Racconto di Giulia Ancona

(Settima pubblicazione)

 

  • Forza, forza, salite! Non fermatevi. Più in fretta! –

Uomini, dai volti nascosti da bandane, sferravano colpi col calcio del loro  fucile su poveri corpi in fuga. In molti si erano ammassati su quella spiaggia buia battuta da un brutto vento di maestrale. Stretti l’uno all’ altro si chiedevano quando sarebbe arrivato il loro turno. Il momento di salire su uno di quei barconi che, quella notte,  li avrebbe portati in salvo, lontano da quella patria di fame e di morte. Tesi come corde di violino si tenevano pronti a scattare al primo cenno di uno degli scafisti che lo spingesse verso l’imbarcazione.

Il vento ululava fra le rocce come un lupo vorace alla ricerca di cibo. Aumentava sempre più d’intensità accrescendo nei poveri corpi il terrore di affrontare quel nero mare d’inferno. Ma non potevano tornare indietro. Erano fuggiti da campi in cui aguzzini senza scrupoli avevano usato e abusato di loro come fossero carne morta. No, non potevano tornare indietro. Persino la morte sarebbe stata un dolce sollievo rispetto a quello che avevano passato in quei lager. Il ricordo della loro casa l’avrebbero portato per sempre nel cuore e un giorno, forse un giorno, sarebbero tornati in una patria migliore. Ora bisognava raggiungere la terra promessa, quel nuovo posto di cui avevano loro parlato e che li avrebbe accolti e sostenuti come fratelli.

  • Non vi fermate! Muovetevi, pezzi di bestie! Che pensate di partire in crociera? Dai tutte le donne al centro con i loro bambini –

E mentre il mare cresceva con le sue onde fameliche, il vecchio barcone si riempiva a dismisura di corpi.

  • È troppo pieno! Non può farcela a stare a galla! –

Alcuni uomini avevano preso ad osservare l’imbarcazione che affondava  sempre più al di sotto della linea di galleggiamento. In silenzio stavano bisbigliando tra loro quando un colpo terribile colpì il viso di uno, a caso. Nessun lamento, nessun grido, anche se il sangue aveva preso a sgorgare copioso da un naso.

  • È ora di muoversi! Uno di voi dovrà tenere il timone e gestire il motore. Noi vi seguiremo a distanza di sicurezza. Naturalmente per voi non siamo mai esistiti. Se qualcuno vi dovesse chiedere noi non siamo mai nati. Che credete che per quattro, miseri denari, rischieremo la libertà? –
  • Quattro miseri denari!? È tutto quello che avevo. La mia vita in quei quattro, miseri, soldi! –

Questo pensiero si rincorse nelle teste di tutti come trasmesso da un telepatico grido di dolore.

  • Tu, vieni qui e tieni la barra del timone –.

Con voce minacciosa, lo scafista, aveva spinto il più giovane fuori dalla corona di uomini seduti sul bordo del barcone. Quello che sembrava essere più in forze e che meglio avrebbe potuto governare la durezza di quella traversata.

  • Forza! Avviate il motore. Il primo barcone può partire. Le ore scorrono e per l’alba dovete essere a Lampedusa –.

Il rombo del motore sembrò disperdersi nel terribile rumore del vento e delle onde che si rinfrangevano come bombe sugli scogli.

Ammassati nel barcone, tutti serrarono i denti al punto di sentirne lo scricchiolio. Chiusero gli occhi e pregarono stringendo le mani fino a farle sanguinare. Benedissero quel misero mezzo affinché li aiutasse a fuggire.

Pian piano la riva stava scomparendo. Ora sembrava sempre più lontana. In quel buio di pece si scorgeva, a malapena, in lontananza qualche torcia degli aguzzini in fase di sistemazione di un nuovo carico.

