Racconto di Fabiano Spessi

(Seconda pubblicazione – 11 gennaio 2021)

 

 

 

Da un suv grande come un’astronave spunta un mocassino viola che esita a posarsi sul prato che circonda una cascina in ristrutturazione. Il suv e il mocassino appartengono a Guido, manager quarantenne; la cascina invece è di Pietro, suo amico d’infanzia ed ex squalo dell’alta finanza.

– Allora, quanto ci metti a scendere da quella nave da crociera?

– La fai facile tu, devo schivare il fango.

– Perché dovresti schifarlo?

– Non hai capito, lo devo schivare, devo evitarlo.

– Ma dov’è poi tutto ‘sto fango? Secondo me ce l’hai in testa.

– Adesso che scendo vengo lì e ti meno, come quando eravamo ragazzi.

– In tal caso…vincerò io, come all’epoca.

– Eccomi…vediamo.

I due uomini sono ora uno di fronte all’altro, tengono entrambi alta la guardia, come due pugili. La pantomima dura pochissimo, si mettono a ridere e, abbracciandosi, si danno delle forti pacche sulla schiena.

– Vieni dentro, forza. Ti faccio vedere il casale, – dice Pietro dando un pizzicotto, con tutte e due le mani, alle guance dell’amico.

– Che fai? Non sono mica un bimbo.

– No, ma sei un pacioccone…con queste guance…

– Da maiale?

– Non volevo dire questo.

– Me lo diceva sempre la mia ultima ex.

– Di chi si trattava stavolta?

– Di una che leggeva i risultati del campionato di calcio in una tv locale.

– E come mai è finita?

– Sempre per lo stesso motivo. Dopo un paio di trombate, aveva già lanciato l’opa.

– L’opa?

– Sì, significa offerta pubblica d’acquisto.

– Lo so bene cosa significa. Ma non lo capisco nel contesto.

– Voleva essere sposata.

– E tu?

– Non ne voglio di spose.

– A proposito di spose…

Nel salone in cui i due amici stanno chiacchierando fa il suo ingresso Roberta, la moglie di Pietro. Guido la osserva con attenzione: fino a un secondo fa, pensava che si sarebbe trovato di fronte a una donna di campagna sfatta e prostrata dal troppo lavoro nei campi. Invece Roberta è ancora avvenente, non ha perso l’abbagliante luminosità della sua giovinezza, quando faceva la corista per diversi cantanti di successo, alla fine degli anni Novanta.

– Tanti anni che non mi vedi e non mi dai neanche un bacio? -, cerca di fare il simpatico Guido.

La donna si avvicina al manager, ma gli porge solo la mano da stringere.

– Come mai tutta questa freddezza?

– No, scusa…è che sono un po’ febbricitante, non voglio attaccarti il virus.

– Capisco. Comunque, febbre a parte, ti vedo benone.

– Grazie. La vita in campagna mi mantiene in forma. C’è sempre molto da fare.

– Per esempio?

– Come puoi vedere dal casino in giro, stiamo ristrutturando questa vecchia e bellissima cascina…e ci occupiamo degli animali, oche, galline, conigli…

– Tanta roba.

– E a te come va la vita in città?

– Va benissimo. Faccio palate di soldi. Mi sono comprato un villone in Brianza.

– E sei felice?

– Che domanda mi fai? Te l’ho detto: sono pieno di grano.

– Il grano invece noi vogliamo imparare a mieterlo.

– In un certo senso, io lo faccio già.

Un’ora più tardi, i due amici stanno facendo una passeggiata in un boschetto distante non più di cento metri dalla cascina. Guido ansima un po’.

– Sei proprio un rottame -, sottolinea Pietro.

– In questo caso, non posso darti torto. In città non cammino mai. In più fumo come una ciminiera e faccio un sacco di aperitivi ammazzafegato.

– Lo vedi? Questi sono i risultati.

