Racconto di Elisabetta Bordieri

(Terza pubblicazione)

 

 

«Ci sono tutti sul set?» domandò il regista spazientito.

«Tutti pronti, aspettano solo te» lo tranquillizzò l’assistente.

«Bene, partiamo!» concluse il regista.

«Silenzio!» l’aiuto regia chiamò tutti in riga.

«Audio!» annunciò il regista ad alta voce.

«Partito!» dopo pochi istanti dichiarò il fonico.

«Motore!» esclamò ancora il regista.

«Partito!» rispose a ruota l’operatore di macchina da presa.

«Ciak in campo!» il tecnico chiuse con forza l’asticella per farla sbattere producendo il tipico suono.

«Azione, si gira!» il regista a quel punto intimò l’inizio della scena.

 

– Forza ragazzi cominciamo, domani sera rivediamo i dettagli, proviamo bene il finale e stabiliamo il giorno della generale e poi si va in scena, dai dai che manca ormai poco al debutto, ma vedrete sarà un successo, tutti sul palco!

Anche quella sera Filippo decretò puntuale l’inizio delle prove a teatro alle ventuno esatte come da nove estenuanti e faticosi mesi, una sorta di parto a cui non poteva sottrarsi ma che sperava lo avrebbe ripagato in gloria e onori. Aveva scelto, come sempre, una compagnia di attori non professionisti, opachi e sciatti, per elevarli a grandi artisti affinché il pubblico vedesse ancora le sue capacità di strenuo regista mai pago di un trionfo scontato, e poi perché c’era lei, Isabella, la pecorella sperduta che andava ritrovata. E punita. Come le altre prima di lei. Ma le altre attrici erano acqua passata, avevano avuto il loro castigo che altro non era che un mezzo di correzione, un provvedimento a fin di bene, per aiutarle a crescere e a diventare donne migliori, anche se in alcune di loro non aveva trovato terreno fertile: molte avevano semplicemente abbandonato la recitazione, altre avevano provato a denunciarlo per mobbing, tentato stupro, rapimento e reati vari; inezie finite poi nel dimenticatoio grazie alla sua capillare destrezza nel saper prevenire le azioni maldestre delle sue creature. La rieducazione della persona era il suo scopo, la perseveranza il suo mezzo, le modalità del tutto personali ma efficaci. Le donne erano più ricettive, per questo sceglieva sempre le più deboli e timorose: le individuava subito, sempre in disparte, aspetto anonimo, sguardo basso, interazione con il gruppo ridotta al minimo, alla domanda di presentazione ‘perché hai deciso di fare l’attrice?‘ rispondevano ‘per vincere la mia timidezza‘. Non serviva un attestato in psicologia, bastava solo avere occhio e accortezza e poi acuire la loro condizione di disagio fino a farle sentire sempre più in difficoltà fisica e psichica: solo così avrebbe potuto diffondere il suo germe, solo così le avrebbe liberate dal peso della disfatta della vita. Filippo aveva imparato negli anni a coltivare la pazienza, a carezzarla come una donna amata, a coccolarla nei passati tentativi di attesa falliti, a gemere di gioia nella riuscita dei rari successi, ma stavolta non voleva sbagliare, tanto da continuare, glaciale, a recitare la parte di mentore zelante e premuroso.

Isabella arrivò a teatro con il suo proverbiale ritardo, a prove già iniziate, e il suo ‘scusate‘ non sortì alcuna risposta. Salì sul palco e si posizionò in piedi accanto agli altri attori, disposti in cerchio, che stavano già facendo esercizi per scaldare la voce. Filippo la guardò di sottecchi e continuò a impartire ordini di tecnica di respirazione diaframmatica senza considerarla.

– Aprite la bocca, tirate fuori tutta l’aria che avete spingendo bene in fuori la pancia, bravi così, e ora riprendete fiato inspirando dal naso, riempiendo d’aria i polmoni e poi fatela uscire piano con un sibilo attraverso i denti ben chiusi e labbra aperte.

