Racconto di Elisabetta Bordieri

(Quarta pubblicazione)

 

Avrei dovuto calibrare il mio pensiero e renderlo lineare. Così quella non storia, quel chiodo fisso sarebbe rimasto un magma informe da gettare nel cassetto più basso del dimenticatoio. E soprattutto avrei smesso di modulare il ritmo dei passi perimetrando ossessivamente ogni centimetro della mia lugubre cella.

Il mio avvocato si presentò puntuale quella mattina, come mi aveva preannunciato l’agente di custodia.

– Buongiorno Eloise.

– Buongiorno Martin. Senti che musica i nostri nomi? Sembriamo i personaggi di un film americano erotico.

– Sono il suo difensore, non un suo amico.

– E io sono una tua cliente, non una delle tue amichette da scoparti più tardi, che ti credi, lo vedo come mi guardi.

– La prego, moderi i termini, io sono qui…

– …per aiutarla a farla uscire al più presto, bla bla bla lo so, me lo avrai detto mille e più volte. La premessa la conosco. Altro da aggiungere? Se fossimo in America sarei uscita da un pezzo!

– Siamo in Italia e non negli Stati Uniti. Uscire su cauzione non è previsto, ma possiamo contare sulle attenuanti. Lei era sconvolta quella sera e il nostro giudice è una persona comprensiva. Mi ascolti Eloise…

– No, non ti ascolto più caro egregio avvocato Martin, io non voglio marcire qui! E ora vattene e togliti dalle palle.

– D’accordo, per oggi me ne vado, è troppo agitata, tornerò nei prossimi giorni per valutare insieme i dettagli del processo: il suo caso è complicato, non complesso.

– Ma come cavolo parli? Complesso, complicato che?!

Ma stavo urlando alla sua schiena che mi guardava mentre si allontanava. Già, la sua schiena e il suo fondo schiena uscito dalla  mano di un abile scultore. Almeno un metro e ottantacinque di  fisico armonico con quella barbetta incolta su un viso da bastardo meraviglioso da sbranare a morsi. Il parlare cadenzato da attore navigato che calamitava come un brivido asfissiante. E poi ancora il suo modo di guardare tagliente con quel blu oceano abissale che annebbiava l’animo. I suoi ricci brizzolati garbatamente scomposti sulla fronte da scompigliare e la sua bocca disegnata come una fessura seducente pronta a divorare il cuore. Il cuore, sì. Un muscolo involontario. Nulla di più. E tale doveva rimanere. Innamorarmi non mi era concesso. Tanto meno del mio avvocato.

La giornata passò in fretta e passarono anche i giorni seguenti, ma di Martin nessuna traccia. Aveva desistito e mi avrebbero assegnato un altro avvocato d’ufficio. Meglio così. Soffocare la mia smania per lui mi avrebbe aiutato a concentrarmi su me stessa. Alla fine, dopo non so nemmeno io quanti mesi e quante stagioni, in una rovente giornata d’inizio estate, mi ritrovai fuori di prigione.

Ripresi la mia esistenza rinsecchita di prima, ritirai fuori i vecchi contatti per qualche lavoretto saltuario appena sufficiente per vivacchiare tra bollette e poco altro, ma Martin era ancora incollato dentro la mia testa. La sera non riuscivo a dormire dal caldo ritrovandomi addirittura a rimpiangere il fresco del carcere. Così mi coricavo sfinita senza nessun refrigerio notturno a placare la sete di aria con un libro stantio da leggere. Scorrevo svogliatamente poche parole, sfogliavo senza interesse qualche pagina. Archiviata l’idea di leggere, chiudevo gli occhi invocando il sonno ma venivo posseduta dal delirio di Martin e così, contorcendomi nel letto, finivo per immaginare il suo collo da succhiare, la sua pelle da leccare. In un secondo le mie mani esperte scivolavano giù sensuali a palpare la mia essenza, a toccare le mie asperità immaginando le sue. Ogni piega del mio corpo si tendeva e si eccitava al pensiero del suo sopra di me. Le dita lavoravano sapienti e quando il ritmo frenetico dei miei movimenti aumentava, sentivo il battito accelerato pronto a esplodere. Poi, ogni fremito diminuiva fino a sentire il mio piacere scendere caldo nella mia mano, fino a sentire l’affanno assottigliarsi lasciando spazio a un respiro regolare, fino a sentire una lacrima scendere e poi sostare stanca e addormentata sulla mia guancia.

