Racconto di Ambrogio Bozzarelli

(Sesta pubblicazione)

 

 

Saliva le scale lentamente. Era diventato anche troppo obeso. Appoggiava la mano sinistra sulla ringhiera e faceva sforzo su di essa per meglio tirarsi su. Sudava copiosamente. E’ vero che faceva caldo. L’estate quell’anno era terribilmente pesante. La canicola si era ben presto impossessata del tempo, come se avesse, lei, con la sua forza interiore annientato completamente il vento.
Prima, lo ricordava, un po’ di vento c’era, ma era un soffio caldo, diciamo pure afoso.

Le scale parevano non finire mai. La rampa che lo portava a casa ogni giorno gli pareva sempre più lunga e difficoltosa. Ma ormai da anni era sempre la medesima scala. Il problema era lui: invecchiava velocemente, non aveva più fatto attività sportiva e in più, sì, in effetti, anche nel mangiare non sapeva regolarsi. Con la mano destra riuscì, nonostante sostenesse un sacchetto plastificato che conteneva il cibo che aveva acquistato al supermercato, ad estrarre un
fazzoletto di carta dalla tasca dei suoi jeans un po’ sdruciti e si tamponò la fronte dalla quale già scendevano copiose gocce di sudore.

Sei rampe di otto scalini cadauna.

Ora Giovanni era arrivato al quattordicesimo scalino. Chissà, magari se avesse avuto una vera vita, una moglie… invece era rimasto uno scapolo incallito e tutta la sua esistenza era stata di una linearità impressionante; qualche relazione con una o due donne, ma tutto a livello superficiale. Amici? Qualcuno, ma lui era sempre stato un solitario.
Da un po’ di anni aveva iniziato a contare gli scalini: vero è che erano sempre 48, ma contandoli così, ogni volta ad ogni passo, sembrava riuscisse a provare una specie di Karma positivo.
Era arrivato al ventesimo e sentì il bisogno di fermarsi. Prese un lungo respiro; no, doveva arrivare almeno sul pianerottolo, al ventiquattresimo,o meglio: dopo il ventiquattresimo scalino.
“ Dai ancora uno sforzo e ce la fai”.
Soffiò, e a voce alta seppur sussurrata: «ventuno, ventidue , ventitré». E lì sopra compariva il pianerottolo:« ventiquattro, ci sono!». Un altro profondo respiro, questo di sollievo, posò il sacchetto plastificato, e guardò verso l’alto: l’infinita , per lui, rampa di scale prima di poter arrivare a casa.
Da quanti tempo faceva quella vita? Provò a guardarsi dentro: aveva sessantasei anni, un po’ di pancia, è vero, ma l’obesità doveva esser ben altra cosa! Molti alla sua età e con un ventre ben più sporgente del suo erano ancora in forma, lui invece, beh, non sapeva il perché ma era, si sentiva,
vecchio, stanco.

Riprese, lentamente, anche se ora non sbuffava più, la salita sempre
contando.
“ 48 , 49, 50 ”, finalmente arrivato al suo piano.
“ 50? ho contato 50 scalini…Cribbio, sono così stanco che sto dando
davvero i numeri.”
Aprì la porta, mentre da quella posta di fronte stava uscendo, con fare
piuttosto agitato, la signora Uletti.
« Ciao Giovanni ».
« Salve Luisa».
Erano quattro anni che abitavano l’uno di fronte all’altro, anche lei sola, vedova, senz’altro più giovane di lui, alta e magra; da ragazza doveva essere stata bellissima, ma anche adesso, con quei suoi capelli raccolti a chignon, di un castano scuro, gli occhi chiari con quello sguardo profondo che
quando ti osservava infondeva un senso di tranquillità; e in quel momento Giovanni la vide diversa: non più come la solita vicina di casa, c’era qualcosa di nuovo, non sapeva descriverlo ma lo sentiva.

«Ciao Luisa». Ripeté, con un sorriso un po’ forzato: « Dove te ne vai di bello a quest’ora?» Aveva aggiunto qualche parola, solitamente invece si limitava a salutare.
« Ecco» , rispose lei con una specie di affanno: « Devo scendere di corsa dal negozio prima che mi chiuda, che mi sono dimenticata di comprare le uova e volevo farmi una frittata… ».
In Giovanni c’era qualcosa di nuovo, si sentiva cambiato, così d’improvviso, come se fosse ringiovanito, o forse… beh, non lo sapeva era consapevole solo di voler continuare a parlare:
« Uova…» una breve pausa « Sai le ho appena comprate, una dozzina, se vuoi , quante te ne servono? ».
« Ma…non è il caso » quasi timidamente.
Giovanni continuò:
« Suvvia tra di noi, vuoi scherzare? Se non ci si aiuta tra vicini dove andremo a finire?».
« Beh, allora, me ne basterebbero tre».
Eccole » veloce, estrasse la confezione dal sacchetto: «Una, due tre, tieni », porgendole alla donna.
Luisa, il cui pallido viso stava colorandosi di un rosa tenue, balbettò:
«Grazie, davvero, eviti di farmi scapiccolare su e giù», e le gote ora si infiammarono di rosso.
«A buon rendere, magari mangiamo insieme uno di questi giorni?»

