Racconto di Alessandra Grassi

(Prima pubblicazione – 12 marzo 2021)

 

 

Vi capita mai di svegliarvi in anticipo senza volerlo? A me accade ogni santo giorno da non so più quanto tempo ormai. Mesi? Anni? A chi importa. Sono sempre sveglia, o almeno quasi sempre. Dormo poche ore, mi alzo e senza motivo apparente mi trascino verso la cucina mentre l’appartamento al quarto piano è ancora avvolto nell’oscurità, soprattutto in inverno, quando le piastrelle sono illuminate dalla luce dei lampioni che svettano dai bordi della strada sottostante. A quel punto metto su il caffè e guardo l’orologio: le cinque e trentotto, le sei e quattordici, le sei e ventitré. Minuto più, minuto meno… Una forza misteriosa mi suggerisce di spalancare gli occhi prima della sveglia, la stessa sveglia che devo metodicamente disattivare per tempo perché non faccia prendere un colpo all’intera famiglia: mia madre Angela, mio padre Pasquale e mio fratello Gerardo. Ed io, che non so certo fare del bene a me stessa, ho scelto di impostarla sulle prepotenti vibrazioni di I don’t care, cantata da Judy Garland.

“They say I’m crazy

Got no sense

But I don’t care

They may or may not mean offense

But I don’t care (…)”

Avvolta nella mia vestaglia me ne sto seduta coi gomiti che puntellano il tavolo della cucina e aspetto di sentire il sibilo della moka, i suoi sbuffi gorgheggianti. Se avessimo acquistato a tempo debito una qualunque macchinetta automatica non mi toccherebbe aspettare così a lungo. Detesto le attese, in particolar modo quelle che mi separano dalla colazione. Ma non posso farci nulla se mia madre, da buona donnona del Sud, rifiuta di circondarsi di elettrodomestici che non siano strettamente necessari secondo la sua logica assurda. Sebbene appartenga a una generazione non troppo lontana dalla mia, si comporta come se fosse una devota e orgogliosa massaia del dopoguerra. Temperamento forte, grande senso di responsabilità verso casa e famiglia, indiscutibile maestria ai fornelli e ferrea volontà di imposizione del proprio ego domestico su tutto e tutti. Comprese le macchinette del caffè automatiche, le asciugatrici, le lavastoviglie. Fortuna che i dolori alle mani l’hanno persuasa dall’inserire nella sua lista nera anche la lavatrice, sono sicura che avrebbe preferito lavare i panni a mano. Angela Cataldo è una di quelle “femmine” tutte d’un pezzo che una volta definito il proprio perimetro d’azione non tollerano che qualcuno o qualcosa lo invada. Fin da bambina trovavo ammirevole la sua dedizione. Quando al pomeriggio facevo i compiti in cucina, amavo osservarla mentre predisponeva gli ingredienti per preparare la cena. Quasi mi incantava vederla tagliare, sminuzzare, spadellare, poi allontanarsi abbassando la fiamma del gas per andare a stirare le camicie di mio padre o controllare che il silenzio proveniente dalla stanzetta di Gerardo non fosse sinonimo di qualche marachella in corso. Poi, durante l’adolescenza, ho cominciato a percepire come soffocante e poco edificante tutta quella premura verso le cose semplici, che poi semplici non sono affatto, e dall’alto della mia giovane arroganza provavo insofferenza per il modo con cui mia madre si occupava delle faccende di casa a “livelli agonistici”, come amava sfotterla mio fratello.

Ma quello che non riuscivo a tollerare in alcun modo era lo spirito competitivo che Lina sfoderava in contesti particolari come feste o pranzi collettivi. Ricordo ancora quel tardo pomeriggio di inizio giugno, quando di comune accordo coi miei compagni di classe s’era deciso di organizzare una piccola festicciola per salutare le insegnanti delle medie prima dell’inevitabile traversata verso le superiori. Mentre lasciavo che la mia migliore amica Valentina mi inondasse di frivolezze, fui distratta dalla voce poderosa di mamma che bisticciava con la madre di un compagno di classe. Pare che l’oggetto dell’animata discussione fossero nientemeno che farina, impasto e tempi di cottura di una banalissima ciambella allo yogurt.