E mostrava ogni volta come fare, come si trattasse della prima lezione per principianti, stesse identiche parole, stessi monotoni gesti.

Non troppo alto, magro e ossuto, viso glabro, scavato, eroso dagli eventi, Filippo era un regista serio e metodico fino alla paranoia, austero nei modi, mai scortese, sempre attento. Unica nota curiosa era quel tatuaggio indecifrabile e decisamente lugubre di teschi neri e draghi rossi sulla testa calva, del quale nessuno aveva mai osato chiedere, forse più per timore che per rispetto. Isabella lo aveva inquadrato bene fin dai primi giorni. Era brava a fare uso dell’istinto in maniera ponderata ma non aveva calcolato quella lieve sensazione di benessere che provava ogni qualvolta entrava in contatto con lui: una maledetta sensazione che per nove mesi le aveva occluso le vie del raziocinio e che non le permise per tempo quella sera di capire quanto Filippo sarebbe stato dì lì a poco terribilmente pericoloso.

– Ok, basta così, iniziamo che la prima è tra una manciata di giorni dai, posizionatevi, io scendo in platea e tu, Isabella, vieni con me.

Presa alla sprovvista non seppe dire altro che una banalità.

– Scusa, come ‘vieni con me‘?

Cosa c’è da capire?

Filippo incrinò la sua poker-face un secondo di troppo, tanto da permettere a Isabella un azzardo e un’audacia come di chi non ha niente da perdere. E lei aveva tutto da perdere, ma gli rispose lo stesso.

– Tutto ‘c’è da capire, devo iniziare le prove con gli altri ‘che la prima è tra una manciata di giorni‘. Parole tue!

Filippo restò di gesso, non abituato a tanta intraprendenza.

– Ho detto: vie-ni-con-me!

Poi, con fare cristallino e serafico e con voce squillante, si rivolse al gruppo.

– Voi iniziate pure che tanto la parte di Isabella la rivediamo dopo, intervallate la sua assenza con delle pause, un ottimo esercizio di concentrazione.

Nessuno ebbe da obiettare.

La rivediamo dopo‘ quando? pensò Isabella ma, in ossequioso quanto imbarazzante silenzio, seguì in platea Filippo, brusco e scostante come mai era stato in quei nove mesi, in una sorta di sottomissione.

Seguirono le prove fino a che, a un certo punto, Isabella sommessamente sbottò.

– Forse è il caso che mi spieghi.

– Zitta. Sei stata zitta per tre ore.

– Due ore e quaranta minuti. Parlo adesso. Dimmi perché sono qui. Con te. E non sul palco. Con gli altri. Sono quattro domande.

– Perché volevo vedessi con i miei occhi. Ed è una e una sola risposta.

– Che ‘vedessi‘ cosa?

– La tua assenza sul palco. Sei superflua. Inessenziale.

– Ma cosa stai dicendo? E il mio personaggio?

– ‘La vita è teatro, ma non sono ammesse le prove‘, questo lo diceva Cechov, mentre io, che lavoro al fianco degli Dei, te ne ho concesse e concesse di prove e di possibilità, le conclusive proprio stasera, e le hai sprecate. Tre ore, hai avuto tre ore per mostrarmi e dimostrarmi qualcosa di nuovo e invece sei rimasta seduta accanto a me e non hai saputo fare altro che quello che hai fatto, cioè niente! Il niente più totale!

– Certo, e cosa mai avrei potuto fare visto che mi hai costretto tu a stare qui e a non provare con gli altri?

– Basta. Hai ancora venti minuti.

Si alzò di scatto senza dire altro e senza nemmeno lasciare a Isabella modo di replicare, ma trovò parole di apprezzamento per la compagnia.

