Racconto di Giuseppe Fabrizio Ernesto Coco

(Terza pubblicazione – 15 aprile 2021)

 

 

Il balcone esposto a sud ha i cardini incrostati di sporco, lo apro con una certa difficoltà. Guardo il terrazzo ha l’aspetto di un posto investito da una bomba d’acqua: vasi a terra, cocci dappertutto, detriti e foglie secche.

Le tende si spiegano lentamente al venticello, come una crisalide che diventa farfalla, dopo essere state immobili per tanto. Un tempo color avorio, oggi sono grigio antracite a causa della polvere e della fuliggine che vi si è depositata. L’aria fresca spazza via l’odore caustico di chiuso e di muffa infiltrata tra le crepe dei muri.

Sul mobile della macchina da cucire Singer degli anni ’20, posacenere traboccanti, diffondono l’odore bruciaticcio di mozziconi e cenere. La poltrona, un tempo di velluto rosso, è sfondata; sta davanti il mobiletto su cui si trova un televisore portatile Philips di 14 pollici nero: una degli ultimi acquisti fatti, prima che la casa chiudesse la porta al progresso.

La luce illumina il pulviscolo sospeso; il pavimento, in cotto rosso a forma esagonale, è spalmato da una patina appiccicosa di sudicio dove si riconoscono peli di gatto color squama di tartaruga, frammenti di pasta al pomodoro, pezzetti di carota, noccioli d’oliva caduti accidentalmente, diventati piccoli fossili.

Dalla doppia fila di bottiglie di vino vuote, posate con cura lungo il perimetro della stanza, arrivano corposi sentori alcolici.

Spicchi di sole illuminano i ripiani della libreria a muro su cui fanno mostra le coste, un tempo bianche, della raccolta Urania, da numero 1 al 172: ricordi di un tempo in cui credeva in un futuro.

Fermo, accanto al balcone guardo la stanza ed è come se lo vedessi ancora di spalle, seduto sulla poltrona che guarda il televisore spento o le foto incorniciate alle pareti che ricordano momenti, apparentemente felici, di vita trascorsa. Oggi quei ricordi sono sbiaditi e non c’è più nessuno a raccontare il prima e il dopo di quegli attimi immortalati.

Ieri mi sono precipitato a vedere se fosse successo qualcosa, dopo che non ho avuto nessuna risposta alle insipide telefonate che facevo ogni giorno, per mettermi la coscienza a posto:

«Come stai?»

«Tutto bene e tu?»

«Bene. Bene. Hai mangiato? Hai preso le pillole?»

«Sì, certo. Sto bene.»

«Hai bisogno di qualcosa? Devo farti la spesa più grossa?»

«No, grazie. Non ho bisogno di niente. Ci penso da me – come sempre. Buonanotte!»

«Buonanotte, papà.»

Ieri non ha mai risposto.

Non ho suonato, tanto non apriva. Avevo le chiavi e sono entrato.

L’ho visto seduto in poltrona, con il bicchiere di vino in mano, come se guardasse la televisione, ma era spenta, come lui, anche se ancora emanava calore.

Ho chiamato il 118. Lo hanno portato via. I vicini curiosavano da dietro i vetri.

Dalla memoria arrivano le note de La voce del silenzio, la canticchiavi spesso. Quelle parole sembra parlino di te, ma anche di me: mi pare di sentire le nostre voci arrivare dal passato, quando eravamo una famiglia felice.

La cucina diffonde fetore di materia in decomposizione, dovrei andare a vedere, ma resto pietrificato e guardo le statuine di porcellana pacchiane, tanto amate da mamma e i centrini di cotone colorati, fatti con meticolosa precisione dalle sue mani, ora oggetti laidi.

Sento la polvere depositarsi in gola e tra l’epidermide delle mani.

Meglio muoversi e guardare il disfacimento in cucina. Le suole aderiscono leggermente allo strato appiccicoso a terra, ma ho la sensazione di avanzare tra sabbie mobili. Accendo la luce, sono indeciso se aprire la finestra. Sono sicuro che, appena aprirò arriverà la vicina per avere notizie e curiosare.

Non ho voglia di parlare.