  • Allah aiutaci! Salva questi piccoli che non hanno ancora conosciuto la vita. Fa trovare qualche sollievo alla nostra esistenza! –

Preghiere e canti si alzavano come lamenti da quelle anime in fuga.

Le onde stavano diventando sempre più alte e l’acqua aveva preso a entrare nel barcone. A nulla sembravano valere gli sforzi di tutti a rigettarla in mare. Il vento gelido, poi, incollava sulle povere carni i miseri stracci, con i quali erano fuggiti, ormai completamente bagnati.  Le donne cercavano di proteggere i loro figli abbracciandoli sempre più forte.

Il timoniere ondeggiava paurosamente insieme all’ imbarcazione. Issato in alto sulla poppa, sembrava essere un surfista che cavalca l’onda più alta, ben ritto, sulla sua tavola, per padroneggiarla.

Di colpo il motore si fermò. Inutili i tentativi di riavviarlo. Non c’ era più benzina. La paura di non farcela prese ad impossessarsi di tutti. Nella migliore delle ipotesi sarebbero andati alla deriva e qualcuno li avrebbe soccorsi.

Sapevano che alcune navi di Associazioni Umanitarie transitavano in quelle acque proprio per prestare soccorso a quelli che, come loro, stavano cercando altrove una nuova vita.

Chi aveva il telefonino provò a lanciare qualche messaggio di richiesta di aiuto alle capitanerie di porto. Ma erano troppo lontani per essere intercettati.

Le donne strinsero ancora più forte i piccoli al loro seno, mentre la paura li attanagliava fino a togliere loro il respiro.

Il barcone sembrava dover cedere da un momento all’ altro. Senza un motore, ormai alla deriva, era in totale balia di quelle onde spaventose che il terribile vento di maestrale andava gonfiando.

  • Non reggeremo a lungo! Se siamo fortunati andremo a sbattere contro qualche scoglio. Siamo in troppi e imbarchiamo acqua. Moriremo tutti! –

I piccoli ormai piangevano senza sosta. Le madri, impietrite, non tentavano più di calmarli. Il loro pianto, le loro lacrime scendevano copiose mescolandosi alla pioggia e all’ acqua che le onde sputavano beffarde sui loro volti.

  • Ismael! Ismael! –

Un urlo aveva sovrastato il terribile frastuono della tempesta.

  • Ismael è caduto in mare! Non riesco a vedere nulla! Che Allah abbia misericordia delia sua anima! Moriremo tutti. Tutti come lui! –

Quelle parole ebbero l’effetto di una frustata. Avevano ricevuto calci e pugni ma quelle parole furono peggiori. Qualcuno stava gridando che sarebbero morti. Di lì a poco il mare li avrebbe inghiottiti facendoli diventare cibo per i pesci. A nulla erano valsi i loro sacrifici, le torture, le umiliazioni, la fame, le violenze. A niente era servito subire tutto questo nella speranza di un futuro migliore. Di una terra che li attendeva, di un altro posto che li avrebbe accolti come esseri umani e non come bestie.

Ogni pianto, ogni grido, ogni imprecazione si placò per trasformarsi in un’unica supplica all’Altissimo.

Uno dopo l’altro, come acini d’ uva che, marci, si staccano dal loro raspo, gli uomini seduti sul bordo della barca, mollarono la presa. Presero a cadere in acqua di seguito, come pedine di un domino. Urla e grida non valsero a nulla in quella furia di una natura incapace a placare l’ira di sé stessa.

Teste tenute a galla da giubbotti di salvataggio, si inabissavano e ricomparivano sempre più numerose sulle onde, come rosse boe di segnalazione.

Un’ enorme montagna d’ acqua si abbatté sul misero barcone. Lo spaccò in due dividendolo come una noce e divorando tutti quei poveri corpi.

