Racconto di David Cerulli

(Seconda pubblicazione)

 

Mi stai parlando di prospettiva. Dell’importanza di possedere occhi (hai aperto e chiuso le virgolette con le tue manine di porcellana) «abili nel sentire» ciò che si nasconde dentro alle persone e alle cose che osservi. Fai discorsi davanti al camino acceso, a me che mi sento spento. Con il diaframma inacidito dal cenone di Natale, vai avanti da ore, incurante dei tuoi parenti che ogni tanto si urlano in faccia “TOMBOLA”. Tu te ne freghi delle lucine intermittenti dell’albero. Vorresti disfartene– «quello schifo globalizzato di plastica» –, afferrarlo per il puntale e poi buttarlo giù dal balcone sul tettino del Porsche Cayenne di tuo zio, parcheggiato a spina di pesce sotto casa; zio che ha fatto i soldi con la ditta edile, grazie ai bonus e agli incentivi statali, grazie ai macedoni messi in cantiere senza contratto una volta sì e tre volte no, grazie alla voglia di farsi da sé, grazie a quella di fregare lo Stato che «vuole mettertelo sempre e comunque in quel posto, se paghi le tasse o no a lui non importa. É proprio lì che te lo vuole piazzare. E il modo per farlo lo trova sicuro. Sempre e comunque»: a te tuo zio non è mai stato simpatico, dici che è un beota maschilista e, se Babbo Natale ascoltasse quello che tuo zio ha da dirci, ti darebbe ragione: «A mia moglie, la vostra cara zia, il mio suv non glielo faccio guidare mica. Si sa che non sapete starci al volante, voi qua. Sapete solo provocare incidenti». Eppure, a ogni elezione politica, lo zio vota per il partito di donna Giorgia. Ci confessa il suo credo puntualmente la notte della Vigilia. É solito pontificare dopo aver strizzato uno spicchio di limone sulle ostriche di San Michele. Mentre noi, col suo champagne ghiacciato Dom Pérignon, brindiamo alla salute della famiglia.

Da quando abbiamo smesso di credere nell’esistenza di quel pasciuto e barbuto signore che riempie di doni le case delle anime diligenti, lo zio ci lascia un pensiero natalizio da trecento euro ciascuno «come incoraggiamento per il futuro» sotto l’albero di Natale; lo abbiamo comprato scontato (super offerta) in estate al bazar Mondo China che hanno aperto l’anno scorso sulla provinciale. Questo locale scintillante e denso di profumi artificiali è diventato il santuario moderno dove io e la mia famiglia ammazziamo il tempo sabbioso di ogni domenica: loro comprano e io cito Lao Tzu quando la cassiera – una ragazza che ha le occhiaie e la speranza sbattuta sulla faccia scavata, avrà sì e no vent’anni e la cittadinanza italiana; da queste parti, almeno i cinesi, assumono i miei connazionali a tempo indeterminato – avvicina il pos alla mastercard. Ma torniamo allo zio: è la persona perfetta da tenere vicina nel caso tu abbia voglia di praticare l’arte dell’ipocrisia, è la persona perfetta da tenere lontana nel caso tu abbia voglia di parlare male alle spalle di qualcuno. Il 25 dicembre però puoi sedertici vicino, a tuo zio, che siamo tutti più buoni per il compleanno di Gesù. Che siamo poveri e precari e ancora o di nuovo single. Io e te, che a tombola non abbiamo mai vinto. E che il prossimo anno continueremo ad andare per i quaranta, accontentandoci quando capita di qualche situationship e di aperitivi da dimenticare col Lexotan.

Secondo tuo zio le donne provocano solo incidenti. E anche per me è così. Okay okay aspettate un attimo prima di giudicare: volevo soltanto dire che io da una donna me lo rifarei tamponare all’infinito il cuore (alla cassiera del Mondo China glielo consegnerei così com’è: parzialmente vergine e spezzato – una tartare disunita che scivola sul nastro trasportatore della cassa; tutta colpa del primo amore che l’algoritmo-Cupido aveva organizzato per me a mia insaputa. Di questo ne parlerò fra poco), che poi magari, mentre si compila a due mani la denuncia di sinistro, ci si trova d’accordo su tutto; che nonostante il danno e i rancori da rottamare si è ancora innamorati l’una dell’altro, e che alla fine la colpa dell’incidente è da attribuire a entrambi.

In questo presente dilaniato dalle grida dei parenti e dal tintinnare dei calici di cristallo che non so chi regalò ai miei per il loro matrimonio riparatore, le fiamme consumano la legna intrecciandosi sinuose sopra di essa. Il calore emanato dal camino riscalda solo te. Che parli e parli e parli- Questa tua parlantina sciolta e festosa mi obbliga a lasciare strani pensieri orientali per far ritorno alla realtà, fredda come il volto senza maschera di un manichino che, spogliato della sua identità commerciale, attende il cambio di stagione nella vetrina di un negozio di abbigliamento.

