Racconto di Antonella Parisi

(Terza pubblicazione – 6 aprile 2021)

 

 

Sono le 7.40, sto entrando in ospedale per il primo turno, appena in tempo per cambiarmi ed arrivare in corsia. Sono infermiera e lavoro da quasi venti anni nel reparto di geriatria. Da quando è iniziata la pandemia di Covid, il reparto ospita quasi tutti pazienti positivi, molti con pregresse patologie, che comunicano con gli occhi tutta la loro paura di non farcela. A causa del Covid, devo vestirmi con uno speciale equipaggiamento, per il quale spesso mi sento soffocare e sono costretta ad indossare anche lenti protettive che mi lasciano sul viso dei profondi solchi rossi. Mia figlia, di appena cinque anni, dopo avermi visto, in una foto, in tuta anti-covid, mi dice: “mamma non ti ho riconosciuta, somigli ad un omino che va sulla luna”. Quella mattina la mia attenzione è attirata dai lamenti che provengono dalla stanza numero dodici. Chiedo subito ai colleghi che hanno appena finito il turno e mi informano che è stato ricoverato nella notte un uomo ultraottantenne, positivo al Covid, diabetico, che chiede continuamente di Anna, la figlia che lo ha accompagnato. Mi avvicino con cautela, sembra assopito, respira grazie all’ossigeno, mi accerto che sia tutto nella norma e mentre mi allontano con un cenno della mano mi fa capire che vuole un foglio per scrivere. Con la poca forza che gli resta scrive il nome della figlia: Anna. Io mi presento, dico che sono Cristina, un’infermiera del reparto e lo informo che non posso chiamare la figlia, per questione di sicurezza. Con le lacrime agli occhi mi afferra la mano e non vuole lasciarla, percepisco il senso di smarrimento nel suo sguardo. In quei momenti mi sento impotente, per un istante immagino se ci fosse mia madre al suo posto, tuttavia cerco di tranquillizzarlo come posso. Il giorno seguente, ho il turno di notte, non appena arrivo in reparto mi accerto delle condizioni dell’uomo, Antonio è il suo nome, prendo atto che è stabile e che dorme abbastanza tranquillo. A fine turno faccio capolino nella sua stanza, si sta svegliando, lo saluto e mi fa segno di avvicinarmi. Mi dice soltanto grazie, allontanando per qualche istante la mascherina dell’ossigeno, io lo saluto con una carezza, come faccio con la mia mamma quando vado a trovarla la sera a fine giornata. Col passare dei mesi da quando è iniziata la pandemia, mi accorgo che mi sento incapace, inadeguata, di fronte alla sofferenza, alla malattia. Questo senso d’impotenza si fa strada in me lentamente, come fossi un’infermiera alla prima esperienza. Mi sento coinvolta dalle situazioni personali dei malati a tal punto che sto perdendo la serenità necessaria per lavorare. Su suggerimento di mio marito, anche lui infermiere, prenoto un appuntamento con il servizio di supporto psicologico dell’ospedale. Il primo incontro è per la settimana seguente. Al primo appuntamento dalla psicologa sono timorosa, ho molte remore a lasciarmi andare. Subito le espongo il problema, lei mi lascia parlare senza interrompermi, e a conclusione della seduta, stabilisce l’incontro successivo. Esco dallo studio soddisfatta, come se parlare delle mie angosce mi sia servito a restituirmi una certa serenità. Intanto il mio lavoro in reparto procede secondo routine. Nella seduta successiva la psicologa mi fa focalizzare l’attenzione sul paziente Antonio che ha determinato in me l’inizio del cambiamento. Mentre le racconto brevemente l’accaduto, la dottoressa cerca di spostare il mio discorso al momento del saluto, al gesto della carezza. Senza rendermene conto comincio a parlare della mia mamma. La mamma Irene, purtroppo, da tempo è malata e non è più autosufficiente. Riesce a comunicare soltanto con gli occhi. Vado a trovarla, come posso, a fine turno, spesso la sera, e la saluto con una carezza. Lei risponde con un accenno di sorriso o così mi piace credere. Sono quasi dieci anni che per lei la vita si è interrotta definitivamente, una mattina, dopo una brusca caduta. Non mi rassegno al pensiero di vederla consumare un giorno dopo l’altro, il destino inclemente le ha tolto la cosa a cui teneva di più: l’autonomia. Per lei, che aveva insegnato più di 40 anni, non riuscire più a parlare deve essere una punizione insopportabile. Pian piano la psicologa vuole rendermi consapevole che inconsciamente trasferisco sull’anziano paziente le cure che avrei voluto prodigare alla mamma. Intanto che procede la mia psicoterapia, il paziente Antonio migliora, gli viene tolto l’ossigeno e spostato di stanza, fra altri degenti in via di dimissione. Infatti una sera a inizio turno lo trovo sveglio, seduto ai piedi del letto, in grado di respirare abbastanza bene autonomamente. Non appena mi vede mi chiede se lo aiuto con il cellulare a comporre il numero della figlia Anna. Quindi fa il numero e attende risposta. Non appena sente la figlia, con voce ferma risponde: “Ciao Anna, sto meglio, qui ho trovato un angelo che si è preso cura di me, si chiama Cristina, mi ha aiutato come fosse un’altra figlia”. Parla tutto d’un fiato a voler dimostrare che sta bene e può tornare a casa. In quel momento quasi non riesco a trattenere le lacrime, ma cerco di non darlo a vedere, in cuor mio avrei sperato che anche la mia mamma un giorno, all’improvviso, potesse parlarmi così. Intanto lo saluto con la consueta carezza della sera e mi avvio verso l’uscita, ho appena finito il turno.