Racconto di Marco Beretti
(Prima pubblicazione)
I rapporti con mio fratello Mario si erano ormai ridotti a una pacifica e apatica coabitazione. Benché l’appartamento fosse dotato di un’ulteriore camera da letto, eravamo costretti a condividere la stessa stanza.
Nostra madre era stata chiara sulla questione: «I fratelli dormono assieme.»
Le mie rimostranze sull’assurdità di questa regola venivano puntualmente stroncate dal commento di nostro padre: «Noi dormivamo in quattro nello stesso letto. E non ci lamentavamo.»
Eppure, fino a qualche anno prima, io e Mario giocavamo assieme e frequentavamo la medesima compagnia. Non ricordo di avere mai veramente litigato con lui. Sì, avevamo fatto a botte qualche volta, ma tra fratelli penso sia una cosa normale. Il fatto è che ci eravamo semplicemente allontanati.
Lui si era unito alla compagnia dei fighetti, quelli che frequentavano le discoteche dance, si acconciavano i capelli stile Beverly Hills 90210 e indossavano un’orrenda camicia di colore rosa.
Io continuavo a bazzicare gli amici di sempre, quelli del quartiere popolare.
Mario si era separato anche da Carlo, il suo migliore amico. Erano cresciuti insieme fino all’età di sedici anni, condividendo ogni esperienza. Carlo, terminate le scuole medie, era destinato alla fabbrica come suo padre. Mio fratello invece si era iscritto all’istituto professionale e, dopo il conseguimento del diplomino, si era trovato un lavoro da elettricista. In quell’ambiente aveva stretto nuove amicizie e senza farsi troppi scrupoli, aveva dato un taglio netto alla sua vita precedente.
Per me Carlo era una specie di mito, una rockstar. Capelli lunghi fino a metà schiena, sguardo arrabbiato e sigaretta in bocca. Era stato lui a insegnarmi a calciare il pallone di collo e non di punta, così come mi aveva istruito nell’arte di accendere fuochi e di costruire capanne. La mia educazione sessuale si era formata grazie ai giornaletti porno che mi passava. Sempre lui mi aveva difeso nelle risse con le bande rivali e non quei quattro fighetti con cui si era messo mio fratello.
Eppure, a inizio estate, Mario mi aveva lasciato a bocca aperta con queste parole: «Non ti fidare di Carlo: è un tossico.»
Ero rimasto muto come un pesce. Attonito.
Una volta ripreso dallo stupore per quella affermazione, mi erano venute in mente tutte le frasi che gli avrei voluto urlare in faccia. «Un tossico? Ma che cazzo dici! Luigi è un tossico!» questo avrei dovuto gridare.
Ma forse Luigi non era l’esempio più opportuno. Si faceva, questo era abbastanza evidente, ma era anche una persona molto gentile. Provavo rabbia, quando gli adulti lo additavano e poi si davano di gomito. «C’è Gina la checca» questo era il modo con cui chiamavano Luigi gli abitanti di quello stupido paese.
E comunque, durante l’estate appena trascorsa, io avevo frequentato Carlo, così come i suoi amici freak. Con loro avevo fumato, bevuto birra e trascorso le nottate ad ascoltare musica.
Tra me e Mario si era creata un’ulteriore barriera, una situazione d’imbarazzo.
Non ci restavano più molti argomenti in comune oramai. Proprio in quei primi giorni di ottobre, a scuola ci si riuniva in assemblea per votare l’autogestione o l’occupazione. Se gli avessi chiesto un consiglio sul da farsi, lui mi avrebbe detto di non impicciarmi. Quando scoppiava una lite in famiglia su discussioni politiche o di attualità, Mario non prendeva posizione oppure si accodava al pensiero conservatore di nostro padre.
L’unico suo vero interesse era quello di uscire nei weekend con la sua nuova compagnia, sbronzarsi e cercare di scopare. Per il sesso, in ogni caso, se la nottata non gli era amica, trovava consolazione ai bordi della strada e, con trentamila lire, si toglieva il pensiero.
La letteratura non era mai stata la sua passione, ma almeno nella musica, un tempo, trovavamo un punto di contatto nel rock. Ma ora, nella sua Uno 45, giravano solo le musicassette dei Festivalbar e qualche compilation di disco music.
R.E.M, Metallica e Guns N’ Roses non erano più di suo gradimento.
Questa nostra fredda convivenza ebbe però una serata particolare, dove il tempo riavvolse il suo nastro, ritornando a quel clima di complicità, che era andato perduto.
«Cosa fai sabato? La guardi a casa la partita?» mi disse Mario, interrompendo il silenzio tra noi.
«Come sempre. Ma tu non esci?» risposi sbalordito.
«Sì, ma dopo. C’è anche papà. Arriva per il secondo tempo» ribatté Mario.
E così, il 12 ottobre del 1991, ci trovammo a tifare Italia, davanti al nostro nuovo televisore Telefunken.
La partita era indubbiamente di grande rilevanza, gli azzurri dovevano assolutamente battere l’URSS, per qualificarsi alle fasi finali dell’europeo.
La gara si disputava a Mosca, allo stadio Lenin, in un clima di apparente calma. In realtà la situazione politica dell’Unione Sovietica era a dir poco caotica. Dopo la perestrojka voluta dal presidente Gorbaciov, la crisi economica e i contrasti tra i popoli di quello sterminato territorio avevano portato al dissolvimento dello Stato Sovietico. Vi erano state le prime elezioni libere e di conseguenza alcune delle repubbliche socialiste, si erano dichiarate indipendenti. Ad agosto era avvenuto anche un tentativo di colpo di stato, che aveva definitivamente minato la credibilità di Gorbaciov, portando in auge il nuovo presidente Boris Eltsin.
