Racconto di Osvaldo Farsella
(Quarta pubblicazione)
Le vacanze erano ormai al termine, ancora qualche giorno e tutti avrebbero ripreso le attività lavorative. Così stava pensando Stefano mentre preparava l’agenda per la prima settimana di settembre. Posò la penna e si rilassò sulla sua poltrona preferita; un rapido pensiero attraversò la sua mente, lo scacciò con un gesto della mano come fosse una mosca fastidiosa. Stefano riprese l’agenda e lesse ad alta voce gli impegni della prima settimana di settembre. Marisa, la moglie, stava riordinando gli armadi e, mentre metteva al suo posto le maschere da sub e le pinne dei ragazzi, disse ad alta voce: «Stefano goditi quest’ultima settimana di vacanza, al lavoro avrai tutto il tempo di pensarci». Stefano posò la penna e chiuse l’agenda dicendo alla moglie: «Hai ragione, manca ancora una settimana. Sai, prima mi è passato un pensiero veloce: tornare a casa, al mio paese, a Rivoli. Sono anni che non ci vado». <<Ottima idea>>, rispose Marisa comparendo nello studio e continuò «Sai che ti dico, faresti non bene, di più. Purtroppo io non potrò venire: domani avremo la riunione con la preside e il dirigente scolastico. Pare che quest’anno la scuola inizierà senza i soliti problemi». Stefano si alzò e abbracciò la moglie: «Hai ragione andare da solo sarà come tornare ragazzo». Stefano Firetti, nato a Rivoli, città in provincia di Torino, aveva perso i genitori nel 1972 quando era ancora ragazzo e lo zio Edoardo che abitava a Trento prese cura del ragazzo portandolo con sé a Trento. Li nasceva la sua nuova vita, una nuova famiglia. A Trento frequentò le scuole superiori e a Padova prese la laura in economia e commercio con 110 e lode. Appena laureato, fu chiamato da una grande cartiera che aveva sede ad Arco e iniziò la sua carriera. Ora è responsabile delle vendite per l’Italia e questo lo porta a viaggiare molto per tutto il paese.
Si preparò la valigia e prenotò con Booking presso Villa Elisandra per tre giorni. Il mattino successivo Stefano baciò la moglie: «Tornerò giovedì, buona riunione». Guardò l’orologio che segnava le 8.30. Il viaggio durò più di cinque ore: cantieri lungo l’autostrada, un tamponamento ma tutto senza conseguenze negative. Mentre guidava cercava di ricordare la sua città natale, Rivoli, le strade in salita, il Castello Sabaudo, la sua casa in via Santa Rosa e provò una fitta di nostalgia. Arrivò a Villa Elisandra alle 13.40. La villa era un B&B di lusso dentro un grande parco e fu accolto dalla titolare la signora Elisa che, dopo aver sbrigato le consuete pratiche burocratiche, gli mostrò subito la sua camera. La villa portava il nome delle titolari: Elisa e Sandra. Stefano, dopo aver riposto in modo ordinato i suoi vestiti, lasciò la villa e per prima cosa andò al cimitero. Erano molti anni che non ci andava e questo lo intristiva, Aveva un contratto con il fiorista che mensilmente metteva i fiori freschi sulle tombe della mamma Nadia e del papà Giovanni. I suoi passi scricchiolavano sulla ghiaia, era l’unico rumore perché dentro il cimitero non vi era nessuno. Salì gli scalini e andò presso le tombe dei suoi genitori, Li aveva voluti vicini, come erano stati sempre vicini nella vita. I fiori erano belli e le lapidi pulite, solo la foto della sua mamma stava svanendo. Si soffermò e cercò di ricordarli quando erano in vita e un’ondata di ricordi si affacciò nella memoria: la mamma sempre affaccendata, il papà che si alzava tutte le mattine alle cinque prendere pullman che portava in Piazza Statuto. Il papà lavorava all’Italgas e faceva orari impossibili essendo un guardiafughe. Lo chiamavano di notte, alla domenica e lui sempre disponibile. Stefano osservò la foto e sorrise accarezzandola. Il papà era da poco andato in pensione e in quella foto era felice, sorridente, non sapeva che il destino era in agguato. Stefano si rivide quindicenne mentre tornava da scuola e saliva le scale di casa con passo veloce. Abitavano al secondo piano e Stefano faceva le scale sempre di corsa provocando l’ira della padrona di casa. Con la memoria rivide tutta la scena che aveva cambiato la sua vita. Appena superata le scale del primo piano restò di sasso: la sua mamma era a terra con la borsa della spesa aperta, un urlo gli si strozzò in gola. Mamm…mamma…mamma…la mamma era morta mentre apriva la porta di casa. Embolia celebrale. Le urla del ragazzo avevano spaventato gli abitanti del palazzo e tutti erano corsi a vedere cosa fosse successo. Stefano ricordava quei momenti con dolore, non era stato capace di rimuovere quel momento, anche se in parte era contento perché aveva sempre in mente la mamma. Il papà, avvisato telefonicamente, arrivò qualche ora dopo. La loro vita era stravolta. Nadia era amata da tutti e al funerale c’era tutta la città, c’erano gli amici con i quali ora non aveva più contatti a causa del suo trasferimento a Trento.
