Racconto di Danila Delaiti

(Seconda pubblicazione – 26 novembre 2020)

 

 

La mano di Marco stringeva la mia, in modo quasi spasmodico.

Vedevo le vene sulle tempie pulsare e il pomo di Adamo andare su e giù, velocemente.

L’ansia ci divorava.

Seduti in quel salottino abbastanza accogliente, aspettavamo da circa dieci minuti, che già mi sembravano ore.

Dalla vetrata davanti a noi vedemmo alcuni bambini già grandicelli correre sul prato. Correvano e ridevano, chiamandosi l’un l’altro. Voci argentine, in una lingua sconosciuta e ostica.

Un brivido mi percorse la schiena: mi domandavo come avrei fatto a comunicare con quella piccola creatura. Ma ancora una volta scossi la testa scacciando quel pensiero. Avevo, anzi avevamo giurato che nulla ci avrebbe spaventato.

Pensai con disappunto che la temperatura era parecchio bassa per tenerli all’aperto; oltretutto il tempo era instabile e il cielo si stava facendo grigio dietro le montagne che si vedevano in lontananza.

Probabilmente sarebbe nevicato ancora.

Marco lasciò la mia mano e nervosamente si alzò in piedi, avvicinandosi furtivo alla porta chiusa, sperando di sentire un qualche movimento che facesse sperare nell’arrivo di qualcuno.

Avevamo affrontato quel viaggio con entusiasmo, ma tra lo sciopero dei piloti e il posto di blocco alla frontiera (chissà perché poi), i tempi si erano allungati parecchio.

Infatti, non eravamo neppure passati dall’albergo.

C’eravamo fatti portare subito all’orfanotrofio.

Era una grigia, triste costruzione in mezzo alla campagna.

Un parco grande e brullo la circondava. Sull’erba ingiallita la neve si era ghiacciata e brillava sotto i raggi del pallido sole che stava resistendo all’arrivo delle nuvole.

Ora le voci dei bambini non si sentivano più.

Erano rientrati. Forse per la merenda.

Con un lieve fruscio la porta si aprì ed entrò una giovane donna. Indossava un austero abito grigio, ma sorrideva e questo mi rincuorò un poco.

Forse questo posto non era poi così triste come lo avevo immaginato per mesi.

«Buonasera signori Piazzi, benvenuti». «Scusate se vi abbiamo fatto attendere. Siamo quasi pronti per farvi conoscere la bambina. Solo una decina di minuti. Devo dare un’ultima controllata ai vostri documenti».

Ancora, pensai. Erano mesi che questi benedetti documenti andavano avanti e indietro, visti e rivisti, erano persino consunti ormai.

E poi i colloqui, di persona, al telefono, via Skype.

Non ne potevamo proprio più.

Marco mi vide abbassare le spalle, sconsolata e quasi tremante, riprese la mia mano tra le sue, accarezzandola e mascherando la sua identica ansia con un pudico sorriso si rivolse alla ragazza dicendole: «Signorina, la prego, non ci dia cattive notizie. Siamo sfiniti dal viaggio e soprattutto dall’attesa».

La ragazza alzò la testa, chiuse la cartella che aveva esaminato, lisciandone il dorso.

«Andiamo» disse.

Un lungo corridoio con tante porte.

Rumori e voci dietro quelle porte.

Finestroni alti da un lato, privi di tende.

Le mie mani erano sudate.

Non riuscivo neppure a deglutire.

Ci fermammo davanti ad una porta più grande delle altre, in fondo al corridoio.

Marco mi cinse le spalle, stringendomi.

Tremava, tremavamo.

Fu aperta la porta… entrammo.

Davanti a noi una ventina di bambini giocavano seduti su un tappeto consumato, un corpicino vestito di rosso si alzò, si voltò.

Capelli biondi, occhi color cioccolato, stringeva per le corna una piccola renna di plastica.

Un sorriso dolcissimo le illuminò il visetto paffuto.

Un passo verso di noi.

Eravamo immobili, totalmente persi a guardarla.

Prese a correre a piccoli passi: la sua vocina «Mamma» e le piccole braccia tese…

Le nostre finalmente aperte ad accoglierla.

Il sapore salato delle nostre lacrime si confuse con quello dolce della sua pelle…

Nostra figlia.