Racconto di Miriam Zabotto

(Terza pubblicazione)

 

La stanza era rischiarata solo dalla luce di due grosse candele che Elide aveva acceso quando, giù nella valle e nel bosco dietro la casa, il buio era sceso quasi completamente. A Monica, il calore che arrivava dalla stufa economica faceva un effetto soporifero e i fiocchi di neve, che cadevano copiosi e vorticosi, le tenevano lo sguardo incollato alla finestra. Cogliendo un movimento con la coda dell’occhio si girò verso la zia e sorrise, Elide stava armeggiando con un cavatappi vecchio quasi quanto lei e una seconda bottiglia di vino. Un colpo sordo riportò la sua attenzione verso l’esterno, il vento soffiava ormai da qualche ora facendola sobbalzare ad ogni raffica un po’ più forte.

«Non ti preoccupare, al massimo cade qualche ciocco dalla legnaia ma siamo al sicuro» la zia parlava senza guardarla, la sua attenzione era tutta sull’apertura della bottiglia. Monica fissava le mani deformate e macchiate che lentamente, con fatica, caparbie, continuavano a lavorare. Finalmente il tappo saltò via, un mugolio soddisfatto uscì dalla bocca di Elide che solo allora alzò gli occhi su di lei. Era una donna anziana ma che sembrava più vecchia di quello che era in realtà, i capelli bianchi erano raccolti in una crocchia, ciuffi ingialliti le sfioravano le orecchie. Un sorriso privo di qualche dente apparve sul volto rugoso e arrossato, sembrava ancora sorpresa di vederla. Riempì i bicchieri e le si sedette accanto, a fissare la neve in silenzio. Monica ricordava bene l’ultimo inverno trascorso con la zia, erano passati quasi dieci anni e mille lividi di cui non parlava mai. La prima sberla le era arrivata in faccia senza che se ne accorgesse e all’improvviso si era ritrovata schiantata al muro, mentre le mani di suo marito la colpivano senza tregua. Era scivolata fino al pavimento, cercando di proteggere il ventre appena appena arrotondato ma non era riuscita a salvarsi la testa. Si era risvegliata tra le braccia della vicina senza riuscire ad aprire del tutto gli occhi gonfi e neanche la bocca spaccata, un dolore fortissimo le teneva il corpo piegato in due e non la faceva respirare. L’avevano portata in ospedale con l’ambulanza, coperta di sangue e di vergogna, completamente in balia di persone sconosciute e ammutolita dalla paura. Dopo, niente fu più lo stesso, soprattutto lei, che ancora non riusciva a capire come aveva fatto ad andare avanti. Quando le avevano confermato quello che già aveva capito da sola, Monica non aveva detto niente, si era alzata dal letto ed era andata alla finestra, la vista della città oltre il parcheggio dell’ospedale le aveva dato il voltastomaco.

«I servizi sociali sono al corrente della sua situazione, Monica, non sarà lasciata sola -la dottoressa le aveva parlato con dolcezza ma un po’ spiazzata dal suo silenzio – vedrà che andrà meglio». Lei non ne era sicura, non riusciva a formulare un pensiero completo e le parole della gente arrivavano al suo cervello come le onde del mare e, anche se avevano escluso danni cerebrali, lei si sentiva strana, lenta, distratta, tardiva. Ma quando era ritornata a casa tutto le era arrivato addosso come una valanga di orrore e dolore e lei era tornata in sé.

Aveva rivissuto ogni istante degli ultimi anni con Alberto e la lenta discesa all’inferno nel quale lui aveva trascinato chiunque gli era stato vicino, senza rimorsi né vergogna. Fino a quell’ultima sera, quando era tornato a casa più cattivo del solito e con la voglia di far male. Monica aveva ricordato ogni parola ed ogni gesto, i muscoli delle braccia di suo marito erano tesi e la pelle fredda mentre lei tentava di tenerlo lontano, fredda come gli occhi che la guardavano dall’alto, fredda come la voce che la ricopriva di accuse e di insulti. Quando aveva capito che non poteva fermarlo, nessuno avrebbe potuto, aveva cercato di scappare ma non ce l’aveva fatta e quindi aveva incassato tutto, ancora e ancora. Le avevano detto che solo quando lei era svenuta lui aveva smesso di colpire ed era uscito, la vicina aveva aspettando che se ne andasse e, visto che lei non rispondeva al campanello, era corsa a chiamare aiuto. Poi la corsa in ospedale, il dolore fisico e tutte quelle persone che le giravano intorno, gli occhi pieni di lacrime che non scendevano e l’urlo disperato che le restava in gola. Qualche giorno dopo, qualcuno le aveva detto che Alberto era stato arrestato, le accuse gravissime lo avrebbero sicuramente fatto rimanere in carcere a lungo, così avevano detto e lei aveva solo annuito, senza dire niente e senza nessuna apparente emozione. Erano passati i giorni le settimane ed i mesi, un lungo periodo in cui aveva cercato di recuperare qualcosa di sé che non fosse contaminato dall’amarezza e dai sensi di colpa, provando a perdonarsi il senso di liberazione provato e lasciando che il silenzio prendesse il posto di parole e pensieri.

Ed era arrivato il giorno in cui, ascoltando il rumore dei suoi passi nella neve, Monica aveva ritrovato anche il senso di sé e della propria vita, al netto del dolore profondo che si portava dentro. Quel rumore era stato la grazia divina, il regalo inatteso e improvviso, il momento giusto nel caos del suo mondo. Era stato allora che aveva deciso di tornare al paese da zia Elide, perché così andava fatto, perché era la cosa giusta da fare. La cosa giusta al momento giusto.

Elide e Monica sollevarono i bicchieri in un brindisi silenzioso, il vento ora si era calmato e i fiocchi di neve scendevano più lenti, ondeggiando nel buio fuori dai vetri, appena rischiarati dalla luce delle candele. Era un inverno di quelli di una volta, freddo e pieno di neve, quella bella e morbida che di giorno sembrava panna e di notte un mare di cristalli di zucchero. Un inverno da guardare dalla finestra bevendo vino, con la stufa accesa e i brutti ricordi spinti un po’ più in fondo, ancora un po’ più in giù, tanto lontani da chiedersi se non fossero visioni o sogni di qualcun’altro. Si, qualcun altro.