Racconto di Ambrogio Bozzarelli
(Settima pubblicazione)
Come giunse a casa, afferrò un coltello,
prese la sua concubina e la tagliò,
membro per membro in dodici pezzi.
(Antico Testamento Libro dei Giudici: 19.29)
CAPITOLO PRIMO
ROSANNA
Cos’è che lo aveva spinto? Perché lo aveva fatto? Quasi non lo ricordava nemmeno più. Ed era proprio per quello che adesso, che ormai aveva deciso, stava scrivendo.
Tutto era cominciato da quel lontano lunedì di gennaio.
Certo, ormai erano trascorsi più di 15 anni, ma ricordava perfettamente. Pioveva forte e aveva dato l’appuntamento a Rosanna per le 20, davanti al cinema Astor. Davano un bel film, almeno così risultava dalle critiche sui quotidiani, e l’ultima programmazione iniziava alle 20.30. Il cinema presentava un’entrata con un’ampia vetrata, pur essendo così com’era un po’ incassato tra via Pia e via Aonzo, in quello stretto slargo che si apriva interrompendo la continuità dei portici di Via Paleocapa, ma poi la sala interna era molto spaziosa, un discreto palco e lui aveva assistito a diverse opere teatrali ed anche ad alcuni concerti. La galleria, su in alto, semicircolare tutta di fronte allo schermo ed al palcoscenico permetteva in ogni caso un’ottima visione.
Il vento che a Savona era una costante climatica, rendeva praticamente inutili gli ombrelli anche se poi tutti continuavano a portarlo, anche Alberto. Lui, richiuso il suo, salì i tre gradini, aprì la porta a vetri ed entrò nell’ atrio della sala, al riparo. Con in mano l’ombrello nero e ancora gocciolante si girò subito per avvicinarsi alla vetrata, semicoperta dai pezzi di manifesti del film che, come si usava, venivano tagliati e incollati insieme alle lettere giganti che formavano il titolo, il tutto a disegnare una specie di puzzle. E rimase lì, così, ad aspettare.
Le luci accese di via Paleocapa, qualche persona che correva velocemente un po’ saltellando tra la distanza non coperta da alcun porticato, cercando di evitare contemporaneamente le pozzanghere , che già s’ingrossavano per quel selciato poco lineare, e la pioggia sospinta da un forte vento laterale sferzante e impietoso.
Aveva aspettato a lungo, anche dopo, quando la gente aveva iniziato ad entrare, a comprare i biglietti, e poi a scomparire dietro il tendone per sedersi in sala ovvero a salire le scale per posizionarsi nel posti meno cari nel loggione. E così rimase ad aspettare anche dopo, quando il film ormai era cominciato; si sentivano le musiche in sottofondo e si poteva percepire anche qualche parola. La cassiera, una brunetta pesantemente truccata lo aveva chiamato:
«Scusi, ma non entra? Il film dura quasi 3 ore ed è l’ultimo spettacolo…»
« Grazie, lo so, ma attendo una persona, magari perdo solo cinque minuti.»
E aspettò ancora: dieci minuti, mezz’ora.
Non pioveva più e anche il vento pareva calato. Si era guardato intorno, uno sguardo alla cassiera, uno verso la maschera e poi tiratosi su il bavero dell’impermeabile grigio aveva spinto la porta a vetri in avanti ed era uscito.
Ed uscì per sempre anche dalla vita della città di Savona.
Alberto Rovati aveva 25 anni. Lavorava in banca, modesto impiegato della Banca Nazionale del Lavoro, da due anni aveva ottenuto il trasferimento da Acqui Terme a Savona: era stato il primo avanzamento di carriera. Poi lì, nella città Ligure, ove aveva trovato in affitto un piccolo locale, umile ma ben tenuto in via Piave poco distante dal teatro dei Salesiani, aveva conosciuto Rosanna e se n’era perdutamente innamorato. Per lui, non certo bello, piccolino, rotondetto, un po’ miope ed estremamente timido, lei era come un sogno meraviglioso. Appena più alta, ma ben fatta, con una massa di riccioli nerissimi, il viso sempre sorridente e quel suo modo di vestire privilegiando le gonne scozzesi che le arrivavano appena sopra le ginocchia. Lavorava come commessa in una libreria sotto i portici. E proprio lì c’era stato quel primo fatidico incontro: Alberto amava tanto leggere, forse anche per la sua timidezza che aveva fatto sì che non si fosse fatto molte amicizie. Con la mamma morta di cancro quando lui aveva soltanto dieci anni, un padre che ogni tanto si portava in casa qualche donna, passò l’adolescenza chiuso in sé stesso, leggendo tutto quello che gli capitava sotto mano.