«Ti faccio un esempio,» mi dici: hai labbra spruzzate di zucchero a velo Bauli e briciole di pandoro (il dolce natalizio preferito del tuo zio goloso), appiccicate sulle guance rosse e punteggiate di nei, neanche fossero le ali di una coccinella. «Quel gioco che dobbiamo guardarci fissi e il primo che ride perde; te lo ricordi quando lo facevamo da bambini?».

Muovo la testa come fanno quelli che non hanno nessuna voglia di parlare.

«Ora che siamo grandi dovremmo cambiare le regole» mi guardi con quei canditi al pistacchio che madre natura ti ha infilato fra le palpebre. Ma io in te vedo solo lei, lei che m’ha lasciato tre anni fa con un messaggio whatsapp, lei e i regali inutili che avrà ricevuto oggi. C’eravamo conosciuti su Tinder, io e lei, ci siamo amati tanto e abbiamo fatto amore e sesso sui pixel di uno schermo. Io qui, in Italia, e lei là, nel Tennessee. Per quanto cerchi di analizzare la mia condizione scrivendone settimanalmente sul forum online di Medicitalia.it, ancora non ho trovato il coraggio di entrare in terapia. Mi hanno contattato migliaia di psicologi. Il mio profilo è uno dei più attivi. Il sito web, ne sono sicuro, un giorno premierà la mia costanza virtuale. Al momento, però, nessun miglioramento in vista. Nessun premio di consolazione. Solo tu che discorri come una logorroica.

«Guardiamoci forte forte negli occhi e il primo che piange vince» mi sussurri.

Iniziamo a giocare ma so già che non vincerà nessuno, finiremo in pareggio. Nessuno ride, nessuno lacrima. Tuo zio ha dato un bacio in fronte a tua zia. Dice che forse stasera gli toccherà fare uno strappo alla regola. Ha bevuto troppo, tuo zio dice che la Porsche gli è costata una fortuna e che, se va a sbattere, poi chi la ripaga, dato che lavora solo lui. Quindi stanotte, che l’uomo si è ubriacato, la donna può guidare, e domani anche trovarsi un’occupazione, potrebbe almeno provarci, la zia. Perfino la Befana direbbe che tuo zio è un caso fesso, un egocentrico in abiti griffati, un persico sole. Intanto, io e te siamo ancora qui. Nessuno di noi riesce a ridere o a piangere per finta.

«Pensa a qualcosa di bello o di bruttissimo, vedrai che prima o poi ti scapperà la lacrimuccia» mi dici e poi ti passi la punta della lingua su quelle labbra formidabili – vele di una barca fantasma gonfiate dal vento dell’Oceano Pacifico. Non importa, tanto è uguale. In te vedo solo lei. Che gioca a un due tre stella con la mia anima che si gira dalla parte della luce senza trovarla in movimento, mentre io qui, rabbrividendo davanti al fuoco del camino, provo a pensare sia alla cosa bella che a quella brutta. Eppure non riesco a distinguere l’una dall’altra e allora credo che mi rifarò vivo – con lei – per chiederle se vuole venire a piedi scalza fino a Santiago di Compostela, o in autostop fino a Medjugorje, oppure anche solo da nessuna parte in un abbraccio, per dimenticarci del miracolo che tutt’ora speriamo ci accada, tornare a ridere e a piangere come quando eravamo piccoli piccoli, umanità pronta a esplodere al primo accenno di speranza. Quando i miei giocattoli meravigliosi e i miei compagni di viaggio erano dinosauri-peluche, la loro seconda estinzione dovuta all’esplosione dello smartphone, quel giorno che ho capito di essere diventato grande. Di essere solo.

Tutto questo chiacchiericcio mi ha fatto dimenticare di una cosa fondamentale: lei mi ha bloccato, è impossibile rifarsi vivi dopo che qualcuno non ha più fiducia nei tuoi profili senza post né seguaci. É impossibile rifarsi vivi quando i social e la messaggeria istantanea ti voltano le spalle. E ti hanno lasciato al buio, dal quale ogni tanto si leva la voce petulante di Alexa o di Siri. Non posso farci niente se Deborah Grabskj del Tennessee è scomparsa per sempre nell’America di Trump.

«Eccola! Guarda guarda che bella goccia! Abbiamo un vincitore»

«Contenta? Ora potresti fare silenzio, per favore?».

Tu mi asciughi la faccia accarezzandola con le tue manine di porcellana. Io ti pulisco le labbra con un bacio. É dolce abbastanza questo lieto fine? Dovremmo chiederlo a tua zia, che se ne sta andando con «l’imprenditore edile dell’anno» al seguito. Prima di lasciarci, lo zio si gira verso me e te, barcolla, biascica: «Lei, lei, lei ha le chiavi in mano. Ehhh, sono un uomo finito».

Non a caso la speranza è una parola femminile. Vorrei che fosse mia madre a dirlo, la sposa violata.