Mi ripromisi di rintracciarlo, disposta per assurdo a tornare dietro le sbarre pur di rivederlo. Non ci volle poi molto: studio legale ics, via ipsilon, civico zeta, palazzina elegante di un quartiere signorile. In un tardo pomeriggio più afoso degli altri, munita di infradito, jeans strappati e maglietta sgualcita, citofonai. Voce femminile insulsa.

– Sì?

– No.

– Prego?

– Grazie.

– Come?

– Niente, lascia stare. Cercavo Martin.

– Scusi?

– Oh, ma tutti questi interrogativi a manetta? Ripeto: cercavo M A R T I N.

Scortesemente attaccò senza rispondere. Sarà stata una segretarietta incapace assunta da poco, di sicuro. Nemmeno il tempo di pensarlo che una finestra al piano terra si aprì. Un caschetto grasso e biondo che incorniciava due minuscoli occhi incolore che mal si conciliavano con quella quinta di petto strabordante poggiato sul davanzale, mi additò.

– Mi scusi, era lei al citofono poco fa? Sono la collega di Martin, come lo chiama lei, posso esserle utile?

Collega? Ma dai non ti facevo avvocato.

– Posso riferire? Con chi ho il piacere di parlare?

– Senti, a me tutte queste domande mi snervano. Sì, puoi essermi utile. Digli che è passata Eloise.

– Naturalmente, Eloise e basta, suppongo. Molto bene riferirò.

– Ciao avvocatina.

– Ciao stronza.

Maleducata, chiuse la finestra. Stavo per andarmene quando lo vidi arrivare da lontano. Un mal di pancia improvviso sovvertì i miei equilibri. Di nuovo quel brivido che scava dentro fino a farti credere che sia amore. In giacca blu sbottonata e camicia bianca appena aperta sul petto, camminava sinuoso con la borsa di lavoro di rito in una mano mentre con l’altra si toglieva gli occhiali da sole per poggiarli sulla testa lasciando qualche ciuffo di capelli libero di svolazzare sulla fronte. Si muoveva come in una sequenza di un film al rallentatore. Dannatamente bello come una vertigine, lo avrei preso e sdraiato lì sull’asfalto cocente. Mi vide e si fermò a dieci metri da me. Restammo immobili, occhi negli occhi, pensieri nei pensieri. La calura imperversava. Il vento era andato in ferie. Nessuno faceva il primo passo. Passarono dei secondi eterni. Pronto ad andarsene dandomi le spalle, gli corsi incontro trafelata, lo raggiunsi e mi parai di fronte.

– Che fai? Scappi?

– Che vuoi?

– Ah siamo passati al tu noto con piacere.

– Che vuoi.

– Vederti. Parlare.

– Eccomi. Mi stai vedendo e mi stai parlando. Missione compiuta.

– Te ne sei andato senza avvisarmi.

– Dovevo avvisare l’Autorità giudiziaria, non te.

– Mi ha difeso un cretino.

– Potevi procurarti un difensore di fiducia.

– Non avevo soldi.

– E allora ti è toccato il cretino che ti ha tirato fuori, mi pare.

– No, mi eri toccato tu e te ne sei andato.

– Due cenni legali che ti sfuggono: il difensore d’ufficio è nominato dal giudice o dal pubblico ministero e ha l’obbligo di prestare il suo patrocinio e può essere sostituito solo per giustificato motivo. E tu eri un più che giu-sti-fi-ca-to motivo.

– Fanculo.

– Fanculo tu.

Mi piantò lì e si avviò verso il portone del suo bell’ufficio ben refrigerato dove entrò sparendo dalla mia vista, acuendo le mie pulsioni di rabbia e di desiderio. Vedrai che se la fa con quella tettona della collega. Maledizione, cazzo, cazzo, cazzo! Mi sfuggiva sempre. Dovevo trovare un modo per intercettarlo senza innervosirlo. E poi sì! Iuuh! Una folgorazione. Avevo capito come fare. In modo inequivocabile.