I suoi anni scolastici furono ricchi di soddisfazioni, ma più per suo padre che per lui: studiava perché così riusciva anche a leggere. Ma la sua vita si fermava lì, non aveva amici maschi né tanto meno femmine, e non fece mai alcuna attività sportiva. Amava leggere, andare al cinema e qualche volta a teatro. Non appena compiuto diciotto anni, suo padre, giusto un anno prima di morire, lo fece entrare grazie alle sue conoscenze, in banca.
L’aveva amata da subito. Sin dalla prima volta quando lei sorridente gli stava fasciando con carta da regalo l’edizione integrale di “Dalla Terra alla Luna “ di Jules Verne e lui, quasi con coraggio riuscì a dirle:
« Ma no, non occorre, è per me».
Ricordava benissimo, ancora oggi, le sue guance improvvisamente arrossatesi nella convinzione che mai un adulto avrebbe comprato per sé un romanzo “ per ragazzi”.
Da quel giorno, almeno una volta alla settimana andava in negozio per comprare qualche libro, ma soprattutto per vedere lei e le volte che la padrona non era presente si tratteneva anche un’ora , all’inizio parlando del libro e poi un po’ della sua vita. Lei ascoltava, rispondeva, ed era sempre sorridente e aperta.
Ma era stato un amore a senso unico, mai svelato e durante le sere, passate sempre da solo in casa, aveva fantasticato sul loro possibile futuro: il portarla a vedere dove abitava, e poi anche in quella grande casa, una vecchia fattoria con spaziosi terreni che aveva ereditato in Piemonte, in collina tra il piccolo paese di Mombaldone e il più famoso Roccaverano, conosciuto per le sue formaggette, e chiederle, sì chiederle di vivere con lui per sempre.
Ma solo dopo un anno di accessi in libreria e di acquisti si era fatto coraggio e il giorno in cui era andato a comprare una edizione di tutti i racconti di Edgar Allan Poe l’aveva invitata al cinema. Quel giorno piovoso di oltre 15 anni prima.
Quel giorno in cui lei non era venuta.
CAPITOLO SECONDO
ORNELLA
Non era mai stato cattolico praticante. A parte il catechismo, necessario per ottenere cresima e comunione poi la sua frequentazione con la chiesa si era limitata alla partecipazione del funerale della madre. Suo padre, invece, lo aveva fatto cremare e poi mettere nell’urna comune. Da quella volta smise anche di frequentare il cimitero. Tutta la sua vita diventò il lavoro in banca, una volta alla settimana al cinema e la lettura di libri. Si era poi illuso quando conobbe Rosanna ma quel rifiuto in quella piovosa giornata fu la svolta.
Il giorno dopo chiese subito un trasferimento. Era capace, attivo e benvoluto sul lavoro, ma avrebbero potuto inviarlo soltanto in qualche città, o addirittura in un paese sperduto, nella pianura padana, e forse come gli spiegò il suo capo:
“«Guarda che non è il caso; qui stai meglio e hai più possibilità!»
« No, no anzi sono sicuro che ovunque andrò potrò stare più tranquillo, fuori da questo caos, sono stanco di vivere nel vento».
Rimase a Savona ancora due settimane. Due settimane in cui, per la prima volta, non si recò nella libreria dove c’era Rosanna né in alcuna altra libreria della città. Per alcuni giorni aveva sperato che lei, poiché lui le aveva detto dove abitava, lo cercasse. Ma non accadde nulla.
Alberto poi andò a vedere quel film, da solo, e fu la sera in cui il capo gli comunicò che il trasferimento richiesto era stato accettato e la settimana successiva poteva già cercarsi una abitazione a Novara, ove vi era la filiale della banca, o in qualche paese vicino.
