Racconto di Loredano Cafaro

(Terza pubblicazione)

 

 

«Apri gli occhi».

La voce striscia nel buio. È poco più di un sussurro. Sono ancora stordito, distinguo appena le parole.

«Apri gli occhi».

Sono in ginocchio, ricurvo in avanti, le mani dietro la schiena; non riesco a muoverle, sembrano legate. Qualcosa stringe anche le caviglie. Ho male alla bocca; la lingua arretra di fronte al sapore acre della stoffa tesa. Una mano mi serra la nuca e impedisce che io cada di lato. La voce sussurra ancora; sento il fiato contro l’orecchio sinistro.

«Apri gli occhi».

Affiorano i ricordi. Ho aspettato che Sonia e Marco si addormentassero e sono andato in soggiorno. Recuperati i regali dalla credenza in cui erano nascosti, li ho disposti con cura sotto l’albero come fosse la vetrina di un negozio del centro. Poi l’ultimo prestigio: svuotare la tazza di latte, mangiare un biscotto e sbriciolarne un altro sul tovagliolo per completare l’illusione della visita di Babbo Natale. Sono andato in cucina, mi sono avvicinato al tavolo. Ma la tazza di latte era vuota e i biscotti non c’erano più.

«Apri gli occhi, è tutto pronto».

Controllate che porte e finestre siano ben chiuse: questo ripetono ogni anno i giornali, il 24 dicembre. Sono ventidue anni che per molti la notte di Natale ha smesso di essere magica. Sempre coppie con un figlio solo, maschio, quattro anni. Madre e figlio uccisi e i loro corpi mutilati disposti in una macabra rappresentazione della Natività. Il padre lasciato in vita. I dettagli di quanto fatto ai corpi non sono mai stati resi noti, ma nessuno dei padri si è mai ripreso. Alcuni l’hanno fatta finita a distanza di qualche anno. Il fabbricante di presepi: così lo chiamano i giornali.

«Apri gli occhi».

Sto sognando. Sì, sto sognando. La cena della vigilia si esagera sempre un po’, probabilmente ho anche bevuto un bicchiere di troppo. Devo svegliarmi, altrimenti non farò in tempo a mettere i regali sotto l’albero.

«Apri gli occhi».

No, non è un sogno. Bastardo! Lurido figlio di puttana! Cosa ho dimenticato per permetterti di entrare in casa? Come ho fatto a lasciarmi sorprendere così? Lotto per scacciare le immagini di dolore e sangue che mi attraversano in uno spasmo. Sonia, perdonami, amore mio. Marco, piccolo mio, cosa avrai pensato? Il tuo papà non era lì a proteggerti! Dio, fa’ che almeno non abbiano sofferto.

«Apri gli occhi!».

Forse non l’ha ancora fatto. Forse aspetta me. E magari queste corde non sono così robuste come sembra.

«Apri gli occhi, guarda cosa ho preparato per te».

No, non vuole spettatori mentre compie il suo rituale, li vuole soltanto a opera finita. Su questo i giornali sono sempre stati chiari. Dio, no, non farmi questo. Per pietà, no. Fa’ che uccida anche me. Non li aprirò gli occhi! Lascia che io possa conservare l’immagine di un ultimo momento felice. Lascia che le labbra di Sonia sfiorino le mie un’ultima volta, lascia che la mano di Marco si perda ancora dentro la mia; lascia che sia questo l’ultimo pensiero che ho di loro. Non permettergli di distruggerlo, ti prego. Fa’ che uccida anche me!

La mano scivola sui capelli, li afferra e mi solleva la testa. Il freddo della lama contro il collo mi regala una speranza. Mi lascio cullare da ciò che è stato e non sarà più. Mi lascio invadere da ciò che avrebbe dovuto essere: Sonia che mi prende per mano in un sorriso complice, Marco che con un salto si aggrappa a me con gambe e braccia e mi stringe come se non dovesse mai più lasciarmi. È tutto perfetto; sono pronto. Marco, Sonia, sto arrivando.

«Apri gli occhi: guarda!».

La lama scende lungo il fianco sinistro, indugia sulla schiena e penetra poco sotto le costole. Mi inarco in avanti, mentre un grido silenzioso si infrange contro la stoffa che mi ostruisce la bocca. La lama affonda e inizia a ruotare. L’immagine di Sonia diventa via via più fioca e mi guarda con occhi dolci e tristi, mentre le sue dita corrono via in un’ultima carezza. Marco allenta l’abbraccio e si lascia scivolare a terra, si allontana piano fino a sparire nel buio, agitando la mano in un “ciao” silenzioso e abbozzando un sorriso su cui va a infrangersi una lacrima. Cerco le loro voci nella mia anima.

«Addio, amore mio».

«Ti voglio bene, papà».

Il peso che mi schiaccia da dentro mi impedisce di respirare. La lama ruota ancora; il dolore è lancinante e non lascia scampo. Il riflesso è incontrollabile.

Apro gli occhi.