Passò un anno: nel frattempo il papà era potuto andare in pensione, ma durò poco, perché un infarto se lo portò via e Stefano si ritrovò da solo ad affrontare la vita. Un ragazzo di sedici anni non poteva restare da solo così lo zio Edoardo che abitava a Trento lo prese con sé. Il resto era storia nota, pensò guardando le fotografie. Lasciò il cimitero mentre suonava la campanella che ne annunciava la chiusura: era rimasto oltre due ore e ne era felice. Ritornò alla villa per uno spuntino veloce e alle 19 uscì con la promessa di riscoprire la sua città, Rivoli. Di buon passo si incamminò verso la via centrale, Via Maestra come la chiamano i rivolesi, una lunga via che parte dalla piazza principale e sale tutta dritta sino al Castello Sabaudo. Si stava facendo buio e Stefano si accorse di avere una gran fame. Lungo la via vi erano alcuni ristoranti, ma nessuno lo attirava, si soffermò invece davanti alla vetrina di un negozio di dischi, Le Disque. Un lampo si fece strada nella memoria: c’era una volta un amico appassionato di dischi e di musica. Come si chiamava? Ah sì, ora mi ricordo, disse tra sé, si chiamava Angelo, detto il Lungo e questo particolare gli fece tornare alla mente gli anni più belli della sua vita. Imbambolato davanti alla vetrina gli tornavano in mente i nomi degli amici della sua infanzia. Mario, Guido, Marco e Alberto, tutti fratelli. El Purtie, come faceva di nome? Bertun e Silvia, Mocin, Franco e Angelo. Chissà che fine hanno fatto pensò e si incamminò. Fece pochi passi e la sua attenzione si posò su un locale dove un ragazzo seduto su un trespolo stava leggendo ad alta voce una pagina di un libro. La porta era spalancata e un buon odore di cibo gli fece ricordare che era a digiuno. Entrò e si guardò attorno: libri, un giradischi, una chitarra appoggiata ad una parete e dietro quattro tavoli apparecchiati. Una ragazza apparve dal nulla: «Buonasera signore, questa sera la cucina è aperta e abbiamo ancora un tavolo libero. È solo?». Sorpreso rimase un momento titubante, ma con il profumo del cibo accattivante si riprese subito e disse alla ragazza: << Sì, sono da solo>>. La ragazza lo accompagnò al tavolo e gli porse il menu e la carta dei vini, poi si allontanò con un sorriso. Stefano si accomodò sulla sedia e guardò il menu. Lo attirava lo spezzatino di cinghiale con patate e, quando tornò la ragazza, lo ordinò assieme ad un bicchiere di barbera. Intanto il ragazzo aveva finito di leggere e prese la chitarra iniziando a suonare. La giovane cameriera portò il piatto richiesto e il vino «Spero che sia tutto di suo gradimento, buon appetito» e si allontanò. Stefano gustò il suo piatto con piacere, il vino era piacevole e non troppo forte, insomma si sentiva felice. Prese anche una pozione generosa di bunet, dolce tipico della tradizione piemontese, lo assaporò delicatamente facendo girare in bocca il dolce prelibato. Soddisfatto pagò il conto e uscì lasciando prima una mancia per la cameriera e per il giovane musicista.
Le strade erano ormai deserte, la casa del Conte Verde gli apparve di fronte, non se la ricordava così come non ricordava molte cose. Si incamminò fino alla piazzetta e si sedette su una panchina di pietra lasciando correre lo sguardo: sulla sua sinistra il vecchio comune, ora in stato di semi abbandono, la sede degli Alpini, simbolo italiano di volontà e amicizia, sulla destra partiva via Roma. Chiuse gli occhi e ricordò che lì quando era bambino c’era la Vinicola. Suo padre alla domenica pomeriggio andava a giocare alle carte, vicino c’era un macellaio dove la mamma andava a comperare la carne, cercò di sforzarsi a ricordarne il nome ma non riuscì. Era passato tanto tempo. Si alzò e riprese il suo peregrinare. Rimase affascinato dalla chiesa di santa Croce: la ricordava chiusa e chiusa lo era tuttora. Fece una foto per mandarla a Marisa, quell’angolo era delizioso quando era illuminato dalla luce dei lampioni. La casa che si elevava occupando un angolo più bello della città, l’edera che si impadroniva dei muri. Si scorgevano il lampione giallo e la contrapposizione delle vie, una in discesa e l’altra in salita. Un campanile batté le ventidue e trenta; avrebbe voluto ancora salire sino al Castello, ma era ora di tornare alla villa.