La visione di quel film,” La più grande storia mai raccontata” un “kolossal” sulla vita di Gesù, lo turbò non poco. Il giorno successivo, appena tornato dal lavoro, cercò e trovò tra i suoi libri una vecchia Bibbia delle edizioni Paoline e passò tutta la sera e la notte a leggere. E così il giorno dopo e ancora quello successivo: sempre e soltanto la Bibbia.
C’era sempre nebbia a Vespolate. Almeno così a lui pareva, forse perché si era assuefatto al clima marino e ventoso di Savona. Ma presto si abituò anche alla nebbia, all’umido, aveva i suoi libri, e poi con l’auto poteva andare al teatro, al cinema. Novara, pur nel suo caotico sistema stradale aveva più attrattive culturali rispetto a Savona. Aveva venduto tutte le sue proprietà del Piemonte, non aveva trovato alcuna sistemazione in Novara ma poi la fortuna gli venne incontro e riuscì ad affittare un bilocale in quel piccolo paese per lui del tutto sconosciuto con quel nome improbabile, circondato dalle risaie, dalle tipiche abitazioni lunghe e basse, non più alte di due piani, sorte intorno all’unico elemento che si ergeva nettamente al di sopra di esse: l’alta torre del castello.
Poteva sentirsi soddisfatto: i vespolini, a lui piaceva di più chiamarli così invece che vespolatesi, come secondo altri si dovevano chiamare i cittadini, perché il termine lo trovava più simpatico, erano persone tranquille con le quali poter scambiare due parole o anche starsene in silenzio per ore, l’unico problema durante la sua permanenza furono le zanzare. E fu proprio a causa di quegli insetti succhia sangue, così pensava, che dopo cinque anni fu costretto ad andarsene.
Nei primi giorni le punture gli avevano provocato delle piccole escrescenze molto pruriginose. Ma non ci aveva badato più di tanto. Poi però, forse anche a causa della sua pelle chiara, quasi lattea, quel rossore era diventato più scuro, pareva una specie di necrosi e, quando le zanzare iniziarono a colpirlo anche sul viso cominciò a preoccuparsi di più. Era già ricorso diverse volte alla farmacia del paese, ma un po’ la vergogna un po’ forse l’atteggiamento del farmacista che ogni volta che lui entrava lo osservava quasi con malumore, lo spinse ad andare in una farmacia di Novara: del resto lavorava lì, una si trovava proprio vicino all’ufficio della Banca.
E così conobbe Ornella. Sotto quel camice bianco si intravvedeva un seno abbondante su cui spiccava il cartellino con una piccola croce bianco e rossa con sotto il nome. Le mani dalle lunghe dita con robuste unghie smaltate di un verde acceso, un sorriso sempre aperto sulle labbra coperte da un rossetto audacemente rosso. Non doveva esser sposata, almeno a giudicare dagli anelli, ogni volta sempre diversi, che portava su quasi tutte le dita della mano sinistra ad esclusione dell’anulare che restava sempre vuoto.
Portava i capelli, lunghi, biondi, raccolti in una coda di cavallo che si muoveva all’unisono con lei quando si allontanava dal banco per prendere le medicine. A differenza di quanto era accaduto con Rosanna la sua conoscenza si limitò a semplici scambi di richieste di medicine, o anche solo di informazioni mediche con le risposte e consigli farmaceutici delle donne, i saluti e convenevoli di rito. Ma era evidente, almeno a lui, quanto e come quella donna gli piacesse. E bene o male, riusciva sempre a trovare qualche medicina da acquistare.
Divenne così un cliente fisso. Divideva la sua giornata tra gli orari della banca, una quasi quotidiana serale presenza in una piccola osteria di Novara ove scoprì la bontà della “ paniscia”, quel riso ricco con verza, fagioli, verdure di stagione e soprattutto con il salam d’la duja quel salamotto, piccolo lasciato maturare nella doja, recipiente in terracotta, conservato sotto un grande strato di strutto.
Poi, dopo cena, montava sulla sua Panda bianca e ritornava a Vespolate; lì, tra le mura silenziose poteva mettersi a leggere i suoi libri che si era fatto recapitare con un trasloco non appena si fu sistemato bene. Aveva anche radio e televisione ma raramente l’accendeva, magari giusto per sentire i notiziari e sapere la situazione meteo della zona.
