Giovanni!» Sibilò. «Devo prima trovare il modo di far tornare le cose scomparse, quindi mi raccomando, non facciamo sparire niente d’importante per adesso!» Giorgia annuì, ma entrambe si chiedevano quanto avrebbero resistito alla tentazione.

All’inizio fu uno spasso: vedere un tipo sportivo pedalare sereno sulla pista ciclabile e un attimo dopo impattare il suolo per la sparizione improvvisa di una delle due ruote era divertente. Era buffo quando il cappello si dileguava e portando via con sé una parte di capelli, sufficiente a lasciare il malcapitato con un taglio discutibile. Era comica la scena di chi, fermo in strada per raccogliere la deiezione del cane che stava portando a spasso, estraeva il sacchetto e si chinava verso il nulla, accusando poi il suo animale di defecatio isterica. Ma dopo un po’ non bastava più. Ebbe inizio così un periodo di terrore nel quartiere, che divenne rapidamente popolare in tutta Italia. Per forza: sparivano alberi dai giardinetti, sparivano lampioni, sparivano cassonetti, ma non la spazzatura contenuta, sparivano cartelli stradali, porte, intere fermate di autobus, e chi più ne ha più ne tolga.

Una sera un certo Alessandro Bressan tornò a casa in auto, scese, chiuse la portiera e… non sentì alcun suono. Si girò e pensò che il furto d’auto più rapido e silenzioso di tutti i tempi fosse stato appena perpetrato ai suoi danni. Scioccato, s’incamminò sul vialetto di casa dove il suo cane Brad (un Pitt-bull) gli stava venendo festosamente incontro; ma giunto a pochi metri da lui accadde di nuovo. Il Bressan poté solo raccogliere un latrato perplesso nell’aria. Arrivarono così le televisioni a intervistare la gente, ma nessuno era in grado di dare spiegazioni.

«Almeno non spiegazioni credibili» pensava a voce alta Silvia sul vaporetto che la portava a lavorare a Murano.

Fino a che un giorno non sparì la casa di una coppia di coreani che abitavano in un villino a 200 metri da lei. Sparirono il tetto, le mura, le finestre, i tramezzi, e tutto quanto, ma rimasero i mobili, la cucina, i servizi, e i coreani, anche loro molto perplessi. A quel punto i prezzi delle case a Mestre crollarono. Qualcuno stava speculando?

La Signora Monetti, intanto, aveva ricevuto una lettera anonima che chiedeva un riscatto di 30 milioni di lire per riavere Guidobaldo. Silvia fu la prima a saperlo.

«30 milioni di lire per un gatto? Ma cosa vuole che me ne freghi di quella bestia! Una cosa è sicura: questa lettera è così ingenua che possono averla mandata solo dei putei! E lei, signora Marangoni, è sicura che sua figlia e la sua amica non c’entrino niente? Non ha notato che la roba non scompare mai quando loro sono a scuola?»

Silvia si avvampò sdegnata.

«Oh senta signora Monetti, se crede che sia colpa di Aurora e di mia figlia, perché non chiama la polizia?»

La Monetti sogghignò. «L’ho già fatto! Anzi, l’abbiamo fatto! Io e il signor Bressan, che ha avuto la stessa richiesta di soldi per il suo cane, e ha visto dei bambini scappare subito dopo le sparizioni. Inoltre, ci sono dei testimoni che hanno visto le bambine al parco del Forte, proprio dove è svanita la vecchia giostra. Voi e la signora Sclip dovreste tenere d’occhio i vostri figli!»

E così quella sera in casa Marangoni c’era un sacco di gente: Aurora, Silvia, la signora Monetti, i figli di Silvia, il signor Bressan, dalla Corea del Sud i coniugi Song, Nicoletta Sclip, madre di Aurora, desiderosa di malmenare la figlia, trattenuta a stento dall’agente di polizia Pavan e dall’ispettore Perrotta, il quale rassicurò i presenti che si trattava di una formalità e che avrebbe posto solo alcune domande. Giovanni si rattristò all’idea che non avrebbe visto i Puffi in tv.

«Bene Signori», iniziò il Perrotta dopo aver ottenuto un po’ di silenzio, «se ci troviamo qui stasera, non è tanto e non solo per le vostre segnalazioni. Siamo in possesso di una registrazione video risalente ad alcuni giorni fa, effettuata da una telecamera a circuito chiuso. Adesso signora Marangoni gliela mostrerò; non le anticipo niente».

