Racconto di Federica Sanguigni

(quarta pubblicazione – 3 novembre 2020)

 

  

Si lasciano mai le case dell’infanzia?

Mai: rimangono sempre dentro di noi,

anche quando non esistono più.

(Ferzan Ozpetek)

 

 

Della casa di mia nonna ho un ricordo nitido come un ruscello di acqua limpida.

Era un appartamento all’ultimo piano di un palazzo del centro: tre camere, un bagno, cucina e sala da pranzo separate, non “tutto un ambiente” come si usa oggi. La attraversava, sinuoso come un serpente, un lungo corridoio, con una stufa alla quale mia nonna stava perennemente appiccicata per scaldarsi.

Come in un flash-back, rivivo i momenti felici trascorsi tra quelle mura. Rivedo la stanza dei giochi, quella dove con mia sorella e i miei cugini allestivamo veri e propri campi di battaglia utilizzando tende e coperte, e con le mollette del bucato accroccavamo le pistole. Trascorrevamo pomeriggi interi a divertirci in quella stanza. Eravamo i protagonisti assoluti di giochi ed emozioni che neanche la più sofisticata delle playstation può regalare. La nostra immaginazione e l’audacia dei nostri sogni ci facevano volare su ali leggere disposti anche a scottarci.

Eppure, la fantasia non ci ha mai traditi. Ogni ora era diversa dalle altre. Ogni gioco, seppur ripetuto decine di volte, si accendeva di nuova magia. E quando l’aria diveniva tiepida e i pantaloni si accorciavano e arrotolavamo le maniche delle magliette, le nostre voci che risuonavano allegre giù in strada, ci accompagnavano in infinite corse tra le vie in cerca di un posto dove nascondersi in attesa dell’emozione di gridare “tana!” Allora le ginocchia sbucciate erano un trofeo da esibire con orgoglio anche quando giungeva, dalla nonna, un rimprovero che mal si celava dietro una gustosa merenda.

Poi, si ricominciava. Un, due, tre… Stella! Chi si muove paga pegno.

Pensate che sia all’antica? Avversa alla tecnologia? Forse un po’ sì, ma non me ne cruccio.

Si affacciano, alla mia memoria, quasi con timidezza, le emozioni vissute nei giorni di festa attorno al grande tavolo imbandito per i banchetti natalizi o per il compleanno di turno, nella sala da pranzo. Presenza fissa in tutta la sua maestosa semplicità, la torta gelato con le ciliegie candite. Queste ultime, puntualmente scansate dalla sottoscritta.

La sala da pranzo era tanto bella quanto classica e poco originale nel suo arredamento. I bei quadri alle pareti, la televisione in bianco e nero, “chi si alza per cambiare canale?”, il divano e le poltrone, una credenza che occupava tutta una parete e nella quale erano custoditi il servizio buono e qualche cianfrusaglia che si era audacemente guadagnata un posto di tutto rispetto nel mobile importante. All’esterno e tutto intorno, correva un grande balcone a “elle” che ospitava le meravigliose piante curate con amore devoto da mia nonna.

Erano il suo orgoglio, le piante. Conservo ancora una foto di lei con un vaso coloratissimo di fiori rossi. Il suo sorriso, illuminato da quei colori vivaci, esprimeva l’orgoglio del suo pollice verde. I petali vellutati, che danzavano mossi dal lieve vento nelle serate estive e calde, profumavano le ore crepuscolari. I rumori del vicolo si attenuavano e i cartoni animati, quelli belli, iniziavano alla tele.

Ora, i fiori che adornano la sua ultima dimora, mi paiono tristi e di scarso conforto se non per le nostre coscienze.

Ricordi un po’ sbiaditi continuano a passeggiare nelle stanze affollate della mia mente. Fa capolino una nostalgia sciocca e infantile che mi intenerisce. Ecco mia nonna intenta a preparare il sugo. Con mia grande gioia e sorpresa, la osservo prendere un pezzo di pane e intingerlo nel contenuto della pentola fumante per poi invitarmi a mangiarlo. Potente come uno schiaffo che stordisce senza far male, mi colpisce il profumo che torna a solleticare le mie narici mentre avverto quel delizioso sapore di buona vita come stessi gustando il pane qui e ora. Di tutte le pietanze che ho avuto il piacere di mangiare negli anni a venire, in nessuna ho mai trovato quel connubio perfetto di amore e sapore, segno evidente che mia nonna cucinasse pensando a chi amava anziché limitarsi a preparare da mangiare.

