Racconto di Claudia Di Silvio

(Prima pubblicazione 27 dicembre 2020)

 

 

 

C’erano finiti quasi per caso in quella casina ma l’avevano subito fatta loro. Aggiustata in economia, pochi pezzi più costosi e un po’ sciccosi, il resto scovato in giro e riadattato o realizzato col fai-da-te con un messaggio molto chiaro: “Siamo così, questo è ciò che conta per noi”.

C’era nata la madre in quella casina, e più precisamente in quella stanza dove adesso avevano ricreato un tempio zen con il bambù, la testata bianca intarsiata e i gingilletti oro illuminati dalla lampada multicolor a led.
Ma se la casina era roba di famiglia, com’è che c’erano finiti quasi per caso? La madre l’aveva ereditata alla morte del nonno e dopo averle dato una sistemata generale quanto era sgarrupata, l’aveva proposta a Cloe e Giorgio che, però, non avevano mai minimamente considerato di viverci prima, vai a capire tu per quale motivo, perdendo anche l’opportunità da lei offerta anni addietro di annettere il piano inferiore, ormai di proprietà dello zio.

Da piccola, Cloe guardava quella casina da sotto. Sul terrazzone della stretta casina c’erano quasi sempre loro, moglie e marito sulla settantina, ma sulla settantina di una volta, che se fosse oggi direbbe almeno dieci anni in più. Erano gli affittuari del nonno che, nel frattempo, si era spostato con la nonna e i figli nella casa accanto più grande ma ugualmente sgarrupata e maleodorante di stalla e galline allo stato libero.
Ai suoi occhioni verdi da bimbetta sembravano poveri e le facevano anche un po’ pena, ancor di più perchè lui, Ea’, un mastrociliegia col bastone in mano, era sordomuto e si lanciava in complessi ragionamenti con lei, suo fratello e suo cugino. Sua moglie gli stava sempre accanto e faceva la traduzione simultanea di tutto ciò che pronunciava.
“Che bel potere che ha!”- pensava Cloe – “una strega buona a cui bastano poche vocali – anzi due, E e A – per dare vita alla voce del marito e farlo affacciare sul mondo”.
E via con domande e richieste solo per ascoltare la durata delle due vocali di Ea’ e cosa avrebbe subito dopo proferito l’anziana signora avvolta dal suo alone di magia. In cuor suo, Cloe sapeva perfettamente che la strega buona inventava tutto ma le piaceva assistere allo spettacolino e viaggiare un po’ con la fantasia.

Quella casina, in realtà, non si era intrecciata molto con la sua infanzia perchè la madre non c’era vissuta a lungo, lei era stata per lo più con sua nonna materna che l’aveva accudita, cresciuta ed educata come una figlia. Ci si ritrovava lì di rado e soprattutto d’estate quando Cloe andava col fratello a trovare il cugino, lui sì che in quella vita bucolica ci stava perfettamente dentro. Si divertivano a giocare con le stelle ninja. Le scagliavano contro gli alberi riproducendo posture e movenze degli antichi guerrieri giapponesi, compresa l’accortezza di ritirarle con un balzo felino e nasconderle dalla vista di chicchessia per mantenerne gelosamente il segreto. Qualche volta preferivano gli animali da cortile – non come bersaglio delle stelle ninja, erano bravi ragazzi loro! – e facevano pure innervosire il nonno che forse neanche li riconosceva quei nipotini della città.

Nella casina gialla, alzarsi prima dell’alba per andare a lavoro era un’impresa da leoni: la giacca blu notte col marchio dell’Hotel era indurita dal freddo e Cloe non c’era abituata, era un po’ signorina lei. “Metti il timer al riscaldamento!” Tuonava la madre quando glielo raccontava ma Cloe sorrideva divertita e non lo faceva mai. Il riscaldamento costa e non voleva di certo sperperare i suoi soldi per qualche agio mattutino. Magari li spendeva in regalini, borse o altre futili chincaglierie ma non per il riscaldamento, non per i vestiti firmati, non per le vacanze lussuose, per l’auto, per i trucchi, creme, gioielli e bijoux. Se lo poteva permettere qualche sfizio, Cloe. Aveva una discreta posizione e aveva messo dei soldi da parte sin da quando, ragazzina, lavorava nel fine settimana. Ma forse era proprio questo suo essere un po’ dura che le aveva consentito di tenersi sempre a galla, anche quando più di una volta aveva lasciato il posto (sicuro?) per tuffarsi in nuove avventure lavorative. Anche quando doveva spendere soldi in viaggi, cure e terapie per coronare quel sogno che nutriva da anni e che non si era mai avverato.