Questa volta la parlantina di Giovanni si bloccò e rimase con la bocca aperta nel vano tentativo di dare una risposta. Luisa continuava :« Questa sera devo andare di corsa da mia madre, ma se ti va possiamo fare domani per mezzogiorno o la mezza, se sei libero, che ne dici?»
“ « Eh» furono le sole parole che uscirono dalla labbra di Giovanni.
“ Luisa lo prese come un sì: « Bene, grazie, adesso ti lascio, così mangio e poi scappo, ma domani
quando torno da mia madre vieni che ti aspetto, facciamo per la mezza.», concluse con un ampio sorriso.
“« Oh, ma grazie a te, sì.. » Giovanni rimase fermo, basito, con gli occhi fissi sul sorriso della donna e così immobile rimase anche dopo che lei voltatasi era rientrata in casa chiudendo gentilmente la porta dopo avergli fatto un cenno di saluto con la mano.
A casa, più tardi, davanti ad una frittatina, già anche lui alla fine si era fatto una frittata, un bicchiere di vino, lì nella piccola cucina con il televisione acceso sul telegiornale delle 20 si sentì come avvolto da un alone di tristezza. Poi, quasi colpito da una improvvisa necessità si alzò e si diresse vero la sala. Contemplò i suoi libri, o meglio i dorsi degli stessi, tutti ben conservati nella sua capiente libreria. Poi passò alla stanza adiacente ove custodiva gelosamente la collezione di dischi: aveva una serie incredibile, quasi 15 mila, di vinili a 33 giri. Ne prese uno, con sicurezza, aveva una bellissima copertina rossastra che presentava due stupefacenti immaginifici
elefanti con ampie ali quasi trasparenti e più in alto la scritta: Osibisa.
Si sedette sul divano posto di fronte ad un potente ed efficiente sistema di audio con piatti e casse che avrebbe suscitato l’invidia di ogni appassionato di suono. Ma non mise il disco sul piatto, lo teneva in mano osservandone la copertina come se fosse la prima volta che la vedeva.
No, la tristezza non voleva andarsene andare. Cosa gli stava succedendo? Perché era così?
Quando si svegliò, tutto un po’ rattrappito ed infreddolito, il disco fuoriuscito dalla copertina scivolato per terra, erano le 7 del mattino.
Si sentiva solo.
Quanti libri aveva mai letto? Quanta musica aveva mai ascoltato? Aveva letto e ascoltato di tutto: tanto, tantissimo, anche se improvvisamente si rese conto che, forse, nella sua vita non aveva fatto altro che quello. Aveva studiato, poi lavorato, e letto e ascoltato musica. Tutto ciò gli era parso
sempre meravigliosamente bello e utile, ma quella mattina comprese anche che tutto quello che ne aveva tratto era un insegnamento appena superficiale permeato da una grandissima solitudine.

In tutti quegli anni nei rapporti di lavoro, in quelli saltuari con le donne, nei rapporti con gli amici, tutto era rimasto in superficie. Si chiese con un po’ di timore se poi gli amici che aveva erano davvero suoi amici.
Mentre consumava veloce una colazione a base di yogurt e biscotti pensò anche al significato della parola amicizia. Non gli ci volle molto per concludere che per lui i suoi amici in realtà erano solo conoscenti. Del resto lui non li cercava quasi mai, solitamente erano loro che lo chiamavano, alcuni
poi e non certo tutti. Del resto ne aveva davvero pochi. Sì, qualche volta era anche andato a mangiare una pizza.
E così quella mattina, per la prima volta nella sua vita, comprese il significato della solitudine.
Tutto quello che aveva fatto in oltre 60 anni non gli aveva insegnato nulla. Venne preso da una agitazione improvvisa. Cercò di riandare al passato, di ricordare com’era e cosa faceva quand’era bambino, pensò alla vita con i suoi genitori, e poi durante gli studi: come aveva trascorso tutti quegli anni? Cosa davvero aveva fatto in tutto quel periodo? Aveva avuto amici? Ragazze? Si era innamorato? E tutto quello che sin da piccolo aveva letto, gli aveva insegnato qualcosa? Una specie di tremore attraversò il suo corpo.