  • Piccolo mio, perdonami! Ti ho portato con me a morire. Pensavo di poterti offrire una vita migliore, invece moriremo. Almeno saremo liberi per sempre! –

La donna aveva afferrato il piccolo. In un estremo tentativo lo aveva infilato nel suo giubbotto di salvataggio, cercando di mantenerlo a galla. Forse qualcuno li avrebbe salvati. La speranza era l’unica cosa cui aggrapparsi oltre a quel relitto che le stava galleggiando affianco.

  • Dio mio, il mare si sta ingrossando troppo. Ci conviene issare in barca le reti e tornare in porto –.
  • Hai ragione! Il maestrale sta aumentando d’intensità. Se continua così potremmo avere grosse difficoltà al rientro. Forza, tiriamo su le reti e andiamo a casa –.

Braccia muscolose avvezze a un pesante lavoro quotidiano, presero a armeggiare con il verricello per issare in barca le reti vuote che, soltanto poco prima, avevano gettato in mare.

  • Pietro, ascolta. Sento come lamenti…delle grida! –
  • Ma che dici? È il vento che urla e fischia tra le fessure dei portelloni! –
  • Ti dico che sono grida lontane. È da un bel po’ che alla radio, si sentono brusii.  Stanno arrivando strani messaggi. Non sono riuscito a decifrarli, ma sembravano parole straniere balbettate. Può essere qualcuno che è nei guai e ha bisogno di aiuto. –
  • Ma quale aiuto? E anche se ci fosse, dove lo cerchiamo?
  • Proviamo ad andare un po’ più al largo. Sappiamo quanti barconi partono ogni notte verso l’Italia. E se qualche disgraziato ha messo dei poveracci in mare questa notte, ci lasciano tutti la pelle-.
  • Dai, Pietro, porta la barca al largo -.
  • Ma lo sai che se ci azzardiamo ad aiutare i profughi ci ritirano la licenza e ci fanno pagare una multa salata? Non lavoriamo più. Il nuovo decreto ci proibisce di salvare quei poveracci -.
  • Non ce ne frega un bel niente del nuovo decreto. Andiamo verso il largo -.

Pietro decise che andava fatta. Con un rombo potente spinse il motore al massimo. Fece ruotare i grossi fari di perlustrazione verso le acque infernali che, con tutta la loro rabbia, sembravano voler impedire l’avanzata del peschereccio.

  • Guarda, guarda! Dio mio… quanti sono! –

Un pescatore aveva afferrato il faro e, manualmente lo stava puntando nelle direzioni da cui provenivano le grida.

  • Forza, bisogna aiutarli a salire! –
  • Ma sono troppi, non c’è la possiamo fare a portarli tutti a bordo.  Bisogna chiedere aiuto! –

E mentre i più lanciavano in mare cime e ciambelle di salvataggio, Pietro rientrò in cabina barcollando. Piangeva e, come un bambino, cercava di asciugarsi alle maniche della camicia.

  • No – pensava – un omaccione pieno di muscoli, non avrebbe dovuto mai piangere così! –
  • Mayday, mayday! Immediata richiesta di soccorso! Uomini, donne e bambini, in mare. Sono centinaia! Mayday, mayday! –

I singhiozzi gli impedivano di parlare. Non riusciva a non guardare fuori dall’oblò. Corpi di donne strette ai loro piccoli, galleggiavano su quelle gelide acque, ormai privi di vita. Quale animale, che anima perversa aveva avuto il coraggio di mandare tutti quegli uomini a morire?

La rabbia ebbe il sopravvento su quella commozione. Pensò che se gli fosse capitato tra le mani uno di quegli scafisti, lo avrebbe strozzato provando un immenso piacere.

  • Pietro siamo già troppo carichi! –

Un marinaio lo aveva raggiunto in cabina insieme a una decina di quei poveracci fradici e privi di ogni forza.