Il sonno arrivò in fretta e il mattino successivo Stefano si sentiva rinfrancato e riposato. La padrona della villa si avvicinò portando la colazione e disse: «Signor Firetti, Le piace la nostra piccola città?». Stefano sorrise affabile. «Sono nato a Rivoli, poi le circostanze mi hanno portato altrove. Avevo desiderio di rivedere i luoghi della mia giovinezza, e sa che le dico? In tutto questo tempo Rivoli non è cambiata molto, ha conservato quell’aspetto di paese che ho sempre amato». Conversarono ancora qualche minuto poi la signora lo lasciò gustare la sua colazione. Uscì con l’idea di andare a rivedere la casa dove era nato, però cambiò idea e di buon passo attraversò la piazza principale risalendo la Via Maestra. Entrò nel parco dove da piccolo andava a giocare a nascondino e notò che la gelateria della sua giovinezza c’era ancora. Si fermò per un caffè sedendosi e osservando i bambini che si rincorrevano felici sotto lo sguardo attento delle mamme o dei nonni. Pensò ai suoi figli Camilla e Andrea, ormai grandi e che se li era davvero goduti molto poco, trasferte all’estero, riunioni estenuanti fino a tarda ora, si era perso tante cose, ma aveva fatto delle scelte. Riprese il suo andare e risalì via Capra seguendo lo spesso muraglione del parco, alla sua destra la bella villa di un industriale famoso del quale non ricordava il nome. Arrivato in cima, le strade si dividevano in quattro direzioni diverse, proseguì dritto e arrivò all’imbocco del lungo viale di tigli. Cercò di ricordare il nome che gli davano i rivolesi, ma gli sfuggiva. Il tabaccaio era sempre al suo posto così come la casa della sua amica Palmira che non aveva mai più rivisto. Via Santa Rosa: la imboccò e, fatti pochi passi, si fermò, il condominio era sempre lì, al suo posto. La via in quel momento era deserta e ne approfittò per osservare con nostalgia la sua casa. La finestra al secondo piano era socchiusa, segno che qualcuno ci poteva stare.
Con gli occhi della mente risalì le scale e si fermò davanti alla porta, l’aprì ed entrò in casa. La piccola entrata con il mobile dei liquori, di fronte la cucina, il tavolo in ciliegio dove suo papà leggeva alla domenica mattina la Stampa e non voleva essere disturbato assolutamente. La mamma stava lavando le tazzine del caffè e la grossa caffettiera in alluminio brontolava segnalando che il caffè era pronto. Tra sé disse Ciao mamma, ciao papà, ma nessuno rispose. Entrò nella camera da letto: c’era sempre il vecchio armadio in noce e il comò con la specchiera. Tutto come lo aveva lasciato. Nella sala c’era il grosso divano giallo ormai consumato dal tempo e seduto al tavolo c’era lui che faceva i compiti, la mamma entrava e le accarezzava a testa dicendo: «Bravo il mio Stefano che studia, perché, se non studi, rimani un asino». C’era poi il lettino dove la sua mamma si sedeva prima che lui si addormentasse e lo coccolava amorevolmente. Tutti questi ricordi gli portarono tristezza e si pentì di esserci passato, ma voleva rivedere i suoi luoghi del cuore.
