Racconto di Teodoro Di Leva

(Quarta pubblicazione – 5 maggio 2021)

 

 

 

A sedici anni pesavo quasi cento chili. In prossimità di quella fatidica soglia smisi di pesarmi, perciò non saprò mai quando la superai; perché l’ho superata, e di molto.

A sedici anni ero alto un metro e ottanta. Il mio scheletro ben proporzionato sosteneva senza problemi il carico in eccesso. Non sentivo il peso del mio corpo se non quando venivo fuori dall’acqua, dopo una nuotata. Andavo a fare il bagno insieme ai miei amici in quel laghetto fuori paese, prima che lo bonificassero e ci costruissero il campo da calcio. A pallone non ci hanno mai giocato, dal prato sorgeva tanta acqua che arrivava ai polpacci dei giocatori; poca, comunque, per la palla a nuoto.

Nuotavo da dio. Forse in ottemperanza alla legge di Archimede che afferma che ogni corpo immerso nell’acqua può anche andare a fondo, io galleggiavo come uno stronzo e filavo come un pesce siluro. Quando mi tuffavo non sollevavo il minimo schizzo, l’acqua mi accoglieva come in un abbraccio materno; nuotando increspavo appena la superficie dello stagno e potevo avvicinarmi a chiunque senza che percepisse la mia presenza.

Le ragazze mi guardavano, ammiravano il mio stile perfetto. Allora, il mio corpo non mi faceva ancora ombra. Io preferivo quelle minute. Sentire sotto di me scricchiolare le loro ossa mi dava una sensazione di onnipotenza. Poi l’eco delle mie imprese iniziò a diffondersi. Un paio di poliziotti cornuti, le cui donne si erano procurate due o tre misteriose fratture, incominciarono ad interessarsi di me.

Mi allontanai da quei posti con la carovana di un circo.

Ora dirò una cosa certamente ovvia, ma la dirò in ogni caso. Non c’è mondo più triste di quello del circo. Tutti quei lustrini, i palloncini colorati, le fanfare! Ogni esercizio, ogni salto nel cerchio di fuoco nasconde un cumulo di violenze inaudite. A nessun elefante piace starsene sulle due zampe o sedersi su un ridicolo sgabello. E quei bambini che sorridendo fanno volare torce infuocate o sfere colorate, se gli si scoprisse la schiena si vedrebbero i segni delle scudisciate; che del resto si meritavano fino in fondo: sono pigri, fannulloni e ladri, senza bastonate non imparerebbero un bel niente. Dev’essere il mondo del circo che tutto corrompe, anche gli spettatori che passano lì solo una serata.

Io mi mettevo un pomodoro rosso sul naso, mi pitturavo la faccia ed i capelli con colori inverosimili e mi drappeggiavo in vestiti fantasmagorici. Entravo nell’arena inciampando nelle mie scarpe smisurate e rotolavo nella segatura e nella piscia dei cavalli. Loro mi prendevano a calci ed io rotolavo come un’enorme botte. Gli spettatori ridevano, ridevano i bambini svelando le canaglie che sarebbero state da grandi, copie perfette dei loro genitori cialtroni. Certo, ne ero ben fiero delle loro risate, erano soldoni e pane, ma con stupefacente lucidità vedevo ad una ad una le loro anime malvagie.

Non erano rose e fiori, però si mangiava.

Poi venne l’anno della cometa: passavamo le nottate col naso in su facendo pronostici più o meno disastrosi. Quell’evento, da quasi tutti considerato portatore di infausti presagi, per contro esaltava i nani e gli altri scherzi della natura che formavano buona parte dell’equipaggio di quella nave di folli. Lo sgomento dei compagni ingigantiva la loro perfidia ed essi si burlavano ferocemente della loro superstizione. Quegli esseri diabolici, forse, in qualche modo, avvertivano l’odore di zolfo che emanava dalla coda della cometa in fiamme. Da parte mia non deridevo nessuno poiché sapevo che, cometa o non cometa, i tempi sarebbero comunque cambiati per volgere al brutto.

Il lanciatore di coltelli sosteneva che era stata una cometa, quando ancora la Terra era una brodaglia informe, a portare i germi primordiali della vita in questi paraggi. Quei semi, venuti dai confini dell’universo, mescolandosi con la fanghiglia, avrebbero dato origine ai dinosauri. Era come se la cometa fosse stato uno spermatozoo e la terra l’uovo fertile che attendesse la vita.

