Racconto di Raffaele Putortì

(Prima pubblicazione)

 

Mi chiamo Marco, scusa questo trambusto, credo che sentirai anche se in lontananza gli schiamazzi di tutta questa gente in spiaggia. Guardano il cielo, è la notte di San Lorenzo, la notte delle stelle, aspettano che cada quella del loro desiderio. Guardami, sono da solo, in riva al mare, ho cinquant’anni, sì lo so, ne dimostro di più. Non ti impressionare per il mio pallore, che fa contrasto con il buio della notte. Quanto urlano questi.

Mi chiamo Grace ed è l’ottava notte. Guardo il mare, nero, sono immobile, forse per la paura, ma so che sto facendo la cosa giusta. Siamo in tanti, non dire niente, intorno a me è silenzio e silenzio deve rimanere, credo che ognuno abbia in testa il suo sogno. Mi puoi vedere negli ultimi giorni, sempre ferma qui, di giorno e di notte, con la mia bambina Joy, di tre anni, con le palpebre che sbattono dal sonno ma che non riesce a dormire, con il mare sempre intorno a noi, sempre uguale. Mi vedi nei giorni ancora precedenti, al villaggio, un bacio a mia mamma, che mi ha regalato una collana di legno, rossa. Poi io e Joy siamo andate via, senza voltarci.

Gli schiamazzi stanno diventando insopportabili, non so nemmeno perché sono qui. Quando c’era lei guardavamo di notte le stelle, ma non avevamo bisogno di esprimere desideri. Vuoi sapere qualcosa in più di me? Mi puoi vedere, un po’più giovane, con i capelli castani e il viso più paffuto, sì, fidati, sono io, mentre busso alla porta di casa e mi apre lei. Ci puoi vedere mentre giochiamo a nasconderci tra le statue di Casa Battlò a Barcellona, oppure sdraiati in spiaggia o ad afferrare le nuvole, Poi lei la vedi sempre di meno, è sempre più magra, sembra sempre più piccola e poi, scusami, non riesco a fermarmi, vedi due rivoli di lacrime che scendono dai miei occhi. Ma perché sono ancora qui? Forse è arrivato il tempo di perdermi tra le onde del mare e non pensarci più, Adesso sta anche diventando un po’mosso. Che ne pensi?

I miei capelli si confondono col buio della notte, ma credo che riesci a vederli, crespi, come noterai la mia pelle nera e liscia, niente rughe. Sono africana. Non ho mai avuto niente di cui sorprendermi, è stato sempre tutto uguale nella mia vita, a parte la nascita di mia figlia, come è sempre uguale il mare intorno a noi da giorni. Per noi le cose che possono sembrare straordinarie sono la normalità, è normale non mangiare, è normale uscire per cercare da mangiare e non tornare più, è normale morire. La vita ci ha tolto, questa è la prima possibilità che abbiamo di avere qualcosa in più. Ma, mi raccomando, silenzio, sennò si arrabbiano. Ho sete, guardo la bottiglia d’acqua, la prendo in mano, ma poi faccio una smorfia, resisto. Nello zaino ne sono rimaste solo due. Con la lingua bagno le labbra, screpolate. Manca l’acqua, eppure ce ne è tanta intorno a noi. Joy, che mi somiglia molto e a cui la nonna ha fatto delle belle treccine prima di partire, mi chiede continuamente dove stiamo andando. E mi ha sempre chiesto dove sia il suo papà. Sono domande a cui ogni volta rispondo con difficoltà. Non è stato facile staccarla dal villaggio, dalla nonna, dai cuginetti, ma non avevamo altra scelta. Lei non l’ha mai conosciuto suo padre e io dopo la sua nascita non l’ho più rivisto, è uscito dal villaggio per cercare il cibo per noi e non è più tornato. Come tanti.  Le ho detto che dove andiamo si dice “papà”.

Ho con me una birra, ne vuoi un po’? A me non va più. No, non mi va proprio più niente. Ma sì, lentamente mi alzo, se avrò il coraggio il mare stanotte mi avvolgerà e sarò in un posto dove starò meglio. Mi avvicino alla riva, cammino piano, so di sembrare un automa, sguardo sempre dritto. Faccio un respiro, chiudendo i miei occhi, già spenti. Li riapro. In lontananza mi sembra di vedere qualcosa.

Joy mi chiede un po’d’acqua, gliela do, capisco che ne vuole ancora, faccio uno sforzo per staccare la bottiglia dalle sue labbra, sta finendo, Joy, ti prego, non piangere. Guardo il mare, sembra che le onde stiano aumentando. Però c’è qualcosa in lontananza, sì, un bagliore,

Cosa è? Non riesco a capirlo.

So che non capisci la nostra lingua, anzi abbiamo tante lingue diverse qui, ma tutti stanno dicendo la stessa parola, quasi increduli: “terra”. Siamo vicini, ti rendi conto, lì vicino è terra! Le altre persone intorno a me si alzano, qualcuno urla di gioia, ma viene zittito subito. Vi avevo detto di fare silenzio. Abbraccio Joy, che si aggrappa alla mia collana. Prendo l’acqua, ne do un bel sorso a mia figlia e uno a me, finalmente posso bere. Do un bacio alla mia bambina.

È sempre più vicina, qualsiasi cosa sia, ma a un certo punto la vedo sempre più piccola, Si avvicina però diventa sempre più piccola. Sempre più piccola, sempre la solita storia. La gente dietro di me urla. Avrà visto un’altra stella.

Sono caduta, non capisco, non riesco a rialzarmi, mi raggiunge l’acqua, tantissima acqua, tento ancora di rialzarmi ma vado giù, Joy è sempre aggrappata alla mia collana. La gente urla, ma adesso di paura. C’è sempre più acqua.

Qualsiasi cosa fosse adesso non la vedo più. Ma cosa era?

Hanno tutti smesso d’urlare, sia sulla spiaggia, sia in mare. Siamo Grace e Marco e non ci siamo mai conosciuti. Eppure siamo stati così vicini. Ci separava il mare. Adesso Grace non la puoi più vedere più.

Al porto stanno soccorrendo i superstiti e c’è una bambina nera, con le treccine e una collana rossa in mano, che con gli occhi spaesati si guarda intorno. Arriva un signore, con i capelli grigi, sulla cinquantina, con in mano del cibo e una grande bottiglia d’acqua. La bambina gli va incontro e si aggrappa forte alle sue gambe, l’uomo è sorpreso ma finalmente i suoi occhi sembrano più vivi e iniziano a spalancarsi, la bambina gli stringe sempre più forte le gambe ed esclama “papà!”