Rammento le serate trascorse a farle compagnia. Aveva terrore del buio e della solitudine.

Te ne sei andata da sola. In un letto non tuo. In una casa non tua.

Nelle orecchie ho ancora le nostre infinite chiacchierate che si prolungavano fino a notte fonda quando poi mi addormentavo nel lettone con lei per risvegliarmi, al mattino, al dolce canto degli uccellini o al suono melodioso delle campane della vicina chiesa, la domenica. I suoi racconti del passato, della sua vita di giovinetta amata e coccolata, le confidenze come tra amiche.

A volte, mentre parlava, si interrompeva all’improvviso se avvertiva il rumore lontano di un aereo attraversante il cielo. Io tacevo. Non osavo interrompere quel brevissimo viaggio all’indietro nel tempo che sapevo bene dove la stesse conducendo. Attendevo in silenzio che riprendesse il racconto ma i suoi occhi, velati da una profonda malinconia, narravano un’altra storia.

Volete sapere se mi manca quella casa?

Sì, mi manca molto. Così come mi manca mia nonna e il suo esserci stata sempre per me.

Se avevo bisogno di sfogarmi, lei era pronta ad ascoltarmi. Se volevo scambiare una parola, lei conversava con me pronta ad asciugare le mie lacrime di adolescente perennemente insoddisfatta, con la risata in tasca che lesta tirava fuori se le raccontavo un aneddoto divertente.

L’emozione più grande era quando mi accompagnava nei miei sogni a occhi aperti. Se il mio desiderio del momento era andare in missione per aiutare i più sfortunati, lei tirava fuori la valigia dall’armadio pronta a partire con me. Se il ragazzetto per il quale avevo preso una cotta mi rivolgeva un sorriso e glielo raccontavo come fosse la cosa più bella del mondo, lei si innamorava con me.

Oggi che avrei tanto da raccontarle, oggi che sono una donna nuova, oggi che vorrei sedermi ai suoi piedi e leggerle le mie poesie, lei non c’è più. E quello che mi lacera l’animo fino a farlo sanguinare è il rimpianto di non essere stata presente quando più aveva bisogno di me.

Le ho voluto bene. Di un bene senza confini e senza tempo. L’ho aiutata spesso in tante piccole cose ma quando il fardello è divenuto troppo pesante per le sue esili spalle, io non ero lì ad aiutarla a sorreggerlo. Quando la sua mente arrancava confusa nel labirinto di un vissuto lontano e sfocato, io non ero con lei per porgerle il filo. E quando i suoi occhi si sono spenti per sempre sul palcoscenico della vita, io non ero presente ai saluti.

Questo mi fa male, tanto. Un dolore indicibile e sordo che mi ha portata a violentare me stessa fin quasi a rimuovere il suo ricordo. Per non sentire la sofferenza che mi avrebbe imprigionata in una gabbia buia e soffocante, ho trascorso anni a pensare a lei il meno possibile perché quando il tormento pulsava forte dentro il mio animo, infischiandosene della mia volontà, il cuore mio piangeva tutte le lacrime che aveva strozzato e io non avevo alcuna cura per consolarlo.

Oggi ho fatto pace con quel dolore, come con tanti altri. Ho perdonato me stessa e imparato a essere migliore.

Oggi sento mia nonna vicina a me, senza astio né rancore. Le sue mani, le sue bellissime mani di donna d’altri tempi, mi accarezzano ancora con amore. I suoi occhi liquidi mi guardano con bontà parlandomi, in silenzio, in una lingua che conosciamo solo lei e io.

Oggi che sono diventata grande, mi ritrovo a passare sotto la casa di mia nonna e a rivolgere uno sguardo in su. Vorrei essere audace e sfrontata abbastanza da suonare il campanello e chiedere di entrare per dare un’occhiata. Ma, audacia e sfrontatezza a parte, so che gli odori e le voci che sentirei, mi farebbero solo del male.

E poi, io lo so bene. Quella casa, anche se verrà abitata da decine e decine di nuove persone, sarà sempre e solo la casa di mia nonna.

 

Incontro

a volte

il tuo dolce sguardo nei miei sogni.

Il tuo sorriso,

di rado la tua voce,

accompagnano questi brevi viaggi notturni.

Quando ti scorgo

corrucciata e muta

capisco che qualcosa

nella mia vita

non sta andando per il giusto verso.

E al risveglio

vivo e pulsante

il ricordo della tua voce

finalmente

 mi parla.