Schizzai di corsa nella mia topaia adibita a casa, una sorta di grande soffitta magazzino all’ultimo piano di un palazzo decrepito senza ascensore. Rovistai accanitamente fino a notte tra residui di mobili e ciarpame vario, spostai sacchi e sacchetti impilati su mensole polverose pieni di non so che, ma niente, non trovai niente. Eppure da qualche parte doveva esserci quello scatolone   pieno di memorie antiche che aveva resistito alle turbolenze della mia vita. Accidenti, chissà dove era finito. Mi accasciai delusa su quello che restava di una poltrona dismessa. Accesi un televisore a tubo catodico e mi ricordai di avere un frigo più vuoto del mio stomaco. Feci una stima veloce: però, che gran vita di merda. E con questo confortante pensiero mi addormentai sapendo che al risveglio sarebbe stato solo tutto più difficile. E invece, appena tornai tra i vivi, dopo qualche ora di sonno irrequieto, una parte dello scatolone apparve come d’incanto dietro un mucchio di cianfrusaglie sparse sul pavimento. Era sempre stato lì, lo sapevo. Mi ci fiondai e tirai fuori tutto quanto apparteneva alla mia vita precedente, quella in cui avevo un lavoro, un fidanzato sfigato di turno, quella in cui non c’era Martin. Scaraventai ogni oggetto per terra, roba inutile che all’epoca misi da parte perché così si fa con ciò che si vuole un giorno ricordare. Stronzate. Che te ne fai dei resti di un’altra vita, anche se è della tua che si tratta? Fino a che li vidi: l’abito arancione fluo, la pochette e le scarpe abbinate con il tacco da capogiro. Una reliquia. Ripiegati con cura e zelo. Da me. Con timore riverente e delicatezza innaturale li presi e li poggiai sul tavolo: intatti senza tarli e senza muffe. Non vennero a trovarmi i fantasmi passati legati a quella prima sera, quando ancora non sapevo che ne sarebbero seguite altre, a quel vestito, alle risate e alla felicità prima della catastrofe. C’era solo questo presente, ora, e forse un futuro. Con Martin. Stavo per richiudere il coperchio della scatola ma proprio un attimo prima, attimo che esiste, che ti frega e ti rovina, vidi un riflesso tremolante, un luccichio. Quel luccichio. Riaprii di scatto. E allora sì che una tempesta di ricordi sfondò le barricate salde e a prova di ruspa della mia corazza. Le tempie presero a battermi, mi portai le mani alla testa. Sentii un trapano di dolore perforarmi i timpani. Vomitai l’anima e altre schifezze di un pasto che nemmeno ricordavo di aver fatto. Sentivo lo strazio degli spasmi nello stomaco. Assistevo allo sbriciolarsi delle mie residue certezze. Fino a che il mio urlo lancinante mi liberò da ogni sofferenza. Provata e sudicia mi poggiai alla parete e scivolai giù. Con le gambe accartocciate sul corpo, rimasi così a ninnarmi dolcemente. Poi le memorie si incanalarono in una confusa strettoia fino a sbiadire e tornarono alla loro dimensione naturale di reperti, tracce del passato, segni da poter cancellare con una pennellata di bianchetto, orme, rovine, ruderi. Cicatrici. Da dimenticare. L’alba mi salutò attraverso le persiane malmesse. Mi risollevai e con le gambe intorpidite zoppicai fino al rubinetto. Non uscì grappa ma solo acqua. Andava bene così. Sobria avrei agito meglio. E poi di grappa avevo solo bottiglie vuote. Richiusi lo scatolone non prima di aver preso l’oggetto, causa del mio malore.

Feci passare un mesetto o forse poco più e poi scelsi di nuovo un pomeriggio qualsiasi per tornare al suo studio. Rimasi nascosta di vedetta per almeno due ore: poteva essere in tribunale, in ferie, al bar, in trasferta, o che ne so io. Maledicendomi per la sprovveduta avventatezza e con i piedi gonfi per i tacchi a cui non ero più abituata, stavo per desistere. Quando a un tratto lo vidi uscire da solo e non in compagnia di gente, clienti o colleghi o, peggio ancora, di quella troiona. Finito il tempo della strategia, era arrivato il momento di dare spazio alla tattica. Non ero fatta per i piccoli passi, quelli che si dice ripaghino sempre, quindi non tentai nemmeno di fare il segugio investigatore e, ricomponendomi alla meno peggio, mi lisciai l’abito, presi la borsetta, sbucai fuori dal mio nascondiglio e lo chiamai con una forzata delicatezza. Lui si girò di scatto e rimase pietrificato, sorpreso. Decisamente sorpreso.