Col marito, avevano provato tutte le strade percorribili: dritte, scoscese, in salita, in discesa. E anche le più tortuose, con qualche incidente bello forte pure. Proprio Cloe che, impegno, testa alta e polso duro, era riuscita in tutte le sue aspirazioni, ora aveva fallito nella cosa che pareva essere la più semplice. Ad ogni modo, non aveva intenzione di rinunciare, o almeno non per il momento.
Il marito la sosteneva ma non si lasciava trasportare dalla situazione. Non è che non ci tenesse, ma sembrava che Giorgio lo facesse più per amore di lei che per se stesso. Anche quando il miracolo sembrava fosse stato compiuto e invece poi si sgretolò come creta arsa al sole, lui rimase tutto d’un pezzo.

Rimase tutto d’un pezzo anche quando Osvaldo se ne andò.
“Non lo voglio vedere steso”. E così si voltò dall’altra parte e rimase in silenzio. E in silenzio li lasciò pure Osvaldo quando decise di andarsene. Così, senza preavviso, senza un saluto. Proprio lui che in silenzio non ci sapeva proprio stare!

Con la madre e Osvaldo, stavano spesso insieme nella casina gialla. C’era sempre un buon motivo per stare insieme, oggi un polpo fresco di pesca, domani la carbonara più scivola scivola del mondo. Vino o birra e un buon dessert, quello non poteva mai mancare. Osvaldo parlava sempre e sapeva pure cucinare. A volte s’infuocava – con simpatia, s’intende – con Giorgio, perchè non era come diceva lui o perchè le cose le sapeva meglio lui. O le faceva meglio lui. Si stava in allegria e se c’era l’Amaro del Capo si facevano pure le due. Giorgio ascoltava e parlava poco, aveva sempre parlato poco e tenuto tutto dentro. Osvaldo parlava, parlava, parlava e se non aveva niente dire, parlava lo stesso. E rideva. E si muoveva. Una volta a forza di muoversi e ridere cadde pure dalla sedia.

Cloe e la madre avevano pensato che a compiere il miracolo fosse stato proprio Osvaldo. Cloe era felicissima ma sul suo cuore c’era volato un batuffolo bianco che ne rendeva ovattata la gioia. Lei era un fiume in piena, avrebbe corso e riso e urlato al mondo, e invece non lo fece. E quando il miracolo si interruppe, fu come raggelata ma non si scompose.

Ogni tanto li ritrovava, Osvaldo e il suo mancato miracolo, in qualche canzone.
Nella casina gialla si ascoltava spesso della musica, soprattutto da quando, ultimamente, era arrivata quella sfera bianca che, chiamata per nome, riproduceva quello che le veniva chiesto ed eseguiva magicamente gli ordini impartiti.

“A., metti la musica che mi piace”
“Ok”
“A., prossimo brano! Questo mi mette tristezza, uffa.”
“Ok”
“No, no, non va bene neanche questo, cambia!”
“Devi dire prima il suo nome se no non li prende i comandi!” – Strillava Giorgio dalla cabina doccia con la porta del bagno mignon aperta perché se no faceva la condensa.

Intanto, il bagnoschiuma al talco si mischiava col palo santo, la mela e cannella e la carne scongelata dalla mattina in un turbinio di profumi ravvicinati come i pochi metri quadrati della casina, metri che Cloe e Giorgio non stavano mai a contare: erano loro, insieme alla casina, “la misura”.

E anche quando arrivò il momento di lasciarla, quella casina rimase sempre così: gialla, fluo e adorata.