<< Non è come dici tu, Filomè! Quella và tenuta a centottanta gradi per mezz’ora, che se no la bruci! >>

E la povera interlocutrice intimidita e con la voce flebile di chi è stata appena aggredita con forza su una cosa del tutto irrilevante: -<< Sì, sì… Mò che vado a casa provo a farla come dici tu, anche se io la tengo di più a cuocere perché ho il forno che non funziona bene. >>

Solo in età adulta ho capito il perché di tutto questo accanimento, del perfezionismo maniacale che mamma metteva in ogni cosa, come fosse l’ingrediente segreto della vita. Però ancora mi sento addosso quel senso di profondo imbarazzo di quando, dritta nella sua mole massiccia e con il suo vocione, prendeva a scaldarsi per un pasto preparato male.

Ma torniamo in cucina. Ci sono sempre io infagottata in una vestaglia dalle maniche troppo corte a sorseggiare caffellatte dalla tazza preferita di Gerardo. Nel frattempo albeggia, i tetti e le antenne in lontananza sono ancora avvolte dalla foschia, un po’ per volta il cielo notturno inizia a tratteggiarsi di striature luminose.

“E’ giorno” – penso – “l’oscurità è finita”.

Ho un rapporto insolito con l’oscurità. La maggior parte delle persone la considera come una dimensione spaventosa dalla quale rifuggire, e la traduce in inquietudine, incertezza, pericolo.  Tra le paure più comuni legate all’oscurità vi è quella di trovarci nascosto qualcosa di terribile, un po’ come quando da bambini non facciamo mai penzolare la mano fuori dalle coperte per non esporla ai denti aguzzi di un mostro nascosto sotto il letto. Esistono, però, altre persone per le quali il buio è sinonimo di protezione e tranquillità: tra quelle persone ci sono anch’io.

Per me, Laura Fiore, affermare che l’oscurità si è diradata equivale a dire che è ufficialmente terminata quella fase del giorno in cui posso procrastinare, evitare di prendere decisioni a lungo termine, crogiolarmi tra le coperte in un tempo sospeso dove non ci sono impegni da onorare e scelte da compiere… Almeno non nell’immediato. Vivo l’attesa di ogni nuovo giorno sperando che non arrivi mai, svegliata in anticipo da un tocco invisibile, preparandomi al solito rituale del caffè, di Judy Garland zittita prima ancora che inizi a cantare, del cielo schiarito e della tazza blu di mio fratello. A pensarci adesso non so se quella per il giorno sia una fobia del tutto personale o affondi le radici in un passato ricco di traumi generati dalla sveglia. Mia nonna Rita diceva: “Laurè, senti a nonna. Il mattino ha l’oro in bocca”, e così dicendo sperava di iniziarmi ad una quotidianità operosa e lineare. Io però a sette anni ci capivo solo Il mattino ha LORO in bocca (“Loro chi, nonna?”) e lei con quell’espressione bonaria ed un sorriso sdentato mi sollevava il mento con le sue dita ruvide da contadina.  Se mi fiondo con la memoria parecchi anni indietro riesco a ricordare la sveglia delle sei e trenta per raggiungere il gruppo estivo della parrocchia. Mio padre veniva a svegliarmi per accompagnarmi alla fermata dell’autobus, e tra un oceano di minuscoli cappellini gialli già intravedevo l’animatrice di turno- quasi sempre diciottenne e con la pelle acneica– che a gran voce ci diceva: <<Forza bambini, iniziamo presto oggi! Ci sono un sacco di cose divertenti da fare! >> In realtà era necessaria un’ora abbondante per raggiungere la spiaggia e la mezza giornata rapidamente si consumava tra giochi di squadra, due bagni in mare, balli di gruppo e scottature solari. Poi venne il periodo della preadolescenza e mia madre cominciò a svegliarmi con i suoi soliti modi bruschi, le maniche già arrotolate sino ai gomiti per via delle faccende domestiche cominciate di buon’ora, e spalancando le persiane lasciava che a svegliarmi fosse una folata di vento siberiano. Quando si accorgeva che facevo ancora finta di dormire mi strappava le coperte di dosso e con tono seccato diceva: << Là, ma ti alzi o no? Che mò ti devo menare con la mazza della scopa! >>

Insomma, credo di avere appena elencato una serie di ragioni piuttosto eloquenti che spiegherebbero il mio cattivo rapporto con la luce del giorno, e mentre ci penso su il mio latte si è fatto tiepido e sento suonare la sveglia di mio padre, che tra poco deve alzarsi per andare a ritirare la sua prima pensione.

