Racconto di Silvana Maroni

(Seconda pubblicazione – 27 febbraio 2019)

 

Navigava da giorni senza alcun orientamento. Quel mare senza confini era uguale ovunque guardasse ed alternava il blu notte profondo al verde smeraldo, al bianco di ciò che appariva come sale rappreso sui rari scogli affioranti. Solo in lontananza si scorgevano esili sagome di terre e montagne, con rossi pennacchi di fuoco.

Il cerchio ristretto dell’orizzonte appariva sempre più piccolo ai suoi occhi stanchi, e dal fondo di quell’oscuro bacino sembrava provenire un canto suadente di creature marine che assumeva a tratti il carattere di un rombo assordante, a tratti quello di un vociare diffuso e incomprensibile. Il rigurgito di vulcani impazziti, che popolavano qua e là gli abissi di quell’oceano, produceva getti di vapore mescolati a brandelli di lava rappresa.

I suoi sensi erano stanchi, obnubilati dalle percezioni estranee provenienti da quel mare alieno, oscuro, popolato di creature eteree, che mostravano la loro presenza con ombre guizzanti, sussulti di improvvise onde anomale, singhiozzi, lamenti provenienti dalle profondità più buie. Ma erano tutte fantasie della sua mente esausta.

“Questo è l’inferno” pensò il naufrago “Sono morto, l’astronave è esplosa.” ma i ricordi erano troppo frammentari e la memoria troppo provata, anche da quel sole straniero che bruciava la mente e i pensieri.

Il guscio metallico, leggero, lo aveva miracolosamente protetto dall’esplosione e cullato dolcemente fino al momento in cui aveva riaperto gli occhi.

“Quanto tempo era passato?” Non era in grado di ricostruire nulla: davanti ai suoi occhi si stagliava ancora l’immagine di quel piccolo mondo blu che tanto somigliava alla vecchia, lontanissima Terra, lasciata da anni nelle profondità della galassia. Ma non era terra, era solo mare.

Un mare sterminato che sembrava ribollire di energia nascosta, screziato di colori dalle sfumature intense, profumato, ma non di salsedine: aveva un odore indefinibile, un miscuglio di mirto e gelsomino, ma a tratti anche di metano: odori che lo riportavano al suo mondo di origine, tanto familiari che, pensò, stava soltanto immaginandoli.

I suoi sensi erano troppo alterati, la sua percezione era confusa. Non aveva mangiato nulla da giorni. Da quanti giorni?

Anche lo scorrere del tempo gli sfuggiva, inesorabilmente.

Poi ci pensò: “E la notte?” Non c’era la notte in quel mondo? Non ricordava. Il sole giallognolo sembrava fermo, inesorabilmente fermo e bollente. E lui poteva respirare, anche se sentiva quell’aria pesante, come fosse carica di anidride carbonica, e anche l’acqua dell’oceano sembrava avere tante bollicine sospese, proprio come la migliore acqua minerale del suo lontano mondo.

“Quest’atmosfera mi ucciderà” pensò il naufrago, che andava lentamente riacquistando le sue facoltà intellettive ed iniziava a guardarsi intorno non più con la sprovvedutezza del disperso, dello straniero.

Tornavano a farsi strada nella sua mente le capacità di osservazione e di analisi dello scienziato. Doveva capire, doveva salvarsi, ma perché non aveva fame? Perché non aveva sete? Come mai era ancora vivo e neanche ferito? Fortuna? Caso? I punti interrogativi erano troppi e poi c’era la stanchezza, l’atmosfera pesante, il caldo opprimente.

Si addormentò nel suo guscio di noce. Fu un sonno profondissimo ma gli diede sensazioni tanto, forse troppo, reali.

Sognò lunghe ombre dalle sembianze quasi umane che lo osservavano con enormi occhi mentre sembrava che affondassero strumenti nel suo corpo; ma lui non provava alcun dolore, piuttosto una sensazione di benessere. E allora vide sirene, elfi, fate: vide tutte le creature concepite dalla fantasia dell’uomo danzare per lui, e cantare sulle note soavi di una musica struggente, dolce e triste, che racchiudeva in sé il potere di trasmettergli tranquillità, addirittura piacere, di lenire la stanchezza e la solitudine.

Quel sonno fu ristoratore e squarciò i veli che gli avevano occluso la mente.

Pian piano, i suoi sensi si risvegliavano, i ricordi dell’avventura che lo aveva portato a naufragare in quel mondo riaffioravano impetuosi, come in un turbinio di immagini, di parole, di violente sensazioni e di dolore acutissimo, anche.

Riuscì a rievocare la sua esperienza.

Risvegliatosi dal necessario periodo di ibernazione, rivide l’approssimarsi del buco nero, dell’immenso vortice oscuro che lo aveva impietosamente inghiottito, risentì il suo corpo stirarsi come una molla, rivide la luce sul varco lontano dell’uscita.

Non era stato stritolato dalla singolarità, era venuto fuori dall’impensabile.

Poi aveva perso i sensi, ma prima dell’esplosione si era ripreso.

Ora ricordava: la stella gialla, il pianeta azzurro su cui sarebbe naufragato, nuovo Robinson Crusoe degli spazi, ma ricordò anche le sagome di sconosciuti continenti e l’immenso disco di quella Luna che appariva solo molto più grande di quella che rischiarava le notti nel suo mondo d’origine. Credette di riconoscere ombre e luci su quel disco che sembrava ingrandito da una lente invisibile . Ed aveva avuto il tempo di riflettere anche su questo: tanti anni prima, la “sua “ Luna era molto più vicina alla “sua “ Terra e doveva apparire proprio così immensa, a rischiarare la notte stellata. Aveva riconosciuto molte stelle e  costellazioni, la stella polare, Cassiopea, la cintura di Orione.

Pensò di aver sognato.

Ma quando su quell’oceano ribollente e sconosciuto scese finalmente la notte, si rese conto di non aver sognato per niente: i segni che ricordava ricomparvero tutti. La Luna, le stelle, il Grande e il Piccolo Carro, si sentì rassicurato e di nuovo a casa. Era ritornato sulla Terra, pensò, non c’era altra spiegazione.

Ma fu il suo ultimo pensiero.

Morì.

Lentamente, sentì la vita fluire via dalle membra, ma provò una grande felicità  per aver ritrovato il suo mondo, e lo sarebbe stato ancor di più se avesse scoperto tutta la verità.

In quell’oceano primordiale, le sue cellule furono dissolte rapidamente ed il suo DNA cominciò a moltiplicarsi, favorito dalle radiazioni e dalle alte temperature.

Il tempo, circolare e sincronico, si era richiuso su sé stesso, finalmente.

Fu così che nacquero le prime forme di vita in quello che ancora oggi chiamiamo “il brodo primordiale”: era giunta la scintilla risolutrice, il modello tridimensionale di molecola capace di fare copia di sé, il segreto della primissima origine.

Il progetto per la costruzione di tutte le forme viventi di tutti i tempi era lì, in quel povero corpo in decomposizione proveniente da un futuro ancora lontanissimo e inconsapevole, nonostante lo sconfinato progresso e la sofisticatissima tecnologia.

Il naufrago, proprio lui, era il seme della futura umanità , lo stampo su cui si sarebbe plasmata la vita; e la specie umana, moltissimi anni dopo, avrebbe lanciato nuovamente nel cosmo quel corpo, novello Adamo privo della sua Eva, rinnovando un ciclo che non avrebbe mai avuto fine, nel tempo e nello spazio.

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