Racconto di Angela Potente

(Ottava pubblicazione)

 

Ho deciso. Ci ho pensato e ripensato tutta la notte. Li ucciderò tutti. Poi mi toccherà spiegare a lui perché sia necessario farlo. E saranno dolori. Sarò costretta a inventare delle ragioni tanto solide che alla fine non potrà che accettare il fatto. Del resto lo farò per il suo bene, io non ci guadagnerò nulla. Se non l’intima soddisfazione di vederli cadere uno dopo l’altro sotto la mia scure, anche se questo a lui non lo confesserò mai. Certo, dovrò sorbirmi le sue rimostranze, i suoi piagnucolii. So già che perorerà la causa di ognuno di loro. All’inizio sarà una difesa timida. Poi prenderà coraggio e sosterrà innumerevoli tesi a suo favore, me le snocciolerà a voce e tramite lettere infuocate ma io sarò irremovibile. Devono morire tutti. Altrimenti non se ne uscirà mai da questo loop. Ecco, proprio questo termine userò: loop. Ha anche un bel suono mentre me lo rigiro tra la lingua e il palato assaporandone il gusto. Lo porrò di fronte a una scelta: o lui o loro. Sceglierà loro non ho dubbi. Per questo sto passando notti insonni. Le mie argomentazioni dovranno essere come il monolite di Kubrick. Ed essere una epifania per lui. Si illuminerà e crederà che, in fondo, anche lui lo ha sempre saputo che per poter continuare a vivere dovrà liberarsi di quei fardelli. Giusto. Fardelli. Pesi, zavorre. Dovrò fargli capire che affinché possa librarsi tra le vette più alte occorrerà sacrificarli.

Ma io, io avrò il coraggio necessario per compiere questo efferato crimine? Sarò capace davvero? Per esempio, se penso a quella figurina di donna che appare timida tra le prime righe sarò forte abbastanza da guardarla negli occhi e dirle: mi dispiace cara ma tu, sì proprio tu, non hai una ragione veramente valida per esistere. Ti ha messa qui per una fugace apparizione, mero strumento per dare voce a un’altra esistenza. E il problema è che con te o senza di te quella, l’altra, esisterebbe comunque. Per cui, vale la pena soffrire per un secondo di gloria? Sarai pure dimenticata nel giro di un virgolettato. Lei alzerà lo sguardo e in quell’occhiata vedrò la sua supplica: non uccidermi. Non gettarmi nel vento. Sarò forte abbastanza da resistere? E quell’omino che lui, inopinatamente, ha piazzato a metà strada, probabilmente un suo ruolo potrebbe anche averlo. Ma quale? Lo ha abbandonato lì a guardarsi intorno come Vincent Vega a casa Wallace, con un punto interrogativo disegnato in faccia a porsi domande tipo dov’è l’interfono cui non avrà mai risposta.

E a proposito di punti, punti e virgola, sospensivi e virgole. Ecco un’altra battaglia che dovrò vincere contro di lui.

Sarà un eccidio? Sì! Dovrà essere tutto eliminato, rimosso, cancellato, cassato. Il mio thesaurus personale potrebbe sfornare altre centinaia di sinonimi fino alla fine dei tempi purché pulizia sia fatta!

Ora gli scrivo e preparo il terreno, incluso sacca e pala per sotterrarli. Lo convincerò a disfarsene.

Caro Talete. No caro è troppo confidenziale, gentile Talete suona meglio.

Gentile Talete,

dopo attente analisi e profondissime riflessioni, sono giunta alla conclusione che affinché la sua opera possa davvero ritenersi di prestigio e restare imperitura nella memoria del mondo, si debba necessariamente scegliere di tagliare membra e teste. Far danzare e volteggiare la scure della grammatica, della logica e a volte anche del buon senso mio caro. Necessita abbattersi come un tornado su virgole e punti, avverbi e aggettivi. Lo so. Lo so che li ha pensati uno per uno, cercati, voluti e amati. Ma il sacrificio è indispensabile. Ogni frase lei penserà di averla cesellata come un fine ricamo, a ogni omino e donnina crederà di aver dato vita disegnandone i contorni con dovizia di particolari e cura estrema, pertanto rinunciarvi le provocherà sofferenza e afflizione. Sono perfettamente conscia di quanto le sto chiedendo. La capisco e la comprendo, glielo assicuro. Ma io sono quel tornado. Io sono la scure e la falce e, mi creda, il mio è un ingrato compito che mai e poi mai vorrei portare a termine. Eppure io mi macchierò dell’orrendo delitto di eliminare i suoi amati. E, non lo dimentichi mai, ne sopporterò la colpa per il resto dei miei giorni.

La mia domanda, però, ora è una sola: è lei disposto a immaginare, un giorno, la sua creatura vestita dal miglior abito possibile, far mostra di sé sotto la luce dorata di un faretto in una vetrina allestita appositamente per accoglierla? Se riesce a visualizzarlo, ma soprattutto a volerlo con ogni sua fibra, mi lasci essere ghigliottina, scure, accetta. Lasci che io uccida e seppellisca nel bosco i suoi avverbi in “mente”, le sue frasi ricorrenti e le sue virgolette alte. Lasci che io sia vendetta e furore come recitavano in quel film che di certo non ricorderà ma non importa. Lasci che io sia tornado e bufera. Non avrà a pentirsene glielo prometto.

Beh, direi che me la sono cavata abbastanza bene. Giusta dose di melodramma, lacrima sospesa sul ciglio indecisa se cadere o meno, assunzione di colpa e visione luminosa del futuro. Sinonimi a dire basta, infatti se non avessi scritto io lo direi “basta”, ma essendo frutto del mio genio li lascio lì a pascere come pecorelle smarrite nella nebbia. Resta ora da vedere se lui accetterà o meno.

Però davvero io mi sento responsabile e triste nell’eliminare in modo capillare aggettivi fuori posto e avverbi fuori luogo. Mi dispiace sul serio.

Peccato che il ghigno che mi scontorna le labbra dica l’esatto contrario.

 

P.S. Questo stralcio tratto dal diario segreto di un editor è solo una boutade. Un gioco di sinonimi, aggettivi e avverbi.

Perché anche gli editor hanno un’anima e giocano.

Forse.