– Bravi, bene così. Da rivedere qualche leggera imperfezione nei dialoghi all’inizio: vi voglio più decisi e più incisivi nei passaggi fondamentali. Per oggi può bastare, andate pure. A domani sera.

Un coro di ‘sììì‘ e applausi sparsi fecero da eco al silenzio di Isabella ancora impietrita, seduta tra le poltrone in platea. Intanto Filippo si beava del suo ego e della sua astuzia che trasudavano sangue da ogni singolo remoto anfratto e che a breve sperava avrebbero dato i loro frutti, salutando con la mano o con un vago cenno del capo gli attori che, a uno a uno, scendevano dal palco recuperando i propri averi e avviandosi all’uscita senza nemmeno degnare Isabella di uno sguardo. Alla fine anche lei si alzò, prese la sua borsa e la sua giacca e, senza dire nulla, a testa bassa, fece per uscire dal teatro quando sentì gli occhi di Filippo conficcarsi come lamine affilate dentro le sue spalle. Si voltò di scatto impaurita, lo vide sorriderle a pochi centimetri dal suo volto mettendo forzatamente in mostra quella sana dentatura bianca candida simile a un infido ingranaggio meccanico. Guardando l’orologio lui le bisbigliò con un lieve afflato quasi come fosse un labiale.

– Ti restano solo cinque minuti.

Isabella scappò via di corsa infilando il portone antipanico del teatro senza capire quella assurda scansione dei minuti restanti e senza nemmeno curarsi di girarsi un attimo supponendo che lui potesse rincorrerla. Se lo avesse fatto si sarebbe accorta che Filippo non l’inseguiva ma che piuttosto l’aveva già preceduta e l’aspettava. Arrivata al parcheggio, con la mano tremante armeggiò nella borsa rovistando forsennatamente, ma delle chiavi nessuna traccia.

– Cercavi queste?

Filippo era lì, poggiato alla portiera della sua automobile ciondolando le chiavi tra le dita.

– Co… sa, co… me?

– Tempo scaduto. Minuti a disposizione esauriti. Mezzanotte passata da poco, vieni Cenerentola, sali, guido io.

Isabella non poté fare altro che assecondare le insensate e incomprensibili istruzioni di Filippo che guidò senza fretta e senza scossoni, come in una serena gita familiare senza nessuna meta, fischiettando un motivetto nelle notturne strade deserte. Più tardi l’avrebbe riportata a casa e, tra un piagnucolio e l’altro, le avrebbe spiegato come le umiliazioni inflitte, gli oltraggi gratuiti, le improvvise offese di quella sera, il folle gioco del countdown per metterla sotto stress, sarebbero serviti per farla diventare una donna migliore, forse un’attrice migliore. Le avrebbe sopratutto rivelato che non era stata la prima e nemmeno l’ultima. Nel frattempo si godeva l’attimo, tronfio del proprio successo. Fino a che un battito cadenzato di mani alla sua destra lo riportò alla realtà.

– E bravo il nostro Filippo. Il nostro regista che pensa di mettere soggezione con i suoi tre disegnini colorati sulla testa, uh uh che paura. Il nostro grande uomo che insulta e offende, uh uh ancora più paura.

Si girò a guadarla sbandando pericolosamente ma riprese il controllo della vettura mentre Isabella, sfoderando un timbro di voce caldo e deciso che lui non conosceva, lisciava con cura la lama argentea di un coltello.

– Ma che cavolo…

– Sorpreso che la tua attricetta non sia poi così schiva e insulsa, eh? Prosegui dritto per un paio di chilometri poi svolta a sinistra dove ti indico.

Stordito e sopraffatto dagli eventi, fece come gli veniva ordinato senza opporre resistenza.

– Isabella, io brancolo nel buio, non capisco.

– Uh uh, lui brancola e non capisce. Ora gira subito qui a destra e accosta più avanti, ecco, qui, e resta con le mani sul volante. Non fare scherzi. Ti conviene.

