Racconto di Lori Marchesin

(Settima pubblicazione)

 

1970

Javé camminava lungo le stradine di Montmartre; il basco, segno distintivo dell’artista, lasciava scoperta la nuca e parte della testa dove i capelli erano giocattoli tra le dita gelate del vento. Piegato in avanti e infreddolito nonostante la mantella di lana, cercava un caffè aperto dove trangugiare qualcosa di caldo, meglio se alcolico, insieme al disagio che gli attorcigliava lo stomaco.
Aveva accorciato il suo nome perché suonava bene. Si leggeva come J’avais-avevo; non si sa bene cosa aveva, di certo non un gran successo come pittore, giacché era costretto a vendere le proprie tele a pochi euro per mangiare e pagarsi l’affitto della mansarda. Ma era sicuro che alla fine la sua arte sarebbe stata apprezzata, specialmente i suoi nudi che traevano ispirazione scopiazzando da Modigliani. Non era un imbrattatele; le sue pennellate erano morbide come se il pennello accarezzasse quelle forme languide sdraiate su di un divano traballante. Il difficile era trovare le modelle. Non aveva soldi per pagarle e spesso ricorreva ad alcune prostitute che gli erano affezionate. Quando riusciva a vendere qualche tela, offriva loro un pranzo vero, non una baguette con formaggio ma dello stufato innaffiato da vino nero e aspro. Si aiutavano a vicenda possiamo dire.
L’ultimo nudo, appena finito e ancora senza titolo, era il motivo del suo attuale mal di stomaco. La modella, Lisette, anche lei aspirante pittrice, si era offerta di posare gratis in cambio di lezioni sulle tecniche dell’acquarello. Doveva ammettere che era brava, la trasparenza degli strati di colore intensificava le zone luminose dei suoi quadri che ti trasportavano dentro le emozioni dei soggetti dipinti.
Il fatto è che vedendola lì sdraiata davanti a sé, giorno dopo giorno, con quei seni leggermente pendenti quando era girata sul fiacco, ma grossi e sodi (non che li avesse mai toccati, ma avrebbe potuto giurarci), cosce lunghe e levigate, il ventre piatto, la carnagione leggermente ambrata… E il volto? Vi chiederete. Quando riusciva a sollevare lo sguardo, vedeva una cascata di capelli corvini che incorniciavano un ovale irregolare, la bocca carnosa e gli occhi scuri e penetranti ai quali nulla sfuggiva, non di certo la lascivia malcelata del povero Javé che nascondeva il proprio gonfio desiderio dietro al cavalletto. Insomma, il ragazzo si era innamorato e il dramma era che il quadro era finito. E con esso, concluse anche le lezioni di acquarello.
Seduto, solo, al tavolino, si chiedeva se avrebbe trovato il coraggio di confessare la sua passione, perché passione era e spasmodico desiderio che soddisfaceva tristemente sotto le coperte.
Se avesse venduto il quadro per tanti soldi, forse allora avrebbe trovato il coraggio di parlarle, amarla e dipingerla ancora e ancora.

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Lisette stese le gambe e le braccia indolenzite dalla lunga posa su quel divano scalcagnato. Si accarezzò i fianchi, passò le dita tra i capelli ancora umidi dalle ultime pennellate di tempera poi, scavalcando il quadro, posò i piedi sulle assi sconnesse della stanza e si guardò intorno. Era tutto così desolante: una branda, un tavolino con due sedie, tele appoggiate un po’ ovunque contro i muri. Curiosa, si avvicinò per vedere meglio i dipinti nella luce fioca del tramonto che entrava dall’unica finestra – merde et putain! C’est moi partout – Questa è ossessione, non ne voglio sapere…  Il ragazzo non è male con quella testa di ricci biondi e occhi che tradiscono il cuore e non solo, ma io devo pensare al mio futuro, alla mia carriera. Mi ha insegnato tanto, ora devo proseguire da sola. Meglio andarsene prima che Javé ritorni-
Con un balzo, Lisette rientrò nel quadro, scavalcò il divano e si diresse alla porta sul fondo della tela. Con una spinta decisa la spalancò e si trovò in una viuzza sconosciuta e deserta. Non le importava dove portasse, voleva allontanarsi il più possibile dal dipinto.
Camminava rasente il muro, ma non c’era nessuno in giro, solo porte e finestre sbarrate. Tremava di freddo; da quella tela era uscita nuda, nuda sì, anche perché non c’erano abiti in giro. Si chiese dove lui li avesse nascosti.
Al sorgere di un’alba grigia e gocciolante, vide che aveva raggiunto un prato, uno spazio verde e umido di rugiada. Tremava e muoveva le gambe a stento; sarebbe morta congelata senza un riparo. – Merde encore! Forse stavo meglio nel dipinto di Javé, ma ora è troppo tardi.
Il grigio si dissolse sotto delicate pennellate di blu e rosa e tremolii di gocce di sole, un cielo degno di Monet. Lisette vide i ruderi di un casolare e di un fienile. Li raggiunse e, sfinita, si sdraiò e chiuse gli occhi. Non ebbe la forza di riaprirli quando sentì un mantello di lana morbida fasciarle il corpo nudo. Si abbandonò al sonno.

Javé rientrò a casa all’alba. Semintontito dall’alcool, inciampò e finì disteso davanti al cavalletto. Sollevando la testa, fissò la tela con occhi sbarrati: c’era un foro nella parte frontale e un altro nello sfondo. Era fuggita, scappata lontana da lui. Puntellandosi su braccia e ginocchia si alzò e si tuffò dentro la tela, fu come se una sorta di catapulta lo avesse spedito oltre il quadro, oltre il muro facendolo atterrare in una viuzza sconosciuta e deserta.
Il grigiore dell’alba si stava stemperando in tonalità rosa e azzurre. Cominciò a camminare; sentiva il profumo d’erba fresca baciata dal sole, un profumo di pulito, la stessa esperienza liminale che provava quando Lisette entrava nel suo studio. Sentiva che lei era vicina. Poi la scorse.  Era stesa sulla paglia tra i ruderi di un casolare. Con tenerezza la coprì con il suo mantello e, appoggiato al muro del fienile, chiuse gli occhi e sorrise: l’aveva ritrovata.

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La personale della pittrice Lisette Esprit, alla Galerie S.Bensimon, nella primavera del 1971, ebbe un successo strepitoso sia di critica sia di pubblico. Il quadro davanti al quale tutti, ancor oggi, si fermano ipnotizzati dai colori, dalle pennellate liquide, da quel realismo emotivo che ti trasporta dentro il dipinto, è la Fille Endormie. Nella cornice di un fienile, la ragazza dai lunghi capelli neri e dalla bocca carnosa dorme sulla paglia, coperta solo da un drappo di lana.
Accanto alla dormiente: la proiezione di un’ombra allungata sulla quale i critici d’arte continuano a disquisire.

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