Erano trascorsi più di due anni quando maturò la decisione di cercare un contatto più stretto con Ornella. Memore del fallimento con Rosanna pensò di cambiare tattica. Così un giorno rimase in attesa sino alla chiusura della farmacia. Erano le 19.30 di una giornata di novembre piuttosto nebbiosa. Con il suo loden verde, un pochino fuori moda, si era posizionato sul marciapiede del lato opposto ad una cinquantina di metri di distanza dall’entrata del negozio. Non appena vide la sagoma di Ornella, avvolta in un cappottino beige, attraversò la strada e tranquillamente, con il passo di un semplice passante, si avviò percorrendo la direzione opposta di lei. C’era nebbia, è vero ma passandole vicino l’avrebbe riconosciuto. Ed era talmente sicuro di ciò che, mentre la distanza tra loro si riduceva a pochi metri, infilò la mano destra nella tasca del Loden accompagnando il gesto con il movimento in basso della testa, come per cercare qualcosa e così rallentando l’andatura. Al momento dell’incontro sollevò il capo, il suo volto si aprì ad un ampio sorriso ma Ornella non diede alcun segno di averlo riconosciuto e il suo buonasera gli rimase strozzato in bocca.
Non poteva finire come con Rosanna. No, non doveva.
Provò diverse altre volte ad incontrarla per caso, ma stranamente sempre lei non mostrava alcun segno di riconoscerlo: al più ricambiava il suo saluto con quei “buongiorno” o “buonasera” asettici, risposte meccaniche di chi non conoscendo l’interlocutore usa comunque cortesia e buona educazione nel rispondere. E lui non ebbe mai il coraggio di salutarla aggiungendo il nome.
Eppure quando si trovava in farmacia, in quel sorriso, in quel “Oh buon giorno signor Rovati” sentiva un invito, un qualcosa di più di un semplice atto di cortesia.
Ma quella volta non si diede per vinto.
Tra le sue letture vi erano anche tutti i romanzi di Rex Stout su di un abilissimo investigatore privato di nome Nero Wolfe che poteva contare tra i suoi collaboratori un certo Saul Panzer. Alberto ricordava come quel personaggio veniva descritto: un tipo piccolo, un po’ sciatto quasi insignificante e che nessuno avrebbe notato, ma dotato di capacità notevolissime come quella di pedinare chiunque ovunque senza farsi mai notare e ricordare per sempre i visi, le fattezze delle persone anche se le avesse viste solo una volta. E durante quegli anni trascorsi tra Vespolate e Novara si convinse di essere, non solo fisicamente, una specie di quel Saul Panzer dei romanzi.
E così la pedinò.
Giorno dopo giorno con costanza e abilità, senza che lei mai se ne accorgesse. Venne a conoscere tutto di lei. Ornella Raciti era vedova. Non aveva più parenti, viveva a Terdobbiate, un paesino della provincia di Novara. Non guidava e si muoveva sempre in autobus. Terdobbiate era vicinissimo a Vespolate.
Era estate, una torrida caldissima estate che quasi ti mozzava il respiro. Quel giorno il termometro segnava a mezzogiorno 41 gradi centigradi. E quel giorno a mezzogiorno senza che vi fosse stato alcun preavviso iniziò lo sciopero degli autobus. Per Alberto era l’occasione. Nel primo pomeriggio attese che nella farmacia non vi fosse alcun cliente e non appena vide che al banco c’era solo Ornella si precipitò dentro.
In certi momenti, come quello, riusciva a mostrare un coraggio che lo portava ad esser convincente anche quando raccontava menzogne.
« Buongiorno – un po’ trafelato.
« Oh buon pomeriggio signor Rovati! sorridendo»
« Mi scusi la fretta , ma ho bisogno di queste medicine » – porgendo la ricetta.
« Sa, oggi c’è sciopero degli autobus e così son venuto a Novara con la mia auto» e mentre lei , con la solita coda svolazzante si girava per prendere dai cassetti le scatole dei farmaci, continuò:
« Abito a Vespolate e senza autobus il ritorno per me sarebbe un vero problema…» lasciò cadere il discorso come se lo avesse finito.