– Eloise? Ma sei tu?

– Ciao Martin, sì sono io.

– Senti…

– No, senti tu, fammi solo dire due parole e tolgo il disturbo. Sono venuta a scusarmi, te lo dovevo. Dopo tutti i guai che hai passato per causa mia, mi è sembrato il minimo. Ti chiedo anche scusa se ti importuno durante l’orario di lavoro e senza preavviso, di nuovo qui, davanti al tuo ufficio in maniera invasiva, ma non sapevo come contattarti diversamente. Mi piace credere che un giorno tu potrai perdonarmi. Da qualche parte una volta ho letto che perdere un’illusione rende più saggi che trovare una verità. Ho trascorso un’intera esistenza a illudermi di poter trovare una verità, sbagliando. Oggi se sono una donna migliore è soprattutto grazie a te. Ti auguro ogni bene Martin. Ciao.

– No aspetta… sei… sei così diversa, vestita diversa e parli anche in modo diverso con un fare così… sì insomma diverso, non trovo una parola appropriata a parte ripetere diverso. Un avvocato che non trova le parole!

E scoppiammo tutti e due a ridere. Mi invitò a prendere un caffè e poi l’aperitivo e poi la cena. Sono bastati due tacchi, una scollatura e modi educati a farlo capitolare. Il suo caso era complicato, non complesso: soffocai una risata al pensiero delle sue parole, sagge e profetiche. Quella serata, scura e senza stelle, trascorse con chiacchiere leggere e non entrammo mai in dettagli personali, cosa della quale lo ringraziai segretamente. Il cibo e il vino erano deliziosi, non mangiavo e bevevo così da tempi immemori o forse da tempi mai esistiti. Poi ci avviammo verso la sua auto, non potevo certo farmi accompagnare a casa e mostrargli la mia stamberga. Gli dissi che avrei dormito da un’amica e che preferivo prendere un taxi, sperando lo pagasse lui come del resto fece. Mi chiese di rivederci. Non pretendevo tanto dal destino, ma andò proprio così. Martin doveva essere mio. Era già mio.

I giorni a seguire volarono nell’attesa di un suo cenno che non tardò ad arrivare. Stesso copione: bar, ristorante, chiacchiere, ma stavolta mi chiese di salire da lui e io salii. Emozionata, tremavo come un’adolescente. Consapevole, osavo come un’adulta. In un silenzio graffiato solo dai suoi sorrisi complici, mi prese per mano ed evitò l’ascensore. Il gioco della seduzione non eluse i nostri sensi. Qualche carezza accennata su per le scale, un bacio rubato davanti la porta e senza nemmeno passare dal via, avidi ci spogliammo e rotolammo in un vortice tra lenzuola di seta e lingue vogliose. Le nostre mani, libere di toccare ogni profondità nascosta, catturavano fremiti acuti di piacere. Respiravamo ogni millimetro di pelle, storditi in una danza di corpi senza tempo e senza dimensione. Il ritmo frenetico dei sussulti inondava ogni pensiero audace mentre il letto accoglieva senziente le nostre mille posizioni. Ci amavamo senza limiti e senza freni solo ubriachi di godimento. Ansimi infiniti di eccitazione raspavano le nostre gole fino a che un’implosione ci travolse lasciandoci madidi di umori, bagnati, esausti e senza fiato.

– Eloise… ma chi sei…?