Si sentiva vecchio, doveva recuperare.
Poi, di colpo, pensò a Luisa. Capì, in quel momento, di avere ancora una chance, che la sua vita poteva, doveva ricominciare, seppe che sino a quel momento, in realtà, non aveva vissuto.
Fu preso da una agitazione che non aveva mai conosciuto. Si infilò di corsa in bagno e si fece una doccia. Rinfrancato, un uomo nuovo. Si sorrise davanti allo specchio mentre si asciugava il volto dopo una veloce rasatura.
“ Beh dai, non sono poi da buttare via”.
Si mise l’orologio, quello da polso, quello bello d’oro, era stato del nonno. Le 9 : poteva scendere in città e andare a comprare qualcosa per Luisa.
“ Una bottiglia… no volgare, meglio un mazzo di fiori… ma le piaceranno o magari lei è una di quelle che non ama vedere i fiori tagliati, e poi che fiori? Rose? Troppo impegnative”, quasi non si accorse di esser già uscito dal portone, aveva sceso la rampa di scale senza problemi. E continuava ad almanaccare:“ Rose  no, escludiamole,  meglio una pianta. Forse la cosa migliore è
chiedere al fioraio.“ La mattinata passò così, veloce tra negozi di fiori . Erano orma le 11,30 , ancora non aveva deciso e il tempo pressava. Si precipitò in un altro negozio di fiori.
“ Devo scegliere qui, s’è fatto tardi”.
E finalmente trovò quello che, almeno secondo quanto gli spiegò il titolare, avrebbe fatto al caso suo: un piccolo ma ben fiorito vaso di rose gialle che significavano armonia, amicizia affettuosa e gioia.
Giovanni era cambiato, forse per la prima volta nella sua vita si sentiva di fa parte di qualcosa, di poter , anzi di dover vivere con altri, insieme ad altri, con qualcuno, in comunità: per vivere davvero.
Era estate, un’estate calda, ma in quel momento lui si sentiva fresco, quasi come se ancora la primavera fosse appena subentrata all’inverno. Arrivò al portone alle 12, 10. Era In tempo, sorrideva e con il vasetto di rose gialle iniziò a salire le scale.
Come d’abitudine contava, ma c’era qualcosa di allegro questa volta nella conta. All’inizio gli parve di salire veloce: 10,11,12, 13, 14, 15.
Ogni tanto osservava in alto e subito dopo dava un sguardo all’orologio, non voleva arrivare in ritardo. 16,17,18,19, 20.
Cominciava ad essere un poco stanco, forse l’aveva presa troppo di fretta.  21,22, 23, ecco lì sopra c’era il pianerottolo 24.
Anche se il vaso era piccolo adesso un poco ne soffriva il peso, forse perché lo teneva sempre con la mano destra. Staccò la mano sinistra dalla ringhiera, quasi non si era accorto d’aver salito tutti quegli scalini sempre tenendosi aggrappato al corrimano.
La fatica però, forse proprio perché non si aiutava più appoggiandosi alla ringhiera, adesso si faceva sempre più sentire.
25.26.
Stava ansimando, e anche contare iniziava a dargli fastidio.
28…,31,32…35
Gli pareva anche di perdere il conto.
Si fermò in mezzo ad una rampa di scale.

Non gli era mai accaduto. Ricambiò nuovamente la posizione con cui teneva il vasetto di rose:
“ Se mi aiuto tenendomi alla ringhiera vado più veloce e fatico di meno”.
36.37.38.
Volgendo gli occhi in alto ebbe come un breve giramento di testa. Il respiro si faceva sempre più affannoso.
40, 42 47, 48…
Ecco: ma non era il suo pianerottolo. Quello era lassù, ancora più in alto. Ma com’era possibile? Aveva davvero sbagliato a contare? Gli pareva che la scala, anzi un po’ tutto il palazzo tremasse, gocce di sudore, gli scesero sulle guance.
Aguzzava la vista per cercare di capire quanti ancora fossero gli scalini da percorrere. Tutto intorno c’era solo silenzio, cercò di guardare l’orologio ma un po’ di sudore scivolato dalla fronte sugli occhi gli offuscava lo sguardo. Riprese a salire, sempre contando ma ormai era arrivato oltre 100 e ancora non si vedeva la fine; 103, 104, anche la gambe adesso parevano non voler più rispondere al suo comando, quasi non riuscissero più a fare quel piccolo movimento di portare il piede da uno scalino all’altro; ma lui continuava: non voleva perdere l’ultima possibilità che gli rimaneva, quella di riuscire finalmente a vivere, ora che sapeva, ne conosceva il significato; e allora ancora uno sforzo, 130, 135,150, il fiato sempre più corto,  i polmoni che pompavano a vuoto,  il forte battito di
un cuore stanco e l’ascesa che continuava, sempre; 161, 170, 174, ora solo rampe di scalini e scalini, senza più pianerottoli, senza più ringhiera, senza più porte, e saliva, saliva, saliva…

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