« Eh perbacco, sapesse pure io viaggio solo in autobus, ma cribbio non sapevo dello sciopero» , poi mentre lui assentiva con un cenno del capo, proseguì, dopo un attimo di pausa :
« Vespolate? Pensi io abito lì vicino: a Terdobbiate. Ecco , sono 10 Euro » posando sul banco un sacchetto di carta in cui aveva messo le medicine.
« Ah, eh già, praticamente è appena prima, se non erro basta una piccola deviazione» si tolse il portafoglio dalla giacca; faceva caldo è vero ma in banca si doveva stare sempre vestiti in maniera impeccabile, e solo per quell’estate così atrocemente calda era stato concesso, agli uomini, di non mettersi la cravatta.
« E comunque – con un tono il più discorsivo possibile – se avesse bisogno di un passaggio …»
« Dice davvero? La ringrazio molto, è molto gentile ma non vorrei che…»
« Si figuri», la interruppe – io esco alle 18; lei a che ora chiude?», Sì, era stato un abile mentitore.
Alle 19,30 di quel torrido giorno di agosto Alberto accostò la Panda al marciapiede all’altezza della a farmacia e Ornella salì sull’auto.
CAPITOLO TERZO
BARBARA
Quarant’anni. Trasferimento in una filiale della Banca Nazionale del Lavoro a Pesaro.
Di nuovo in una città di mare. Ma molto diversa da Savona. Il clima innanzi tutto; non c’era mai quel vento fastidioso, odioso, poi le spiagge: lunghe distese di sabbia su cui era un piacere passeggiare soprattutto d’inverno quando mancavano, praticamente del tutto, i turisti. Poi a differenza della città ligure, ogni cosa, dalla casa agli hotel, al cibo, tutto lì costava meno, e infine la diversità più rilevante la trovò nelle persone. I marchigiani avevano un carattere più aperto, sia dei liguri che dei piemontesi: più incline alla vita, al divertimento.
Non che lui ne avesse trovato quel giovamento che si sarebbe potuto aspettare: restava sempre l’omino un po’ scialbo, sempre più miope, ora divenuto anche un po’ troppo grassottello, ottimo lavoratore ma nulla più. In estate rifuggiva il caos che turisti e locali creavano divertendosi sino a tarda notte. Inizialmente aveva trovato posto in una piccola ma accogliente pensione a conduzione familiare a due passi dal mare. Vi era rimasto tre mesi durante il quale si era ambientato a quel nuovo modo di vivere; lì aveva conosciuto brave persone che lo aiutarono a trovare una sistemazione in una abitazione in affitto un po’ lontano dal caos cittadino.
Non che Pesaro presentasse la confusione che regnava a Savona, ma durante le varie, celebri, manifestazioni, come quelle dedicate a Rossini, giungevano da ogni parte d’Italia e dal mondo personaggi, interpreti, giornalisti, appassionati e anche solo curiosi, e lui che con l’età aveva ancor più accentuato quell’atteggiamento schivo e misogino che lo faceva sembrare più anziano di quello che in realtà era, aveva necessità di starsene tranquillo in pace.
Così alloggiò in un appartamentino, dove poté trasferire tutti i suoi libri, sulla strada Flaminia appena all’inizio della salita di quella che era conosciuta con l’appellativo di “strada panoramica di Pesaro” che saliva sulla collina del colle San Bartolo per poi scendere a Gabicce Mare. La proprietaria era una arzilla vecchietta conosciuta da tutti, nel quartiere, semplicemente come “nonna Evelina”. Evelina, vedova Tirozzi aveva una settantina d’anni, viveva in una bellissima villa in viale Trento ,ove abitava da sola e possedeva quell’appartamentino in via Flaminia: un po’ antiquato, visto che tutto il soffitto era ancora a vista sostenuto da robuste travi di legno, ma completo di camera, salotto, bagno e ampio cucinino.
Si abituò presto al mangiare anche se lo trovava piuttosto pesante, apprezzava gli strozzapreti e gli spiedini di pesce, non gli piaceva molto, invece, la famosa, almeno per i pesaresi , “ Crescia di Pasqua”; preferiva, di gran lunga la focaccia ligure. Pagava l’affitto sempre il primo giorno del mese portandolo in contanti direttamente in casa della proprietaria.
