Racconto di Graziella Percivale

(Prima pubblicazione – 29 dicembre 2020)

 

 

 

L’ho pregata di venire a casa mia per le 17. Lei, da sola. Ci siamo accordate telefonicamente che avrei lasciato la porta socchiusa perché non sapevo se avrei potuto aspettarla in piedi: la stanchezza mi sfinisce e la mia giornata trascorre quasi interamente tra letto e divano, dove comunque raramente trovo sollievo.

La sento entrare.

“Sono io… posso?” chiede incerta.

”Vieni, vieni pure, sono qui.” Buffo, le ho parlato una sola volta, al telefono, passando direttamente al tu.

Seguendo la mia voce arriva in soggiorno. Mi vede e abbozza un sorriso, in contrasto con l’espressione vagamente interrogativa e un evidente disagio. È sulla difensiva. Ha i capelli sciolti, lucenti e folti come nelle pubblicità, sfacciatamente in contrasto con il foulard che io porto annodato dietro la nuca e che ricopre per intero la mia testa nuda.

La odio ancora di più se fosse possibile, ma non é per dirle il mio odio che le ho chiesto di venire da me. No, non è l’odio che mi ha spinto ad incontrarla ma l’amore, un amore così grande che ora più che mai non mi dà pace. Questo amore si chiama Matteo.

Lei viene avanti.

“Siediti – dico – ma se vuoi un caffè temo che dovrai preparartelo.”

“No, non importa.”

“Ti dico subito perché ti ho chiesto di venire qui, non voglio farti perdere troppo tempo”. Nel dire quelle stupide, banali parole già la mia voce si incrina di pianto.  Sono io, penso, che non posso perdere tempo, perché di tempo non ne ho più.

“Ma figurati…” ribatte lei con una sfumatura di dolcezza che non mi aspettavo e intanto si siede di fronte a me. Nonostante il mio tono sbrigativo e l’affanno che non mi fa respirare, lei sembra meno tesa.

“I medici dicono che mi resta poco…”

Lei fa un cenno con la mano come per dire no, non dire così, ma io continuo:

“è vero. Forse due mesi, al massimo tre. Per questo dovevo assolutamente parlarti. Magari tu hai già capito.”

Lei non muove un muscolo.

Io proseguo: “E’ per Matteo.”

Come è difficile parlarne, come è difficile chiedere aiuto. Continuo:

“è un bambino fragile, delicato di salute e io sono tutto per lui da quando…da quando tu e Nicola…”

Lei abbassa lo sguardo e io scopro in quel momento che farla sentire in colpa non ha più importanza, non aggiunge né toglie niente alla mia disperazione.

“Vedi – continuo – anche adesso, nonostante tutto, cerco di stargli vicino, di essere sempre presente, ma presto non mi sarà più possibile.” Non riesco a proseguire. Le parole sono diventate spilli conficcati in gola.

Lei ora mi guarda senza pietà né commiserazione. E mi accoglie. Accoglie me e il mio bambino.

“Io e Nicola ne abbiamo parlato: io ci sarò per Matteo, se per te va bene, e farò del mio meglio. Tu mi dirai tutto di lui, della sua personalità, del suo carattere, mi dirai quali sono le sue esigenze, cosa lo fa star bene e cosa lo fa soffrire. Imparerò tutto di lui. Vedrai, andrà tutto bene.”

Io la interrompo, le chiedo di portarmi un bicchiere d’acqua. Certo, ne hanno parlato lei e Nicola e questo mi ha facilitato le cose. La gratitudine, addirittura. Qualcosa che non avevo messo in conto.

“è un bambino tranquillo, molto riflessivo – dico – i suoi problemi di salute lo hanno reso più sensibile di quanto sarebbe giusto alla sua età. Ha bisogno di grande armonia attorno a sé.”

“Farò del mio meglio- ripete – te lo prometto.”

Ci accordiamo che verrà a prenderlo tra due giorni per un pomeriggio insieme, per fare in modo che possano conoscersi: nei fine settimana in cui Matteo e suo padre stavano insieme la condizione era che quella il bambino non avrebbe mai dovuto incontrarla. Adesso invece… un’amica della mamma, diremo. E poi, quando sarà venuto il momento gli sembrerà più naturale vederla anche con il papà.

“Ecco, ora ci vorrebbe un caffè, ne ho davvero bisogno” dico.

Poco dopo lei arriva dalla cucina con due tazzine fumanti. Beviamo il caffè in silenzio, perché tutto quello che c’era da dire è stato detto. Poi lei se ne va.

All’improvviso sento una gran pace e l’odio che man mano si spegne per lasciare il posto a un sentimento riconoscente. L’altra, la nemica, quella che si è presa un uomo che non le spettava, che si materializzava ogni notte insieme a lui davanti ai miei occhi spalancati nel buio, che per Matteo neanche deve esistere, e deve stare lontana da mio figlio…quella! Lei ora é diventata la mia unica speranza. Sarebbe fin troppo facile imprecare contro un destino beffardo e invece può apparire paradossale, ma la sua presenza mi ha dato consolazione in questo lacerante prepararmi al distacco.

Sento Matteo che sta rientrando dal parco con la babysitter.  Parlano tra loro, lui è allegro e già vorrei abbracciarlo e non lasciarlo più andare. A fatica mi metto seduta e un attimo dopo lui si stringe a me con quanta forza ha.

“Sai – dice tutto eccitato – al parco ho incontrato un bambino simpatico che mi fatto giocare con le sue macchinine…e poi è arrivata una signora con un barboncino bianco e l’ho accarezzato…e poi…e tu mamma, cosa hai fatto?”

Gli sorrido, gli arruffo i capelli color miele.

“Sono stata bene anch’io. È venuta a trovarmi un’amica che non vedevo da tempo. Te la farò conoscere, sono sicura che ti piacerà.”