Racconto di Silvio Fazio

(Quarta pubblicazione)

 

 

 

La stazione non era diversa da tutte le altre.

Una grande campata di vetro e di acciaio copriva tutte le banchine, le terminazioni e gli scambi, i binari degli arrivi e partenze.

L’unica particolarità era l’esistenza di un binario, in fondo, a destra, segnato con “binario – 1” che a prima vista sembrava abbandonato da qualche tempo, con la piattaforma impolverata e con qualche piantina tenace che cresceva in mezzo alle traversine.

Il tabellone “Arrivi e Partenze” non riportava quel binario e nessun orario o destinazione era segnata sul cartello all’inizio del binario stesso, sembrava non esistesse, ma non era così.

Chi veramente avesse avuto dentro di sé un grande desiderio o una grande malinconia o una grande immaginazione riusciva a scorgere, come tra un po’ di nebbia, antichi vagoni e una locomotiva a vapore nera, con fregi rossi e i fanali gialli, che sbuffava silenziosamente.

Se questo qualcuno vi fosse salito, allora il treno si sarebbe mosso e lentamente avrebbe iniziato la sua corsa portando i suoi passeggeri verso il sogno che li aveva condotti fin lì.

Non ricordo chi me ne avesse parlato, mi sembrava una storia bislacca o un racconto della buona notte per bambini, ma una volta, con il cuore pieno e un grosso magone addosso, avevo disperatamente bisogno di qualcosa che mi accarezzasse l’anima, ma non sapevo che cosa.

Avevo una nostalgia lontana ma non riuscivo a trovarne l’origine e non so per quale misterioso sentiero della mente i miei passi mi portarono a quella stazione e al suo binario di testa -1.

Dopo un po’ lo vidi: pochi vagoni, tante porte, sbiaditi fanali gialli e rossi. Salii, mi sedetti accanto al finestrino e subito dopo il treno emise un debole fischio e partì.

Non so che ore fossero, forse sera, le luci all’interno dello scompartimento si attivarono pallide e sbiadite mentre, fuori dal finestrino, si alternavano le ombre e i bagliori, gli alberi e le case, sempre più velocemente, quasi in gioco psichedelico.

Cullato dal movimento del treno, mi addormentai e forse sognai.

Il Treno del Sole era un treno a lunga percorrenza, un treno con le cuccette che negli anni 50/60 portava da Torino a Palermo e Siracusa.

In quegli anni la mia famiglia abitava a Torino e ogni estate andavamo a Palermo dagli zii per le vacanze.

Io ero l’ultimo di quattro figli e con mia madre, per tutta l’estate, saremmo rimasti al sole della Sicilia a giocare con i cugini.

Ma era principalmente il viaggio in treno che per me rappresentava qualcosa di unico e meraviglioso, l’emozione più grande.

Si partiva alle venti e cinque per arrivare verso le ventidue del giorno dopo a Palermo, sempre che il treno fosse stato in orario, ma spesso ciò non accadeva.

Ricordo i thermos di mia mamma con il caffè per lei e il caffelatte per noi, i panini con la carne panata e, cosa eccezionale, il Buondì Motta.

Alla partenza trovavamo le sei cuccette già montate ed io mi arrampicavo subito sulla scaletta per occupare una delle due più in alto.

In pratica non dormivo, sbirciavo fuori di lato della tendina abbassata del finestrino per tutto l’itinerario notturno del treno: Genova, Pisa, Bologna, Roma, fino a Napoli, dove si arrivava alle otto di mattina ed era l’ora del caffelatte col Buondì.

Mi affascinavano le stazioni di notte, sia quelle dove ci fermavamo, sia quelle dove transitavamo veloci o rallentando, i segnali luminosi, i segnalatori, i semafori, gli scambi.

Vedevo le luci, sentivo il fischio dei Capistazione, scorgevo qualche viaggiatore che saliva silenzioso in una stazione intermedia.

Fin dalla partenza, la vita nel vagone era come stare nel condominio di un palazzo: casa propria.

Molta gente si metteva in pigiama, in vestaglia, indossava le pantofole, sentivo ovunque dialetti del sud che si mischiavano e, a volte, a qualche canzone.

Era un continuo “vuole favorire” e un’offerta, uno scambio di panini, di pasta, di bicchieri o altro cibo tra persone, che prima di allora non si erano mai visti.

Dopo Napoli, tra Paola e Battipaglia, ci attendevano le sfogliatelle. Ragazzini con grandi vassoi colmi di quei dolci correvano sui marciapiedi dei binari per accontentare tutte le mani protese con i soldi in mano per avere quelle prelibatezze, prima che il treno riprendesse la sua corsa.

L’appuntamento più importante era però quando si arrivava alla punta dell’Italia, a Villa San Giovanni, dove il treno, vagone per vagone, lentamente più e più volte, entrava a marcia indietro nel traghetto e poi usciva, pronto poi a ripartire dopo la traversata dello stretto, da Messina.

Quando il treno era tutto imbarcato, si correva sul ponte della nave, sperando che fosse rimasta al bar del traghetto qualche arancina di riso, trofeo sognato per un anno intero da molti.

E su quel ponte del traghetto era già Sicilia, era già suolo siciliano, lo diceva il mare, il profumo del cibo, la luce del cielo, le frasi in dialetto, il caldo appena mitigato dal movimento della nave.

In quegli anni la linea da Messina a Palermo portava ancora i segni della distruzione dei bombardamenti subiti durante la guerra e molti tratti erano in ricostruzione e non elettrificati.

A Messina, quindi, ci aspettava una locomotiva a vapore e la cosa bella per me era che il treno procedeva lentamente passando vicino le case, i cortili, le finestre di palazzi.

Potevo intravvedere così squarci di vita, bambini che giocavano, uomini in canottiera che cenavano, donne che sistemavano i pomodori sulle tavole a essiccare al sole o che stendevano i panni, persone che fermavano la loro attività per salutare con la mano il treno che passava: pezzi di vita, ognuno con una sua storia da raccontare.

A volte, lungo i tratti in costruzione, i lavoratori si fermavano per far passare il treno che procedeva lentamente, raddrizzavano le loro schiene, stanchi, sudati, cotti dal sole, grati per quei minuti di riposo forzato.

La mia mamma, allora, tirava fuori le caramelle, cioccolatini e le sigarette che aveva di proposito portato con sé e, sporgendosi dal finestrino, glieli porgeva o li lanciava e loro tendevano le mani consumate e ringraziavano, spesso in silenzio, con un sorriso stupito o un cenno della testa.

A Sant’Agata si ripeteva il rito come per le sfogliatelle, ma si trattava questa volta di granite al limone nei loro bicchierini bianchi con il cucchiaino di legno.

Il treno si fermava per poco tempo in quella stazione e ragazzini in canottiera bianca correvano a piedi nudi come disperati per accontentare tutte le braccia protese dai finestrini.

Fino a Palermo io rimanevo affacciato al finestrino del corridoio, anche contro il divieto materno, a guardare la campagna e sentire le cicale quando il treno per qualche motivo misterioso si fermava.

Il caldo del pomeriggio lasciava piano piano spazio al venire del crepuscolo ed io ero sempre affacciato al finestrino, con il fumo della locomotiva che mi veniva incontro.

Sentii la mano di mia madre accarezzarmi prima il viso e poi la testa, con dolcezza, e la sua voce che mi diceva: “Sempre sporco e nero devi arrivare. Eh! ”

Con le sue dita tra i capelli mi svegliai.

Ero tornato al binario -1.