D’estate, lui che non sapeva nuotare, che rifuggiva il sole che gli procurava dolorose scottature sulla pelle così bianca, preferiva passarla in casa, al fresco di un condizionatore portatile dedicandosi alla lettura dei suoi amati libri. D’inverno invece amava passeggiare lungo Viale Trieste, la via parallela a Viale Trento, ma che dava direttamente sulla lunga spiaggia, e dove si ergevano tutti gli hotel che nella bassa stagione erano completamente chiusi con quelle tavole di legno inchiodate alle porte. Ecco che allora Pesaro pareva, almeno lì sul mare, quasi una città abbandonata: nessun negozio, nessun ristorante aperto in mezzo a quella nebbiolina di umidità che proveniva dalla risacca delle onde che si allungavano sulla sabbia. Fu durante una di quelle passeggiate che ebbe il primo incontro con Barbara.
Alta come lui, mora con i capelli tagliati a caschetto, vestita in un lungo cappotto blu scuro proveniva dalla zona del porto in senso contrario al cammino che stava facendo lui. Quando si incontrarono Alberto d’istinto si tolse il cappello:
« Buongiorno». Lei rimase un poco interdetta fermandosi un attimo, riprese il cammino poi si voltò e gli lanciò un buongiorno un po’ sottovoce. Fu così, semplicemente.
L’indomani lui, alla stessa ora si trovava a percorrere la medesima strada sempre nello stesso senso di marcia e da lontano vide avanzargli incontro la figura di una donna vestita con un cappotto blu scuro. Più si avvicinava più si rendeva conto che era la stessa del giorno prima. Alberto ebbe come un fremito, era un qualcosa che già aveva conosciuto nella sua vita.
« Buongiorno » sorrise.
« Buongiorno» rispose lei ricambiando il sorriso.
E così il giorno dopo e poi ancora quello successivo. Al quarto giorno fu lei a prendere in mano la situazione, si fermò:
«Sembra quasi che ci diamo l’appuntamento», Alberto si rifugiò in un timido sorriso.
«Io mi chiamo Barbara Possenti» offrendogli in gesto di saluto la mano destra; bellissime labbra rosse, occhi azzurri e un dolce viso ovale.
« Piacere Alberto Rovati» stringendole la mano.
CAPITOLO QUARTO
IL TESTAMENTO
Finalmente aveva finito. Rilesse con attenzione più volte tutto quello che aveva scritto e pose in fondo ad esso la sua firma.
Erano passati dieci giorni di ritardo nel pagamento dell’affitto. Eppure Alberto era stato sempre puntuale. Evelina aveva telefonato ogni giorno un po’ a tutte le ore, senza mai ricevere alcuna risposta; aveva chiamato anche la Banca ma una cortese impiegata le riferì che il signor Rovati non si presentava in ufficio da almeno quattro giorni; così quel mattino si recò nell’appartamento che gli aveva affittato. Suonò diverse volte: inutilmente. Infine, un poco preoccupata, chiamò i Vigili del Fuoco.
Quando il commissario Porretti, un uomo grande e grosso dai modi un po’ volgari arrivò sul luogo, era già ampiamente preparato per ciò che gli aveva riferito il capo dei Vigili del Fuoco entrato in casa sfondando la porta. Così, senza perdere tempo, subito si diresse in cucina.
Lì, la sagoma di un uomo piccoletto, grassottello, ben vestito con un completo beige e cravatta in tinta, pendeva da una robusta trave in legno con una nodosa corda appesa per il collo leggermente piegato; una sedia rovesciata per terra e sul tavolo, accanto ad una penna biro nera, un foglio scritto fitto, fitto.
Il commissario lo prese in mano: una calligrafia minuta, senza errori. Spiccavano tre nomi di donna seguiti da lunghi periodi.
Lesse solo le prime parole subito scritte accanto a ciascun nome:
“ – Rosanna- Savona; tagliata in 12 pezzi sotterrati sulle colline di Stella San Giovanni presso il torrente …
– Ornella – Novara; sezionata in 12 pezzi sparsi gettati…
– Barbara – Pesaro; divisa in 12 pezzi e buttati…”
Poi, in fondo, accanto ad una firma chiaramente leggibile: Rovati Alberto,
“Ho letto la Bibbia, ma ho compreso male, vogliate perdonarmi.”
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