Già, me lo chiedevo anch’io. Con un nome così dolce e raffinato  che cozza con il mio essere, potrei dirti quello che non sono, Martin, farei prima. Ma l’elenco sarebbe più lungo e noioso. E sai cosa? Dovresti dirmelo tu che conosci tutto del mio trascorso da avanzo di galera e dei miei tentativi di riscatto, dovresti saperlo tu che hai letto e studiato carte su carte. E invece sei caduto dentro la solita voragine di desiderio e mediocrità, incapace di accennare a uno spessore che potesse presagire a tenerezze e premure. Eccoti qui. Dopo l’amore. Per me. Dopo una scopata. Per te. Illusa e idiota io a credere che la vita potesse ancora agganciarmi e tenermi con sé. Lasciarti ancora tempo, rivedersi, non servirebbe a nulla se non ad acuire il tuo scialbo egoismo. Non mi cercheresti nei momenti di assenza, non ti mancherei nel tuo vuoto quotidiano. Chi sei tu Martin? Chi sei tu. Io? Io sono solo una strega calcolatrice.

– Torno subito caro…

E mi alzai dal letto con una scusa, rovistai nella mia borsa e lo presi. Tornai da lui, mi adagiai e non vista lo posizionai sotto il cuscino. Iniziai a ricordare… stessa scena di quella prima e delle altre sere: io e un uomo accanto. Io che inspiro passione e sensualità, lui che espira sesso e banalità. Io che narro parole di amore, lui che se ne fotte. Io che frammento i silenzi regalandogli la luna, lui che si accende una sigaretta. Io che, io che, io che. Forse non sarebbe andata così, forse mi sbagliavo questa volta, forse…

Caro? Ma che parola antiquata e inattuale.

– Mi penserai?

– Cosa? Pensarti? Ma no figurati, se ti penso poi m’innamoro, cara.

La sua risata scomposta lacerò quello che restava della mia speranza. No, non mi sbagliavo. Ero solo con un altro lui ma con la stessa io. Lo avrei fatto di nuovo e poi sarei ripiombata nel baratro del dolore e del pentimento. Avrei rivisto il sangue sgorgare copioso e le ferite lacerarsi a vista. Le mie lacrime tossiche avrebbero fatto compagnia alle mie grida e poi avrei dimenticato. Mi girai dandogli le spalle e presi il coltello da sotto il cuscino, allungai un braccio e…

– E no bella mia, questo lo prendo io.

– Ma che fai?

– Ma cosa credi che dorma in piedi?

– Lasciami fare, per favore, non voglio essere salvata.

– Ma io non voglio salvarti. Non ci penso proprio.

– Allora ridammi il coltello Martin. La vita è mia e i polsi sono miei.

– Per poi finire come le altre volte Eloise? Ti tagli le vene per autolesionismo e poi colpisci la persona vicino a te e poi finisci in carcere e poi esci e poi ricominci in un crescendo di violenza. Ero il tuo avvocato dell’ultima vicenda, ti ricordo, conosco i tuoi precedenti. Altro che aggressione, la prossima volta ti becchi un tentato omicidio e ti fai venti anni dentro! Mi sembrava strano che fossi cambiata invece resti una depressa psicopatica. Fa’ quello che ti pare ma non in casa mia. Comunque grande sesso. E ora rivestiti e vattene!

Le sue parole crude lapidarono quell’unico refolo di attaccamento alla vita che ancora avevo. Non ero una criminale per scelta, solo subivo i miei falliti tentativi di redenzione. Non potevo andarmene e non potevo lasciarlo andare. Sapevo che non l’avrei più rivisto. Approfittai di un attimo di distrazione e gli sfilai il coltello dalla mano ferendolo. Strillò come un animale. Mi si avventò contro e ci battemmo come due maschi alfa per il territorio. L’arma tornò a lui e mi trafisse un braccio. Le mie urla sovrastarono le sue. Il nostro sangue si mischiò al sudore. Stavo per soccombere ma ripresi a difendermi dai suoi attacchi. Con una mossa fulminea gli morsi la mano libera, potei quasi sentire i miei denti trapassargli la carne da parte a parte. Lasciò cadere sul letto il coltello che aveva nell’altra mano lanciando un urlo. Continuammo a lottare nudi fino allo sfinimento, stremati. E poi quella disattenzione fatale. La pugnalata arrivò secca al petto, dritta al polmone. Un solo colpo preciso, mirato, appianò ogni tortuosità. Quel grido disumano, l’ultimo, squarciò le pareti della stanza. La notte cupa ormai inerme restituì la storia alle origini ingoiando tutto il buio intorno.