Racconto di Teodoro Di Leva

(Seconda pubblicazione 12 gennaio 2021)

 

 

Il Paulazzi abitava a Varzo, oltre Varzo, dove quell’ “oltre” assumeva un’entità indefinita sia nel tempo che nello spazio poiché il Paulazzi abitava in una regione remota dove si praticavano usi e costumi atavici e dove si parlava un dialetto incomprensibile ai più. In ogni caso lui alle 7 e 45 timbrava il suo cartellino, puntualmente da quando mi era dato di conoscerlo. Arrivava con la sua borsa panciuta da dottore caricata a lattine di birra che era già semivuota quando il primo battello partiva dal pontile e si perdeva nella nebbia del mattino che galleggiava sul lago come il fumo di un incendio.

Comunque, già prima della partenza, il Paulazzi si recava al bar davanti all’imbarcadero dove chiedeva due bianchini, ne beveva uno e poi sbirciava fuori come se aspettasse qualcuno. “La ven mia”, diceva infastidito e quindi beveva il secondo bicchiere.

“Paulazzi se lei vuole bersi due bianchini è libero di farlo senza fare la solita pantomima”, le disse infine un giorno la Marisa, la ragazza del bar che era famosa per la sua schiettezza. Da allora lui prese a ordinare due bianchini, li beveva poi ne chiedeva altri due, si avvicinava alla porta del bar, guardava fuori con impazienza e poi diceva: “La ven mia”.

Questo era il Paulazzi, per darvi un’idea.

Quando il giovane Berri si sposò ricevette in regalo, tra le altre cose, due radio perciò chiese al Paulazzi se ne volesse una; la radio era bella e lui non chiedeva soldi. “La va mia ben”, disse nel suo linguaggio bislacco, “Questa va con la 220, a casa mia c’è la corrente a 110 volt”.

“Paulazzi, ma dove cavolo abiti?”, sbottò il Berri.

“A Varzo, oltre Varzo”, egli seraficamente rispose.

Una sera, dopo una delle tante feste che si organizzavano come pretesto per farci una bella bevuta, il Paulazzi era sbronzo da far paura ed allora decidemmo di accompagnarlo in macchina con la Lancia Appia del Corbani.

Arrivati a Varzo proseguimmo. Lui ci indicò la strada con informazioni frammentarie e lacunose. Imboccammo sentieri sterrati e ne uscimmo indenni, finché sbucammo in una radura illuminata dalla luce lattea della luna.

“Va ben inscì!”, sentenziò il Paulazzi con sicumera, quindi scese dalla macchina e si infilò nel bosco.

Uccellacci neri si levarono in volo e volteggiarono sulle cime degli alberi; dopo un po’ sentimmo ululare i lupi: il Paulazzi lo demmo per perso.

La mattina dopo era al lavoro, puntuale come sempre, con la sua borsa panciuta caricata a lattine di birra.

Solo una mattina arrivò in ritardo e fu la mattina del suo ultimo giorno di lavoro.

“Ho fatto tardi perché son venuto in moto”, si giustificò.  Nessuno riuscì a decifrare il senso di questa affermazione.

La moto era una splendida Guzzi rossa.

La sera tardi, tornando a casa vide due luci venirgli incontro; egli giudicò che fossero due moto affiancate e decise di passarci in mezzo….

Quando andammo a trovarlo in ospedale era fasciato fino agli occhi come una mummia. Aveva varie fratture ben distribuite ed un trauma cranico che gli aveva procurato un’insolita chiarezza di linguaggio con la quale ci descrisse con abbondanza di particolari tutte le fasi dell’incidente.

“Ordunque, finito il turno, col mio mezzo di locomozione procedevo a velocità sostenuta verso la mia magione…”

Ci vennero le lacrime agli occhi e ci dispiacque che fosse sopravvissuto all’impatto, sentirlo parlare così era un dolore troppo grande.

Il Paulazzi fu collocato in pensione anticipata per inabilità al lavoro e se ne tornò a Varzo, oltre Varzo, una contrada misteriosa dove si celebrano riti antichi e dove si parla una lingua incomprensibile altrove.