Si fermò lungo una strada sterrata illuminata a stento accanto a un edificio fatiscente in stato di abbandono.

– Che posto è questo?

– Lo scoprirai, ora scendi e vieni con me.

– Non si vede niente qui.

– Ho detto: ‘vie-ni-con-me‘!

Scesero e Isabella lo esortò a precederla. Scavalcarono massi e  cocci, ferrivecchi e calcinacci e alla fine entrarono in una sorta di stanza polverosa al piano terra dove erbacce e rovi avevano stabilito la loro residenza indisturbati, attorcigliandosi tra detriti e rottami di ogni genere. Filippo, terrorizzato, si piantò di sasso arrestando i suoi passi e iniziò a indietreggiare vacillando, quando sentì all’improvviso una pugnalata conficcarsi nella coscia destra lacerandogli il bicipite femorale. Il suo urlo lancinante sconquassò il silenzio della notte. Filippo cadde al suolo su un fianco mentre il sangue sgorgava esagerato a fiotti mischiandosi al terriccio e formando una poltiglia di fango rosso.

– Maledetta pazza!

– Uh uh, maledetto pazzo tu! Alzati e guarda, hai visite. Ho detto alzati!

A fatica e dilaniato dal dolore, Filippo si tirò su aiutandosi con una mano mentre l’altra cercava invano di fermare il flusso del sangue, quando vide delle sagome fluttuanti come ombre oscure avvicinarsi a lui. Strinse gli occhi per cercare di mettere a fuoco. E poi le riconobbe. Tutte le altre. Tutte le altre precedenti attrici. Una a una. Erano lì. Riunite. Per vendicarsi. ‘Non è possibile‘, pensò, ‘non è possibile, sto sognando‘. Poi un’altra stilettata nella schiena e un’altra e un’altra ancora. Filippo barcollò per pochi secondi. Forse abbozzò un macabro sorriso, consapevole della fine imminente, prima di rovinare a terra, straziato, con un tonfo secco, in un lago di sangue marcio.

Poi Filippo si mosse.

 

«Stooop! Ma no, non così! Cosa ti muovi? Sei morto! Devi stare fermo! Più credibile, più credibile! Hai rovinato l’intero piano sequenza! Ora ci tocca rigirare tutto da capo l’ultima scena! Silenzio! Luci! Motore! Azione!»  Ringhiò il regista visibilmente seccato.

L’attore continuò a muoversi.

«Stooop! Ma che fai? Fermo! Ho detto da capo tutta l’ultima scena! Da capo!» ripeté infastidito.

L’attore si tirò su.

Con una bizzarra calma inquietante si asciugò il liquido rosso che colava sulla gamba, tossicchiando per gli effluvi emanati dalle sostanze secrete dal sangue finto, e si pulì le mani sporche passandole sulle maniche della camicia. Lo raggiunse l’attrice protagonista che lo aiutò a sfilare dalla coscia il coltello di scena incastrato nel tessuto dei pantaloni. Poi anche le altre attrici non protagoniste lo affiancarono. Lentamente, come una massa di zombie, si avvicinarono al regista ancora seduto dietro la macchina da presa.

«Ehi, ma che succede…» sussurrò quasi a se stesso.

Tutta la troupe attonita e incredula seguiva senza intervenire la paradossale scena, assistendo all’insubordinazione degli attori che circondarono minacciosamente il regista senza concedergli via di scampo. Si levò un grido lancinante. Poi il branco, così come si era riunito, si disperse in maniera pacifica.

 

E mentre ancora scorrevano i titoli di coda, l’applauso del pubblico decretò la fine della proiezione del film, in un cinema gremito di gente tra giornalisti e invitati già pronti per le recensioni. Le luci si accesero in sala, i commenti dei presenti si affievolirono pian piano, le persone defluirono fuori. Rimase solo il surreale incastro tra una celata ironia e il non senso del film, uniche prede per i feroci critici, giudici dei fabbricanti di arte.