La cucina ha un aspetto ributtante: pile di piatti sporchi nell’acquaio, pentole e padelle incrostate di cibo. La pattumiera emana un cattivo odore che si mescola a quello di fogna che fuoriesce dallo scarico del lavandino.

Non so perché apro il frigo. M’investe il puzzo di latte inacidito, cipolla ammuffita e verdura marcia. Sale un conato. Istintivamente forzo la maniglia della finestra e apro.

L’aria fresca mi fa stare meglio. La luce naturale migliora la vista della stanza: le uniche cose in ordine sono le bottiglie di vino rosso, non mi pare una gran marca, sembrano tante per uno che viveva da solo.

Mi ricordo che mamma usava tante spezie, tenute in un mobiletto, è sempre al suo posto. Lo apro, vedo ancora tutti i barattolini trasparenti con dentro sostanze di diversa forma e colore. Trovo del cardamomo nero, l’odore è ancora buono, apro una bacca e la mastico. Il sapore di affumicato e agrumato mi invade il palato e arriva al naso: una boccata di freschezza.

Non ho voluto vedere le bottiglie vuote che mettevi ordinatamente lungo la stanza. Mi mandavi segnali, ma non ascoltavo. Non nego che per me eri un macigno che premeva sulla mia vita. Tutto qui era pesante. Sono scappato per sentirmi libero. Sono dovuto ritornare. Non mi mancate. Mi manca la mia vita.

Suona il campanello. Ecco la vicina, come prevedevo.

Apro indossando un’espressione consona alla circostanza.

«Signora Bertini. Era tanto che non ci si vedeva!»

«Buongiorno, mi dispiace incontrarla in questi tristi momenti.»

«La morte è una delle fasi della vita. Tutti ci dobbiamo passare. E poi ultimamente la salute non era ottima.»

Noto che sotto la giacca sta facendo le corna. Brutta vecchiaccia, davanti alla morte non c’è scaramanzia che tenga.

«Era una così brava persona. Un po’ a modo suo, poi, dopo quello che successe alla povera mamma, non si è più ripreso. Dio li abbia in gloria entrambi. Sa, prego sempre per loro!»

«Molto gentile da parte sua. Anche se loro in fondo, non erano molto religiosi.»

«Ma ora di questa casa che ne vuole fare? Sa com’è, la mia è un po’ piccina ora che mia figlia si è divorziata ed è tornata a casa nostra.»

Che troia, hai sempre sbavato per questa casa. Ma prima di venderla a te e a quella squinternata di figlia, la regalo a un’associazione mafiosa.

«Ci verrò ad abitare io. Devo lasciare l’appartamento. In fondo ci sono affezionato. Poi è piena di luce.»

Ma guarda che faccia che fai. Ci sei rimasta male, vero? Vecchia bagascia, che credevi? Esserti fatta scopare da mio padre non ti dà il diritto di infilarti in casa mia!

La signora Bertini farfuglia qualcosa. Mi saluta e uscendo chiude la porta.

Deciso, spalanco balconi e finestre di tutta la casa: voglio che vada via quest’aria vecchia e irrespirabile.

Entro nella loro camera da letto, ho un groppo alla gola mentre guardo i vecchi mobili, sul letto la coperta a quadrati fatta dalla mia vecchia, la sensazione irritante sulla pelle quando mi ci stendevo. Spalanco ed esco subito.

Esito un momento prima di varcare la soglia di quella che era la mia stanza. Inspiro e giro la maniglia. Una patina di polvere ricopre ogni cosa. Insieme all’odore di chiuso mi investono i ricordi che impregnano ogni centimetro di questo spazio.

Torno in cucina. Dopo aver tirato a lucido un pentolino, apro una bottiglia di vino e lo riempio per metà. Dal mobile delle spezie prendo anice stellato, cannella, chiodi di garofano, noce moscata e cardamomo, le butto dentro il liquido e lascio bollire. Un caldo profumo si diffonde tra le pareti.

In un angolo del terrazzo intravedo una sedia a sdraio. La apro, è ancora in ottime condizioni. Mi siedo alla luce del giorno, adesso non voglio pensare a tutto ciò che dovrò affrontare.

Ora mi godo questo momento: bevo e ricordo.