In questa condizione di frammentazione politica e sociale, era rimasta la sola nazionale di calcio a rappresentare un’unione, che in verità non esisteva affatto.
L’URSS o CCCP, come riportava la scritta sulle maglie dei giocatori, non era più quella temibile corazzata dell’europeo del 1988, che venne sconfitta in finale dall’Olanda di Marco Van Basten, ma non mancava certo di grandi giocatori: i goleador Protasov e Kolyvanov, il talentuoso Alejnikov e il roccioso difensore Kuznetsov.
L’Italia, dal canto suo, nutriva buone e giustificate ambizioni per quella partita. Molti dei giocatori presenti in campo, avevano raggiunto la semifinale del mondiale di Italia ‘90. Le notti magiche, che si erano dissolte ai rigori contro l’Argentina di Maradona.
Com’era prevedibile, la gara fu subito molto fisica e le due squadre faticarono a creare situazioni pericolose. Poi, da un cross malamente eseguito da un giocatore dell’Urss, si creò la prima grande occasione da gol. Il portiere azzurro Walter Zenga si trovò a tu per tu con il difensore Chernyshov, che aveva ricevuto il pallone da un perfetto colpo di testa, effettuato addirittura da fuori area. Il calciatore della CCCP tirò in porta sicuro di segnare, ma trovò l’opposizione dell’estremo difensore dell’Italia, quando oramai tutti avevano già gridato al gol. Fu un vero miracolo di Zenga, l’Uomo Ragno.
Io e Mario restammo per un istante in apnea.
«Ma come ha fatto?» mi domandò Mario senza aspettarsi alcuna risposta.
Crollai sulla poltrona, espirando fragorosamente il fiato trattenuto.
Dopo lo scampato pericolo, l’Italia prese coraggio e iniziò a giocare con più convinzione nella metà campo della formazione Sovietica. Proprio verso la fine del primo tempo, da un tiro di Crippa, non trattenuto dal portiere Cherchesov, l’attaccante azzurro Ruggiero Rizzitelli si trovò sui piedi la palla del possibile vantaggio. Scivolò sull’erba bagnata non riuscendo a colpire la sfera.
Sulla mancata occasione entrò in casa nostro padre: «Quanto stanno?» domandò trafelato.
«Zero a zero» rispondemmo in coro.
Come stabilito, ci accomodammo a tavola nell’intervallo tra i due tempi di gioco. Papà ci chiese della partita e noi rispondemmo a turno con le nostre impressioni. Come cena venne servita una scialba minestrina, ma nessuno si lamentò della pietanza. Non era il caso di irritare ulteriormente nostra madre, già ampiamente innervosita dall’accesa discussione sul mancato inserimento di Mancini nei titolari.
Con l’inizio del secondo tempo, l’Italia prese nuovamente ad attaccare, costruendo almeno un paio di buone occasioni.
Poi arrivò il minuto 63… e il destino, il caso, o se volete la provvidenza, fece la sua scelta.
L’instancabile Crippa indirizzò un pallone verso il limite dell’area avversaria che il Principe Gianni deviò di testa, allungandone la traiettoria. La palla rimbalzò per terra, mettendo fuori causa la difesa Sovietica e finì nella disponibilità dell’attaccante azzurro Rizzitelli, che la addomesticò con la coscia destra, per poi sferrare un potente tiro col piede mancino.
Palo!
Mario si mise le mani nei capelli.
Papà finì in ginocchio ai piedi del televisore.
Io strozzai l’urlo in gola, restando a bocca spalancata.
Il gesto tecnico di Rizzitelli era stato magnifico. Il pallone aveva preso una traiettoria precisa e imprendibile per il portiere sovietico, che si era limitato a osservare il cuoio.
La partita proseguì il suo corso, entrarono in campo Mancini e Lombardo e ci fu l’infortunio di capitan Baresi, che lasciò gli azzurri in dieci uomini. L’incontro si concluse in parità a reti inviolate.
Quel pareggio sanciva di fatto l’estromissione della nazionale dagli Europei di Svezia del 1992 e il licenziamento del commissario tecnico Azeglio Vicini, per far posto ad Arrigo Sacchi. Il calcio tradizionale all’italiana veniva soppiantato dal gioco totale di scuola olandese.
L’URSS avrebbe giocato una sola altra partita con la scritta CCCP sulle maglie. Il giorno di Natale terminava la storia dell’Unione Sovietica e veniva costituita la Comunità degli Stati Indipendenti.
Su quel palo di Rizzitelli, insomma, si concludeva un’epoca.
Ora, se quella palla fosse finita in rete, il nostro amato tecnico Vicini avrebbe prolungato di poco la propria carriera sulla panchina azzurra. Sacchi simboleggiava il nuovo che avanza, il rinnovamento che da più parti si chiedeva. Di certo, avremmo avuto buone possibilità di approdare alle fasi finali del campionato europeo, risparmiando a una posticcia CSI, la magra figura di un ultimo posto nel girone.
Un gol non poteva sicuramente fermare gli eventi che si susseguirono in quei mesi. Il vento del cambiamento soffiava, e spazzava via le nostre poche certezze.
Ma in tutto questo smarrimento il mio resta un ricordo felice. Quell’ultima volta, quando io e Mario, guardando una partita di pallone, ci sentimmo ancora fratelli.
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