Racconto di Liliana Vastano

(Ottava pubblicazione)

 

 

L’aereo proveniente da New York, prima di atterrare all’aeroporto di Capodichino, fece una lunga virata di avvicinamento, sorvolando il cono del Vesuvio e offrendo così alla mia vista e a quella degli altri passeggeri un primo assaggio delle meraviglie della città. I miei occhi si riempirono di lacrime nel momento in cui, di sfuggita, apparve anche il porto.

L’unica volta che lo avevo visto avevo poco più di otto anni: era successo settant’anni prima.

L’atterraggio fu tranquillo, così come il controllo dei documenti.

Recuperato il bagaglio in un tempo abbastanza ragionevole, mi avviai verso l’uscita per cercare un taxi, sorpresa per le dimensioni dell’aeroporto, molto più piccolo rispetto a quelli a cui ero abituato negli States. Questo però era impreziosito da numerose statue di arte classica, posizionate qua e là. Prima fra tutte, una copia della Nike di Samotracia, preludio alle numerose bellezze artistiche della città.

Napoli era una città legata a un momento doloroso della mia vita, ma io avevo sempre sognato di tornarvi, non appena si fossero create le condizioni giuste per farlo.

In realtà, già molti anni prima avrei potuto farlo, ma avevo sempre trovato una scusa con me stesso per rinviare. Le emozioni forti che mi legavano alle mie origini, mai sopite nonostante gli anni, mi frenavano ogni volta che mettevo in agenda il progetto di partire, fino a quando mio nipote Jack mi offrì l’occasione giusta.

Jack, professore di storia, si sarebbe recato in Italia per uno studio sulla ritirata tedesca dopo l’otto settembre. Io l’avrei raggiunto in un secondo momento, per rivedere i miei parenti e i luoghi della mia infanzia, poi saremmo tornati in America insieme.

E così era avvenuto: Jack era partito già un mese prima, ora io lo stavo raggiungendo.

Trovato il taxi, mi feci accompagnare in hotel e ordinai la cena in camera. Dopo tante ore di viaggio, per gli scompensi legati al fuso orario, avevo bisogno di riposarmi e di mettere ordine nelle mie emozioni per non esserne travolto.

Il giorno seguente mi recai al porto.

Napoli era splendida, nei suoi mille colori. Il cielo era terso e luminoso, in quella primavera partenopea. Stormi di passeri volteggiavano sul Maschio Angioino. Una varia umanità circolava tra i numerosi varchi del porto. Erano turisti, prevalentemente diretti alle isole del golfo, ma anche più lontano: quelli del Molo Beverello s’imbarcavano sugli aliscafi, poi c’erano quelli dell’Immacolatella Vecchia, diretti in Sicilia o in Sardegna e infine quelli del varco Pisacane, che scendevano dalle navi da crociera, veri mostri del mare.

Non c’era nemmeno un “bastimento”, non c’erano più gli emigranti, con le valigie legate con lo spago e le provviste per il viaggio. Nessuno piangeva, nessuno aveva il figlio piccolo attaccato al collo per un ultimo abbraccio. Il porto dei disperati, quello che ricordavo io, non c’era più.

E disperata e impaurita era mia madre, che mi teneva per mano in attesa di salire sul Conte Biancamano, la grande nave che avrebbe portato in America noi, la sorella di mamma con il marito e i miei cuginetti.

Era il 1947.

Io avevo sette anni, fuggivamo tutti dalla miseria e dalle tragedie della guerra, che si era accanita come non mai sulla nostra famiglia.

Allora mi chiamavo Giacomino.

Dopo questa giornata, occupata da ricordi che mi avevano tanto rattristato, rimasi ancora un paio di giorni a Napoli, per godermi le sue bellezze e i suoi sapori. Acquistai anche qualche souvenir per mia moglie e gli altri nipoti che avevo negli States e, infine, prenotai un’auto a noleggio per tornare nel mio paese d’origine, nell’alto Casertano.

Il giorno della partenza mi avviai per tempo, un po’ impensierito per il modo di guidare eccessivamente disinvolto degli automobilisti italiani. Fortunatamente, non ebbi alcun problema e dopo circa un paio d’ore arrivai a destinazione.

Prima di poter riabbracciare mio nipote e i parenti italiani, però, decisi di recarmi da solo a rivedere la masseria dove ero nato e vissuto, fino alla partenza per il Nuovo Mondo.

Questa si trovava in una contrada un po’ fuori dal paese, isolata dalle altre case che si affacciavano sulla Casilina, a ridosso di una fitta vegetazione. La trovai con un po’ di difficoltà, perché tutto era cambiato, dopo tanti decenni. Ma quando imboccai la strada sterrata e girai dietro la collinetta, la riconobbi subito.

Era in completo abbandono.

Le finestre e il portone erano murati: resistevano solo alcune grate sparse qua e là.

Sentinella muta e dolente, una quercia spoglia.

