Racconto di Maria Pia Rosati

(Terza pubblicazione – 11 giugno 2021)

 

 

 

Certe mattine basta una canzone ascoltata per caso, quella che mi ha accompagnato quando chiedevo alla vita di essere felice e qualche volta ci riuscivo, per ritrovarmi a pensare a quello che non c’è più.

Nell’autunno del 1997 arrivò inaspettato un contratto di lavoro per un intero anno e la speranza di un futuro migliore. Ogni giorno novanta chilometri da percorrere con una decrepita FIAT Uno e altrettanti nel tornare. C’era il tempo per pensare, perfino per sognare. Ogni mattina, alla stessa ora, una canzone alla radio: “Certe notti la macchina è calda e dove ti porta lo decide lei… ”
Avevo preso l’abitudine di cantarla a squarciagola, un inno liberatorio, un desiderio inconfessato di libertà che ancora non sapevo cosa fosse e nemmeno dove si potesse trovare. Poi una mattina, su quelle note, mi sorprese invadente un pensiero: “E adesso? Ci vorrebbe un amore!” Provai un brivido di stupore e di paura: a casa mi aspettavano un marito e un figlio ancora piccolo.

Mi regalavo un cappuccino e un cornetto nell’unico squallido bar sulla piazza del paese. Ma quella mattina, sul bancone, due mani lunghe e magre giravano il cucchiaino dentro la tazzina, mentre un odore di fresco e pulito, dai polsini della camicia, mi fece alzare lo sguardo.
Mi colpirono subito la pelle olivastra, i capelli neri e ricci e la voce calda ma ben modulata, quella degli uomini che sanno di piacere alle donne. “Ma che ci fa uno così qui dentro?” mi sorpresi a pensare.  Da quel momento non ho avuto più pace: volevo un amore e doveva essere lui. Non pensavo che un uomo potesse ancora piacermi fino a quel punto. L’avevo dimenticato. L’amore di un tempo non c’era più. L’ho capito in quel momento.

Il nostro primo appuntamento fu in un luogo scelto a metà strada. Quando scesi dalla macchina le chiavi mi caddero a terra per l’emozione. Mi abbassai per raccoglierle. “Ho visto il mondo” mi disse quando mi sedetti accanto a lui, facendomi arrossire. Se mi sforzo riesco ancora a ricordare il suo odore, i brividi sulla pelle alla prima carezza. Ma anche la paura che mi aveva invaso sulla via del ritorno: la camicia stropicciata, gli occhi lucidi e stanchi, le mani che tremavano sul volante. Speravo di arrivare a casa prima del ritorno di mio marito. E il caso così aveva voluto. Ricordo il getto bollente della doccia sulla pelle per cancellare le tracce di lui e strapparmelo di dosso. Ma era stato inutile.

Sapevamo tutti e due che doveva finire, ma ci nutrivamo di quelle poche ore in un alberghetto fuori mano. “Il mondo è tutto qui dentro”, diceva. Poi mi rivestivo in fretta, mentre lui bagnava sotto la doccia la maglietta e l’accappatoio per simulare la partita di tennis con gli amici. E poi l’attesa di telefonate che viaggiavano ancora sulla rete fissa e scandivano ormai le mie giornate. Era vero amore? Con il tempo ho capito l’inutilità di certe domande. Ero presa da lui con la mente e con il corpo, cosa poteva esserci di più vero?

Poi lei cominciò a diventare sospettosa: una moglie attenta riconosce un marito che torna a casa ubriaco di emozioni, stordito e affaticato dalla passione. Conosceva il suo uomo e le sue debolezze. Fece quello che aveva fatto altre volte: allungò il guinzaglio che lo legava alla cuccia per il tempo necessario a fargli bruciare quella passione che sarebbe finita presto. Lei, nel frattempo, la manteneva calda e accogliente.

Ma una sera, rientrato a casa con lo sguardo stralunato e con l’aroma del mio profumo sulla pelle, lei tirò la catena per riportarlo a sè, affrontando anche il rischio di spezzarla. Ma riuscì a reggere. Lui cominciò a diradare i nostri incontri, io cominciai a soffrire e a temere la fine. “E te ne vai con la mia storia fra le dita”, risuonava la nostra canzone. E lui, con la coda fra le gambe, implorando il perdono, tornò alla sua vita. Ma gli era difficile dimenticare il mio odore e la mia pelle. Non era stata un’avventura, stavolta le emozioni gli erano sfuggite di mano. Ora sapeva che ci eravamo amati veramente.

Ma come potevo tornare anch’io al mio posto dopo tanto stordimento? Mi risultò impossibile. Con lui avevo capito che avrei potuto superare i miei errori e iniziare una nuova vita. Mi sentivo bella, forte e coraggiosa. E il merito era stato suo.

Non so perché accettai quell’ultimo incontro. Alcuni ricordi andrebbero lasciati intatti, cristallizzati in un tempo immutabile che li rende preziosi e inimitabili. Non dobbiamo permettere che vengano offuscati o peggio sporcati con le contaminazioni del presente. L’ho capito dopo.

Lo trovai invecchiato e con lo sguardo malinconico.  Restammo in silenzio con la nostra canzone in sottofondo: “Tanto di me non ti devi preoccupare, me la saprò cavare…” Nei suoi occhi leggevo la speranza di riafferrare la passione, ma anche la sua incapacità di cambiare. Mi aveva amata veramente, mi confessò, svelandomi ciò che avevo sempre saputo. Ma io riuscivo a provare solo il rimpianto per quella storia che ci era scivolata dalle dita, per quella me, di allora, così felice. Lui se ne accorse: “Io ora con te sono perdente: tu sei libera, io no”. Aveva ragione.

Non mi voltai indietro per vederlo andare via. Pensai solo a quello che non c’era più.

Gli vorrei dire grazie, perché con lui ho potuto ancora amare e anche dopo di lui, perché quel nostro incontro ha cambiato per sempre la mia vita.

Lo immagino con i capelli brizzolati, sulla terra rossa, con la racchetta fra le mani a insegnare il tennis a suo nipote. Chissà se, qualche volta, ripenserà a quella maglietta bagnata sotto la doccia?

Certe mattine ti ritrovi a pensare che l’amore che hai perso si è nascosto in un angolo a scaldarti per sempre una parte del cuore. Basta solo qualche nota a fartelo ricordare.