Pasquale Fiore, sessantottenne, pensionato, è un concentrato di energia e insopportabile buonumore che mi piace chiamare “papà”. Amo mio padre, ma credo che il suo ostentato benessere psico-fisico derivi non tanto dal fatto che si sottopone a rigide sessioni di jogging tutte le sante mattine, piuttosto dalla beata consapevolezza del posto a tempo indeterminato come impiegato all’ufficio anagrafe del comune. Quasi ogni giorno, quando tornava dal lavoro, io e Gerardo prendevamo a sfotterlo asciugandoci per finta il sudore dalla fronte. In risposta allo sfottò lui ci mandava al diavolo con lo sguardo prima di abbandonarsi sul divano, allungando gli arti quasi a simulare una stella marina. Inutile dilungarsi troppo sulla serie di eventi che hanno portato Pasquale a lavorare presso il comune per così tanti anni. Diciamo pure che era la metà di quel leggendario decennio che oltre al buffo affermarsi dell’aerobica e delle spalline è giunto alle orecchie della mia generazione attraverso racconti di disimpegno politico, disco music, immensa spesa pubblica e sfavillanti posti di lavoro messi a concorso. In parole povere un’orgiastica sequenza di eventi e circostanze che hanno travolto il buon Pasquale, consentendogli di trovarsi nel posto giusto al momento giusto: l’Italia degli anni Ottanta.

Caratterialmente parlando sembra essere capitato con mia madre per puro caso. Se mi soffermo a guardarli sembrano due persone le cui strade non potrebbero incrociarsi neppure per sbaglio e che se formassero una coppia, nessuno ci scommetterebbe mai. Come quegli amici che ti ritrovi in classe durante gli anni della scuola, lui va a lezione di violino e lei fuma le prime sigarette, di nascosto, in cortile. Tu sei lì che li guardi e pensi che lei finirà con il gran figo del quinto anno e lui è già un miracolo che non scelga il seminario dopo la maturità. Insomma, trentatré anni di matrimonio, una casa, due figli e un gatto apatico che dorme sul tappeto del salotto è tutto ciò che Lina e Pasquale hanno messo insieme durante la loro lunga, instancabile convivenza.

Nel frattempo Pasquale si è alzato, dalla cucina riesco a sentire il suo andamento pigro che si annuncia col suono trascinato delle pantofole sul pavimento. Sono le sette, è sabato mattina ed è convinto di non trovare nessuno sveglio a quell’ora. Come al solito, entrando in cucina, quasi sobbalza nel vedermi avvolta dalla solita vestaglia dal colore improponibile (un rosa che data la mia età dovrebbe essere illegale) e dalla luce del mattino che si fa sempre più intensa.

<< Scusa Là, ma si può sapere che ci fai alzata quest’ora? >>

<< Niente, Pà… Ho fatto colazione, mò me ne torno da capo a letto. >>

Mi guarda perplesso, con quell’espressione che di solito si adopera per scrutare un individuo con evidenti turbe mentali e muove le labbra in un silenzioso “mah”.  Poi, avanzando verso il piano cottura per versarsi del caffè mormora in dialetto pugliese “ Chèss iè scèm proprj…” (Questa è proprio scema). So bene perché dice così, del resto solo una sciocca se ne starebbe alzata di sabato alle sette di mattina a contare le piastrelle dell’angolo cottura con una tazza di latte in mano. Tuttavia, prima che pensiate che mio padre stia per dare inizio a un ingiustificato turpiloquio, è bene mettervi al corrente del fatto che da noi, al Sud, gli insulti in dialetto sono da considerare in termini affettuosi o pseudo tali.  Infatti, di sabato alle sette, Pasquale vorrebbe che la sua primogenita si godesse l’inizio del weekend a partire dal tepore delle coperte, dalla sveglia muta, arrotolata in una bella coperta pesante con gli occhi ancora annebbiati dal riposo notturno. E invece no, si alza e se la trova seduta in cucina con le gambe accavallate che sorregge una tazza semivuota. Vedete? Non è altro che affetto quello che si cela dentro il suo apostrofarmi, e difatti un po’ scema mi ci sento pure io ad alzarmi così presto.

Dopo papà è la volta di mamma. L’ingresso di Lina non è dei più delicati, specie quando scopre che il marito si è alzato prima di lei. Eccola giungere con passo pesante, piedi ben piantati al suolo e capigliatura ancora scomposta.