La stalla era invasa da rampicanti infestanti. Dietro la stalla, ricordavo, doveva esserci una porta. La cercai e la trovai, coperta di erbacce e di rovi, in stato di abbandono come tutto il resto. Riuscii con non poco sforzo ad aprirla e mi avventurai nel deposito degli attrezzi, miracolosamente intatto, pieno di ragnatele e oggetti annebbiati dal tempo.

Poco dopo mi ritrovai nella grande cucina. Rimasi per un po’ senza parole, sommerso dalle immagini del passato che si riaffacciavano prepotenti alla mia mente. Poi mi ripresi e li vidi.

C’erano tutti: il nonno Ignazio era seduto nella sua poltrona vicino al camino, si era appisolato leggendo un vecchio libro. Dormiva poco, di notte, non tanto per la vecchiaia ma per i colpi di fucile e le scariche di mitraglia che arrivavano dalle campagne intorno, dove c’era un campo di raccolta di prigionieri che i tedeschi avevano rastrellato nei paesi della zona, quasi tutti vecchi o molto giovani. La nonna era intenta a riordinare la cucina, sempre col pensiero rivolto ai figli partiti per il fronte.

Zia Vittoria e mia madre rammendavano i pantaloni miei e dei miei cuginetti e, come sempre, parlavano di mio padre e dello zio, che non davano notizie dalla primavera del ’41.

Per ultimo, ma non in ordine di importanza, c’era il gatto di casa, quasi sempre raggomitolato sul suo cuscino vicino alla porta. Non usciva quasi più, spaventato dalle violente scorribande dei tedeschi in ritirata che avevano anche ucciso senza motivo i nostri due cani, che stazionavano sempre davanti casa.

Tutti avevano paura di uscire perché temevano le retate e le uccisioni sommarie, come già era avvenuto in molti paesi lungo la statale Casilina, che i nostri ex alleati percorrevano nel loro arretramento verso Nord.

E fu proprio questo ciò che accadde una mattina di novembre del ’43: mentre mia madre, zia Vittoria e noi bambini ci eravamo addentrati nella boscaglia confinante con la nostra masseria, in cerca di qualcosa di commestibile da aggiungere al nostro modesto pasto quotidiano, sentimmo il rumore inconfondibile delle camionette tedesche che si avvicinavano. Si fermarono davanti casa, sfondarono con un calcio la porta, presero il nonno, la nonna e un cugino di papà che era lì per caso e li caricarono su un camion, dove c’erano già altri compaesani.

Li fecero scendere qualche chilometro più avanti, gli diedero le pale per scavarsi la fossa, poi li fucilarono.

Questo noi lo scoprimmo qualche ora dopo: infatti ritenemmo più sicuro non tornare subito alla masseria, bloccati dal terrore che potessero tornare e prendere anche noi.

Eravamo salvi per miracolo.

Dopo qualche giorno, quando finalmente arrivarono gli Alleati, tutto il paese si recò sul luogo dell’eccidio a piangere i suoi morti.

All’arrivo della la primavera, per uno strano scherzo della natura, nel campo dove c’era ancora la fossa comune spuntò erba rossa. A tutti noi piacque credere che fosse impregnata del sangue dei nostri morti.

Quando finì la guerra, io e la mamma aspettammo invano papà. Tornò solo lo zio.

Continuammo a vivere tutti insieme nella masseria, ma era difficile tirare avanti e così, quando finirono anche gli aiuti degli americani, decidemmo di emigrare a New York, dove c’erano già nostri compaesani che ci avrebbero dato una mano a inserirci in un mondo tanto diverso dal nostro.

Tornato alla realtà, sentii che le emozioni che avevo provato al ricordo dei miei cari mi avevano lasciato un profondo senso di vuoto, per cui decisi che non potevo andar via senza rivedere il campo dell’erba rossa. Anche perché era la stagione giusta: era primavera, come tanti anni prima.

Girai un po’ con l’auto, chiesi in giro, finalmente arrivai in un campo con una stele, a ricordo dei caduti per mano tedesca.

L’erba rossa, però, non c’era.

Il campo era pieno di margherite e di orchidee selvatiche.

Rimasi per un po’ a riflettere, a ricordare, a cercare di riportare nella mente e nel cuore il forte legame affettivo che mi aveva richiamato in quel posto.

Quando andai via, ebbi la sensazione che il nonno e la nonna mi stessero accompagnando.

Il cerchio si era chiuso, il blocco alla stomaco che provavo pensando a quel periodo era sparito.

Mi sentivo più leggero, sereno, pago di quella vita che Dio aveva voluto donarmi per compensare le tragedie della mia infanzia.

Mi rimisi in macchina e mi avviai in paese, per riabbracciare finalmente mio nipote e gli altri miei parenti.

Fu un incontro molto caloroso, anche se ci eravamo riconosciuti a stento: erano molto vecchi, quelli della mia generazione e molto giovani invece i figli e nipoti di ciascuno.

Ma tutti avevamo in comune una cosa che ci avrebbe legati per sempre: il prato con l’erba rossa.