Un passante lo guardò e continuò il suo tragitto e anche Stefano se ne andò mesto. Il traffico lungo il corso principale era intenso così scelse le vie interne e salì al Castello. Aveva ancora il pomeriggio, si fermò a mangiare un panino pregustando la cena presso il ristorantino della sera precedente. Di buon passo imboccò la via che portava al Castello, ma prima si addentrò nelle piccole vie interne con il selciato in pietra di fiume, passò sotto un arco e si trovo innanzi la vecchia chiesa tanto cara ai rivolesi: la Collegiata di Santa Maria della Stella, la chiesa vecchia dove aveva fatto la sua prima comunione e la cresima. Si soffermò sul piazzale antistante e osservò il panorama, nelle belle giornate si poteva vedere il Re di Pietra (il Monviso) e una parte di Torino. Il convento delle suore di clausura, ormai disabitato, era diventato un condominio di lusso, ma il grande parco era intatto. Ricordava quando con la zia si andava dalle suore a portare dei ricami e lui essendo bambino poteva restare nel parco. A dire la verità quelle suore sempre vestite di nero e nascoste dietro una rete metallica gli facevano un po di paura. Sorrise e risalì al Castello. Imponente dominava la città, ne era il suo simbolo, ma non solo. C’era anche i Castello di Rivoli, sede permanente della mostra d’arte contemporanea famosa in tutta Europa, ma poco considerata dai rivolesi. Torino si stendeva ai suoi piedi, corso Francia tutto diritto per quasi tredici chilometri, dove le leggende si sprecavano, tunnel che partivano dal Castello di Rivoli e arrivavano sino a Palazzo Madama. Stefano si sedette sul muretto, una leggera brezza gli scompigliava i capelli. Ricordò che il papà si erano addentrati in un tunnel. Ma, fatti pochi metri, dovettero tornare indietro perché una parte era crollata. Si domandò se in tutte quelle leggende ci fosse un fondo di verità. Il campanile della Collegiata batté le diciannove e si apprestò a scendere, scorse una via ripida sempre in pietre di fiume, Via Moncenisio, attento a non scivolare sull’erba umida scese la ripida strada per ritrovarsi in via Roma, soddisfatto si diresse al ristorantino. Tutto era come la sera prima: il ragazzo stava suonando un brano di Battisti, La canzone del sole e si ritrovò ad intonarla subito. La giovane cameriera lo accolse con un sorriso dicendo: «Bentornato sempre il solito tavolo? Porto subito il menù» e lo accompagnò. Sapeva cosa voleva: agnolotti rosa al burro con ripieno di verdura e un generoso piatto di patatine seguito da un bicchiere di buon vino e scelse un nebbiolo. La ragazza portò al tavolo il pane e il bicchiere di nebbiolo, Stefano lo assaggiò con piacere: un vino robusto, ma dal sapore delicato. Niente da fare: i rossi del Piemonte sono davvero fantastici, mormorò tra sé. Mangiò piano assaporando i deliziosi agnolotti rosa, peccato per le patate che erano troppo secche, ma comunque buone. Il ragazzo aveva finito di suonare e ora si apprestava a leggere. Stefano decise di ascoltare e ordinò un amaro del Capo. Abitualmente non beveva liquori, ma quella era l’ultima sera a Rivoli e si concesse una leggerezza. Il ragazzo prese un libro qualsiasi dalla fornita libreria e cominciò. – Dal libro Il Maestro e Margherita di Mikail Bulgakov. Aprì una pagina a caso, capitolo diciannovesimo. Margherita. Seguimi lettore! Chi ti ha detto che non c’è al mondo un amore vero, fedele, eterno? Gli taglino la lingua malefica a quel bugiardo. Stefano si sentì trasportato dalla lettura e il ragazzo era davvero molto bravo, sapeva trasportare l’ascoltatore dando le pause tra le parole ben scandite. La lettura durò poco meno di dieci minuti, ma dentro il locale il tempo pareva essersi fermato, c’era anche gente lungo la via che affascinata lo ascoltava e, quando finì di leggere, l’applauso fu forte e caloroso. Era ormai ora di tornare alla villa, pagò il conto e lasciò una generosa mancia al lettore e alla cameriera che ringraziarono felici. Prima di tornare alla villa volle ancora una volta salire al Castello, vedere il panorama di notte, vedere Corso Francia illuminato dalle luci dei lampioni e il via vai delle auto e di buon passo salì. Non ne fu deluso e ridiscese soddisfatto. L’indomani si tornava a casa.
Il mattino successivo dopo una buona e generosa colazione pagò il conto e ringraziò le sorelle titolari di Villa Elisandra per l’accoglienza. Prima di tornare a casa ripassò ancora una volta a salutare i genitori e cambiò i fiori. Ora poteva ripartire. Arrivò a casa alle cinque del pomeriggio, i ragazzi stavano discutendo animatamente mentre Marisa li ignorava presa dai fatti suoi. Aprì la porta di casa e subito abbracciò la moglie e la baciò con affetto. I ragazzi smisero di discutere e gli corsero incontro dicendo; «Papà, che bello che sei tornato! Mamma ci ha detto che sei andato a Rivoli, quando ci porti anche noi? E cosa sei andato a fare?». Stefano li strinse forte se e disse: «Sono andato a vedere i luoghi del cuore, del mio cuore, della mia infanzia e della mia breve giovinezza. Prometto che a Natale vi porterò a Rivoli e andremo a mangiare gli agnolotti rosa.
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