L’imbecille conservava, tra le cianfrusaglie nel suo carrozzone, due o tre libri e perciò ostentava una grande cultura. Di sterminata aveva solo la sua vasta vigliaccheria: ogni sera bisognava convincerlo a frustate affinché si decidesse ad eseguire il suo numero. Non era l’abilità che gli faceva difetto, su questo avrei potuto testimoniare io stesso; sarebbe stato capace di tagliarvi un pelo nel naso lanciando una lama da venticinque passi. Nell’ambiente si mormorava che, molti anni prima, durante un’esibizione, aveva piantato proprio l’ultimo coltello tra le costole della sua compagna che pure amava moltissimo. Pare che lo spettacolo avesse avuto un enorme successo tra il pubblico di allora, ma lui non si era mai più ripreso.

“Le comete sono il seme di Dio che vagola per l’universo in cerca di pianeti da fecondare”.

L’uomo, oltre ai coltelli, lanciava formidabili metafore.

La cometa portò la carestia.

Il circo diventò l’ultimo dei pensieri della gente. Passavamo per lande bruciate e città decimate dalle epidemie. La regola era: sfamare prima le bestie, poi, se ce n’era, il personale. Gli animali erano il nostro tesoro, come usava dire il Direttore. Un pagliaccio si fa presto a sostituire, ma un leone ammaestrato che apre le fauci al comando e permette al domatore di infilarci la sua zucca pelata, vanne a trovare un altro!

Era solo una mia impressione gli sguardi furtivi che mi lanciavano i compagni quando si parlava della razione di carne per i leoni che scarseggiava?

Nottetempo fuggii.

Transitavano i carri su di un crinale, la luna luccicava su un’enorme distesa d’acqua immota: era il mare. Non avevo mai visto il mare prima di allora e la mia prima sensazione fu di una grande sete. Avrei voluto bermelo tutto, quel mare; o farmi bere da lui. Rotolai giù dal declivio, tra i sassi ed i rovi, fino alla riva. Quando entrai in mare, l’acqua penetrò nelle ferite con mille fiamme roventi e le pulì, le disinfettò e le rimarginò. Solo allora realizzai che quell’acqua era salata.

Nuotai per ore, per giorni e capii che potevo farlo per sempre, senza stancarmi. Mi immergevo nelle profondità dell’oceano senza alcun timore come se quello fosse stato da sempre il mio elemento. Quando sentivo il bisogno di dormire lo facevo sott’acqua, lasciandomi cullare dalle correnti calde che provenivano dall’equatore. Una breve vertigine ed un sibilo lieve che sorgeva dietro la nuca mi avvertivano che l’ossigeno iniziava a scarseggiare; allora risalivo in superficie non senza timore poiché una volta un arpione mi aveva mancato per un pelo: era una baleniera che mi aveva attaccato confondendomi con un cetaceo. Mi inseguirono per otto giorni ed io mi divertii non poco a portarli a zonzo per i sette mari.

Infine giunsi a quest’isola; lo so che è un’isola poiché l’ho circumnavigata e mi sono ritrovato al punto di partenza. Il posto era bello, frequentato da una colonia di leoni marini e da innumerevoli razze di uccelli, tanto valeva restarci. Ho percorso la strada fin dove finiva.

I leoni marini sono esseri indolenti perciò mi piacciono. Spesso mi devo spintonare con quello che deve essere il capo della combriccola. È più che altro la parodia di una rissa, una ritualità obbligatoria nella complessa liturgia delle relazioni sociali della comunità; pressappoco come quando dalle mie parti si usava invitare i parenti a bere il tè, la domenica pomeriggio, per potersi incolpare, l’un l’altro, delle azioni più meschine e straziarsi con le accuse più infamanti. Il grande capo ben presto si allontana sconsolato, sbuffando e scorreggiando a tutto spiano. Lo sovrasta la mia mole di gran lunga e lo angoscia, probabilmente, la mia assoluta indifferenza al martirio.

Ogni tanto qualche femmina si avvicina per offrirmi i suoi favori, ma io non voglio impegnarmi in una relazione sentimentale. Questo mi creerebbe dei problemi. Non so come sto ad apparati genitali: non mi vedo più neppure i piedi da qualche decennio.

Io me ne sto in disparte (non sono dei loro) insofferente tanto alle regole ipocrite della convivenza quanto a quelle brutali della competizione.

Continuo ad espandermi. Ho assunto un bel colore verdastro.

I ricordi si affievoliscono in un indistinto ciacolare; un sommesso acciottolìo alberga nella mia mente. Chi ero, mi è difficile stabilire; chi sono, meno che mai.

Il lanciatore di coltelli una sera mi confessò che la maggiore difficoltà del suo numero consisteva nell’ignorare quella vocina petulante che gli suggeriva senza sosta di mirare dritto al cuore.

Naturalmente, era destino che diventassi una specie di essere marino, con squame e tutto il resto, ma morire voglio morire sulla terra ferma, con i ciottoli freddi e rotondi sotto il culo, così i gabbiani e gli altri maledetti pennuti che già mi squadrano con malcelato interesse avranno di che banchettare per settimane.