  • Pronto, qui è la Sea Watch che parla. –
  • Siamo il Peschereccio Fortuna. Abbiamo necessità di supporto per il salvataggio di profughi. Sono tutti in mare. Per molti, ormai, non c’è niente da fare! –
  • Dateci la posizione e vi raggiungiamo il prima possibile! –

Pietro scandì le coordinate e, come un fulmine, si diresse sul ponte per poter aiutare gli altri nel salvataggio.

  • Mamma ho freddo! Non riesco a respirare! –
  • Ti reggo io! Aggrappati al mio giubbotto. Vedrai che fra poco ci salvano! –

A cavalcioni su un pezzo di legno galleggiante, Halima cercava di resistere. Con tutte le forze continuava a tenere stretta la sua bambina. Le stringeva la mano, ma la piccola era allo stremo.

  • A sette anni, non si può morire. La mia piccola dovrà vivere, deve vivere. –

E così dicendo Halina pensò di togliersi il giubbotto per serrarlo intorno al corpicino di  sua figlia. Ma le acque gelide e turbolenti la colpirono d’ improvviso con una forza tale da risucchiare e scaraventare in lontananza il povero relitto cui erano poggiati. Di colpo tutto si compì. Le urla di Halina sovrastarono il boato della tempesta. Sua figlia le aveva lasciato la mano. Sentì uno scossone violento al braccio cui aveva legato la piccola per tenerla più al sicuro, vicino a sé. Con uno sforzo terribile, lottando con la violenza delle onde, tirò la corda ripescando fra le acque la piccola ormai esanime. Tutto fu inutile. Halina, in quegli attimi terribili, vide passare davanti a sé la sua breve e triste vita. Capì che non avrebbe mai raggiunto la terra promessa e che la sua piccola non avrebbe vissuto in un mondo migliore. Rivide il suo giovane compagno che le accarezzava i lunghi capelli neri sussurrandole: “Seni seviyorum” (ti amo). Chiuse gli occhi e si abbandonò ingoiata dalle terribili fauci di un mare affamato e impietoso. Di lì a poco il suo corpo fu visto galleggiare insieme a quello della sua bambina e della bambola che rideva sicura, legata al piccolo polso della bambina. Come sua madre, aveva pensato di tenerla a sé, più protetta. I soccorritori più tardi le issarono a bordo, insieme, come una catena. Piansero imprecando contro il cielo che aveva permesso accadesse tanta barbarie.

La Sea Watch e il peschereccio Fortuna entrarono in porto con il loro terribile carico. Uomini, donne, bambini, morti, vivi, feriti, tutti erano ammassati laddove avevano trovato spazio sulle due imbarcazioni. Medici, personale della Croce Rossa, abitanti dell’isola  e volontari erano pronti ad accoglierli a terra ed aiutarli. Tutti erano lì, in barba ai decreti sicurezza del governo contro “il favoreggiamento dell’ immigrazione clandestina” che vietavano qualsiasi opera di soccorso in mare di profughi in fuga provenienti dalla Libia, dall’Eritrea, dal Ghana o da altri regimi autoritari. Tutti, afferrando quegli uomini fradici di pioggia, feriti, terrorizzati dalle violenze subite nei lager da dove erano fuggiti, dalla fame, dalla miseria, si chiedevano quale trattamento avrebbero voluto se si fossero trovati in una identica situazione. La risposta veniva da sé: non certo essere ignorati e lasciati morire in mare. Uno Stato che fa questo non rispetta i principi fondamentali della sua stessa Costituzione: l’uguaglianza, la dignità delle persone, la solidarietà,  i diritti umani e primo fra tutti il diritto alla vita non poteva essere definito così da uno stato vicino a Dio.

Nei giorni successivi furono lanciate in mare molte corone di fiori. Il soffio del vento le trasportò lontano verso quei corpi che lui stesso, con furia, aveva risucchiato in mare e che ora, giacevano sul fondo dei suoi  abissi. In chiesa, furono allineate bare senza nome, che custodivano corpi per cui nessuno avrebbe mai pianto.