Racconto di Cristina Biolcati

(Quarta pubblicazione)

 

 

Al campeggio del lago soffiava una brezza leggera. Una donna con le cosce che trasbordavano da un paio di shorts stava facendo la predica alla figlia, in tedesco. Io e Luca eravamo seduti con lo sguardo rivolto all’acqua. Lui aveva voluto con sé una radiolina per ascoltare la musica.

Un gruppo di ragazzi, tre maschi e due femmine, si passava una palla. Quando volò in acqua, il bagnino si trascinò a prenderla con una barca di salvataggio. Una delle ragazze prese a incitarlo, salendo sulla torretta. Il bagnino però si voltò indietro, dicendole di scendere. Quando la palla fu in mani sicure, fecero un applauso.

La tedesca aveva nel frattempo terminato la sua ramanzina e si era sdraiata su un asciugamano bianco, che faceva pendant col bikini sbiadito. La bimba si era avvicinata all’acqua, col suo secchiello, mentre dalla radio di Luca gracchiava una canzone, probabilmente uno di quei tormentoni che presto sarebbe venuto a noia.

Era una piccola e meritata vacanza, una fuga di madre e figlio. Avevamo seguito i cartelli per il camping: era stato facile. Per settimane avevo litigato con mio marito. Lo avevo beccato al telefono mentre si confidava con un parente.

«Non mi fido a mandarli da soli» aveva detto, cercando di abbassare la voce nell’eventualità io fossi nei paraggi. «Luca è mio figlio, gli voglio bene, ma è evidente che ha dei problemi.»

C’ero rimasta male. Se non credeva lui, in Luca, chi altri poteva farlo?

«Lo dico per te, Sara. Per voi» aveva cercato di recuperare. «Non potrò esserci, lo sai. Ho paura che qualcuno vi manchi di rispetto.»

Luca era un ragazzino di undici anni, mica l’arcidiavolo!

Mio marito le ferie le avrebbe avute ad agosto. La mia idea era nata da un’urgenza che non poteva aspettare. Un’amica era venuta lì, a trascorrere il weekend, e me ne aveva parlato. Ero una madre orribile, se avevo iniziato a sognare di poterci andare anch’io? Ci sono giochi per bambini, si socializza, aveva detto. E poi il cuoco è bolognese.

A maggio i prezzi erano contenuti, mio marito alla fine aveva ceduto.

Dopo la struttura, col ristorante e i bungalow, c’era una pittoresca discesa, che nell’ultimo tratto digradava. Ed ecco lì, il lago di Garda, organizzato sulla sponda come si fosse in uno stabilimento balneare.

Tanto scompiglio per un pallone finito in acqua? Luca si era alzato e aveva cominciato a gironzolare intorno alla bimba tedesca. Lei stava mettendo qualcosa nel secchiello. «Grande!» disse Luca, sghignazzando alla sua maniera. «Somiglia a un ragno, eh?»

Luca ce la metteva tutta, ma la ragazzina non lo capiva. Lei capovolse il gambero d’acqua dolce, o quello che era, rivelando un agitarsi di zampe. Luca cacciò un urlo, corse da me senza dire niente, e poi tornò da lei.

La madre della bimba aveva sorriso. Le spalle denudate, per prendere meglio il sole, rivelavano un fisico possente, invecchiato prima del tempo. Io ero mingherlina, proporzionata, eppure non avevo la sua audacia. Me ne stavo seduta composta, abbottonata nel mio costume intero. Invidiavo la sua libertà, il bel rapporto che aveva col corpo.

I nostri figli si erano inginocchiati, uno accanto all’altra, e facevano cadere sul gambero una poltiglia bagnata.

«Si va a pranzo?» fece il bagnino, sorridendo in direzione della donna tedesca, che aveva assunto un simpatico colore rosa, in contrasto col bianco latteo della sua pelle.

Al ristorante ci sarebbero state tante buone cose e l’idea mi mise una sorta di buonumore.

Il fischietto del bagnino cinguettò in tre tempi. Me lo avevano detto, lì si era come una grande famiglia. E comunque, la cucina non restava mica aperta a orario continuato.

La tedesca si tirò su, incurvò la schiena stiracchiandosi. Anche il gruppetto dei ragazzi si preparò ad arrancare verso il ristorante. La più robusta delle due femmine, si lasciò cadere su una panca accanto a me. Un giovane con della crema fosforescente sul naso la puntò e andò a sedersi sulle sue gambe. «Uffa» fece lei, ma si vedeva che era contenta.