<< Pasquà ma che cavolo ti sei alzato a fare? >>

Mentre parla trattiene uno sbadiglio. Gli sbadigli possono aspettare quando Lina ha qualcosa da dire. Li intrappola nel palmo della mano e dice loro “Adesso proprio no, devo sbraitare contro mio marito perché ha osato alzarsi prima di me”.  La casa si anima. Come una bolla di sapone, la silenziosa oscurità nella quale fluttuavo fino a pochi secondi fa, scoppia alle prepotenti vibrazioni delle voci dei miei genitori che battibeccano tra loro sulle questioni più irrilevanti. Quello che se la passa meglio di tutti è sicuramente Gerardo, che “se vengono a rubare a casa quello non si accorge di niente”, come avrebbe detto nonna Rita alla mamma dopo essersi accorta che alle undici e quaranta Gerardo stava ancora dormendo.

Gerardo è più giovane di me di sette anni e si porta addosso il fardello di un nome sgradito per via della cieca ammirazione che mamma provava per Geràrd Depardieu. Tutto ebbe inizio con la miniserie de “Il Conte di Montecristo” trasmessa nel 1998, pochi mesi prima della sua nascita. Mentre Pasquale amava concentrarsi sui primi piani di Ornella Muti (alias Mercedes Iguanada), Lina si sentiva inspiegabilmente attratta dalla maestosa interpretazione del suddetto Geràrd nei panni del celebre Edmond Dantès. Pare che nel bel mezzo della scena della fuga dalla prigione, mamma abbia sentito scalciare il bimbo con veemenza, cogliendo quell’impeto di vita come un assenso di mio fratello ad essere battezzato col nome di Geràrd. Lina restò in fissa per settimane, bisticciando con Pasquale che si mostrava contrariato di fronte alla possibilità che il figlio maschio portasse un nome simile.

<< Lina, ma sei pazza? Che futuro potrebbe mai avere uno che si chiama Geràrd e vive in provincia di Bari? Madonna mia, lo sfottò…Non ci voglio pensare. >>

<< Pasquà, io una volta tanto a mio figlio voglio dare un nome originale! Mica è detto che tutti i maschi si debbano chiamare Giuseppe, Domenico, Vito…>>

E via a bisticciare. Alla fine si chiamò Gerardo comunque, perché Lina con la sua testa dura e l’obbligo di restare a letto durante tutto il nono mese, riuscì a estorcere a Pasquale il tanto agognato assenso.

<< Lina, mi hai stremato mamma mia, va bene! Purché il nome sia almeno in italiano…>>

È comune, sapete, il desiderio di definirsi, incasellarsi, sistemarsi al proprio posto in un qualsivoglia contesto. Quando avverti l’esigenza di un senso, la prima cosa a cui pensi è la famiglia dalla quale provieni. È da lì che tutto inizia a dipanarsi, una storia che parla di te e che parte da una coppia, un desiderio o un incidente, il tempo che passa, la scelta del tuo nome, l’atterraggio inevitabile da uno spazio acquatico e silenzioso a un mondo pieno di voci assordanti, bagliori confusi, odori, esigenze primarie. E le mie giornate iniziano così, tutte quante. Dapprima buio, silenzio, meditazione – come quando ero immersa nel liquido amniotico- poi ciabattare, sbadigliare, blaterare, conversare. Le voci di Lina e Pasquale mi giungono all’orecchio dalla porta chiusa. Si parla di bollette, di offerte al supermercato, del diabete di mamma, della prossima rata dell’università di Gerardo, di nonna Rita che si è da capo giocata quasi tutta la pensione coi numeri al lotto.

Un giorno nuovo, una casa piena di voci, il sole inaspettatamente caldo di inizio novembre, il cielo sgombro, eppure l’inizio del giorno mi mette paura. Ho questa cosa qui, sapete? Non lo so perché, è tutto così difficile, insormontabile, insopportabile. Sarà che la vita fa ancora troppa paura, con le sue aspettative sociali, gli amori, i distacchi, le sfide, i silenzi che squarciano altri silenzi con la forza del non detto, gli schemi per cui “o sei fuori o sei dentro” e tu devi scegliere per forza. E col giorno ricomincia tutto, da capo. Ho paura. Ma ormai sono troppo grande per dirlo.