Detto questo, trasse dalla sua borsa una videocassetta e la inserì nel videoregistratore collegato alla tv. Poi premette il tasto “play”. Apparve l’immagine un po’ sgranata dell’ingresso di un supermercato, quello di via San Donà. Proprio di fronte un bambino in tuta inforcò un paio di occhiali di cartone che ricordavano molto quelli che vengono distribuiti nei cinema per vedere i film in 3D. Poco dopo un carrello della spesa che aveva appena varcato la soglia non c’era più; il poliziotto a quel punto mise in pausa la riproduzione.

«Lo riconosce?»

Silvia guardò suo figlio, che andò immediatamente a costituirsi piangendo nella sua cameretta, lei lo raggiunse prontamente per registrare la confessione.

«Lo sapevo!» Esclamò stizzita Aurora. «Deve aver letto nel mio diario come si fa uno spariscitore e ne ha fabbricato uno suo. Che irresponsabile!»

«Come hai detto? Spaliscitole? Come spalile?» Il signor Song fino a quel momento aveva osservato un placido e orientale silenzio. Chiese lo spelling della parola alla bambina e trovò la traduzione sul dizionario che si portava sempre appresso, ma sembrava che stesse solo cercando una conferma. Dopo qualche secondo, sorrise. «Ah! Io da piccolo usale scatola di fiocchi d’avena e calta stagnola». «Le hai fatte sparire anche tu tutte quelle cose Aurora?» Il tenente Perrotta si protese verso la bambina, la quale non abbassò lo sguardo.

«No» rispose lei.

«Sai che fine hanno fatto?»

«No, non lo sa, crede di saperlo» disse improvvisamente Giorgia.

«E tu lo sai?» Il tenente era sbalordito e divertito.

«Sì. E ho capito anche come farle riapparire».

«Davvero Giorgia?» Chiese la signora Monetti.

«Sì, ma mi servono alcune cose, prendete nota».

Apparvero all’unisono nelle mani dei presenti penne e taccuini.

«Dunque: un orologio da polso, ma quello ce l’abbiamo; un martello, un metro di velluto nero, tutta la collezione di My Little Pony, l’Allegro Chirurgo, Gira la Moda, la bambola Sbrodolina, il Dolce Forno, la Villa di Barbie…»

«Coooosa?» fece Aurora incredula.

«E una stecca di Kinder da 24 barrette. Poi domani alle 18 precise vi farò riavere tutto».

«Ma che razza di richieste!» Sbottò l’ispettore.

«No, no, momento». Anche la signora Song ruppe il suo maestoso silenzio. «Noi avere perso casa. Tu avrai tutto domani!»

«Nel frattempo dobbiamo requisire il paio di occhiali indossati dal piccolo “delinquente”, come misura precauzionale» concluse imbarazzato il Perrotta dirigendosi verso la cameretta di Giovanni.

Il giorno dopo nello stesso salotto furono radunati gli oggetti richiesti da Giorgia, la quale, con aria serissima, sollevò con solenne lentezza il martello e lo tenne sospeso sopra l’orologio da polso dimenticato a casa loro da Umberto, il nuovo compagno di Silvia. La lancetta dei secondi girò fino a raggiungere il punto che era stato stabilito prima ancora dell’inizio dei Tempi. Giorgia calò con tutte le sue forze il martello sull’orologio, fracassandolo.

«Bene!» Disse soddisfatta. «I vostri guai sono finiti. Signora Monetti, se si affaccia alla finestra dovrebbe vedere il suo gatto».

Non ci fu bisogno, si sentì un forte miagolio di sollievo provenire da sotto, la vicina di casa lo riconobbe subito. «Oh Guidobaldo! Guidobaldo!» Gridò euforica precipitandosi per le scale. Nei giorni seguenti, come profetizzato da Giorgia, le cose riapparvero nello stesso ordine cronologico in cui si erano volatilizzate, e in città tornò la calma. L’incubo era finito anche per Silvia, poiché le denunce erano state ritirate.

«Come facevi a sapere che le cose sarebbero tornate?» Chiese a sua figlia un giorno mentre guardavano Bim Bum Bam con Bonolis.

«Perché quegli occhiali non sono esattamente uno spariscitore. È una macchina coreana del tempo per viaggiare nel futuro tra ventuno giorni. Aurora ha letto il foglietto delle istruzioni per costruirla ma forse la traduzione in italiano non era perfetta. Per fortuna mastico un po’ il coreano».

«E da quando? E il velluto nero a cosa ti serve?»

«Per cucire dei vestiti per Sbrodolina e per la Barbie».

«E perché hai rotto l’orologio di Umberto?»

«Oh, così… per un effetto teatrale».

In realtà a Giorgia servivano alcuni ingranaggi della cassa dell’orologio per costruire uno spariscitore-macchina del tempo da ventuno anni, ma non lo disse per non inquietare ulteriormente sua madre.