Il mio Luca si strattonava la maglietta. Se la sfilò a fatica e poi la adagiò aperta sulla sabbia. L’amichetta ci posò sopra il gambero. Insieme presero a trascinare la maglietta, ma facevano un gran polverone. Il petto di mio figlio era bianco come la farina, rachitico, le braccia erano tubolari, vicino a quelle abbronzate e tornite della ragazzina.

Alla madre, nel corso della mattinata, qualcuno aveva chiesto come fosse la Germania. Peccato che lei non parlasse italiano e rispondesse a tutti: Okay, okay. Mi chiesi come doveva essere sentirsi così.

«Ora lo senti, Nico» disse il ragazzo col naso fosforescente. «Quello ci ammazza!» «Avevamo detto di no» commentò la ragazza robusta. «Dai, Simo. Ti levi? Non sento più le gambe.» Si alzarono in fretta. Il più mingherlino fra loro gridò: «Bastardi! Me la pagate! Dove sono finite le mie ciabatte?»

Luca arrivò saltellando. «Devi vedere, mamma» disse.

«Luca, smettila di fare avanti e indietro» risposi. «Rimettiti la maglietta, che è ora di andare a mangiare.» E partì un lamento. Quel lamento, che normalmente faceva voltare tutti.

«Guarda» disse, all’improvviso. Si girò e si precipitò, a passo sgraziato, verso l’acqua. Si compiaceva della propria presunta velocità. Sono vellocce. La donna tedesca aveva nel frattempo fatto su la sua roba e chiamato la bambina. Ubbidiente, come un soldatino, quest’ultima prese il secchiello e andò dalla madre, lasciando mio figlio a dondolarsi le ginocchia sulla riva.

«Certi bambini crescono in fretta» disse la ragazza robusta, che era tornata indietro. Mi passò accanto, e la vidi armeggiare sotto la panca. Tirò fuori un paio di infradito, dall’aria vissuta. Lo scherzo era riuscito, mi figuravo quel poveretto, a tavola col bagnino, a piedi nudi. Lei mi fece un sorriso. Aveva una bella faccia. «Ad altri invece è concesso di restare bambini più a lungo. I più fortunati, per come la vedo io.»

La vidi allontanarsi. Dovevo andare a consolare mio figlio.

Mi avvicinai e cercai di arginarlo con le braccia. Al solito, Luca si scostò in malo modo.

«Quanto fai in un minuto?» gli chiesi. Sapevo che era l’unico modo per riportarlo alla realtà. Luca era corto di fiato. «Un chilometro» ansimò. «Sì, certo» finsi. «Papà ti ha anche cronometrato.»

Allora gli si allargò un sorriso. La vita per lui era una continua sfida.

«È ora di andare a mangiare! Cosa vorresti?» Niente, era un argomento che non gli interessava. Avrei fatto o detto qualunque cosa, pur di non sentire quel verso. Anche: vuoi che chiami papà? Ma ero sua madre, dovevo imparare a gestirlo.

«Scommettiamo che mangio più pane di te?» mi venne così, d’impulso. «Il mio record da ragazzina era di cinque panini mignon, mentre aspettavo che al ristorante mi portassero il primo.»

Forse fu la parola mignon che lo fece ridere. «Il mio reccodd è mille panini!» gridò. «Anniamo!», e allora Luca si alzò d’improvviso, col suo modo buffo, e si mise a correre in cerchio.

Lo presi per mano e lo indirizzai verso la salita. Strada facendo raccolsi il mio telo, le nostre ciabatte. Gli sistemai la maglietta. Eravamo attesi in una sala da pranzo, volevo fosse in ordine. Dopo una pennichella, saremmo tornati a giocare sulle rive del lago. Ci sarebbe stata anche la bimba tedesca, i ragazzi del gruppo. Al tramonto io avrei passeggiato sulla riva, col cellulare in mano, per raccontare a mio marito della nostra giornata.

«Pensa Franco,» gli avrei detto «c’è gente che ama tutti i ragazzi del mondo ed è orgoglioso di ciascuno di loro, perfino del nostro. Qualcuno ha sorriso, come se amasse anche me. L’ho lasciato entrare, tutto quell’amore che non mi aspettavo.»

E allora ho pensato che anch’io avrei voluto essere come quelle rocce, quelle acque, quelle rive. D’ora in poi avrei accolto tutti. Da tempo sognavo di non avere paura di niente, come un uccello che io e Luca avevamo sentito cantare la notte precedente, dalla zanzariera del nostro bungalow. Era solo, là fuori. Eppure esprimeva il suo canto, perché quella era la sua natura.

Ecco, Franco, forse la mia natura è stata snaturata. Mi sono successe tante cose. Non possiamo cambiare quel che ci accade, però lo possiamo vivere con occhi diversi.

 

 

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