– Pazienza, mica mi succede tutti i giorni di camminare in un bosco…senti, rallentiamo il passo…altrimenti il fiatone non mi permette di parlare.

– Di cosa vuoi parlare?

– C’è una domanda che voglio farti da un sacco di tempo.

– Spara pure.

– Non te l’immagini?

– No.

– Allora…ma come cacchio t’è venuto in mente di mollare il lavoro e la città e di venire a vivere qui in Culonia da eremita?

– Prima di tutto, qui non siamo in culo ai lupi, il paese è solo a pochi chilometri da qui. Secondo: non sono un eremita, vivo con una moglie e una figlia. Sei più eremita tu che vivi in città ma da solo. Non pensi?

– Può darsi che tu abbia ragione, ma…le tue donne condividono la tua scelta di vita?

– Certo che la condividono. Vivono qui con me.

– Non in quel senso, lo so che vivono con te…ti sto chiedendo se sono felici di vivere da campagnole.

– Quando torniamo a casa, lo chiediamo direttamente a loro.

– Sei sicuro di volerlo fare?

– In effetti, no.

 

Di nuovo nel perimetro della cascina, Pietro afferra Guido per un gomito.

– Dove mi porti?

– Seguimi. Dietro il casale c’è qualcosa che non ti aspetti. Qualcosa che ti farà capire che non ti trovi in una giungla inesplorata.

– Ovvero?

– Ancora un attimo…di qui…ecco!

– Una piscina. E allora? Vuoi girare un videoclip degli Wham?

– Sì. Ascolta come sono intonato: Club Tropicana drinks are free…

– Meno male che non hai fatto il cantante.

– Meno male che non ho fatto tante cose.

– Comunque…la piscina…

– La piscina?

– Dovrebbe farmi capire che sapete anche godervi la vita?

– Esatto. Soprattutto mia figlia. Tra poco, puntuale come un orologio svizzero, la vedrai tuffarsi. Andiamo a sederci su quelle sdraio all’ombra.

In effetti, qualche minuto dopo, Martina, la figlia di Pietro, fa la sua apparizione. Indossa un bikini striminzito e a Guido sembra ancora più bella di Roberta da giovane.

– Eccola qui. Ciao Martina!

Ma la ragazza ignora bellamente il saluto del padre.

– Forse non mi ha sentito…

– Dici? Eppure il saluto l’hai urlato.

Dal trampolino, Martina si protende per il tuffo. A Guido – reminiscenza liceale – viene in mente il verso di una poesia di Montale:

Ti guardiamo noi, della razza di chi rimane a terra…

– A cosa stai pensando? -, gli chiede Pietro. – Ti vedo particolarmente assorto.

– Ti ricordi di quando facevamo il liceo?

– Certo. Ma di cosa dovrei ricordarmi in particolare?

– Del 1994?

– Perché proprio del ’94?

– Perché è stato un anno particolare.

– L’anno delle elezioni. Quando abbiamo votato per la prima volta.

– Sì, ma soprattutto l’anno in cui tutti noi diciottenni abbiamo cominciato a pensare al futuro schierandoci da una parte o dall’altra.

– E noi eravamo berlusconiani…

– Ferventi berlusconiani, col mito dell’uomo che si fa da sé.

– I nostri amici di sinistra volevano tutti iscriversi a Filosofia, dopo il liceo e invece noi…

– Invece noi ci siamo iscritti a Economia, con l’idea di fare un sacco di soldi, di fare carriera.

– Sì. E ce l’abbiamo fatta, abbiamo fatto centro.

– Cosa vuoi dire? Che ho tradito i miei ideali venendo a vivere qui?

– No, non mi riferisco a te. Solo che adesso ho qualche dubbio riguardo…secondo te, in definitiva, si potevano chiamare veramente ideali i nostri?

– Non credo. Per questo ho cambiato strada. Per questo seguo gli ideali della decrescita felice.

– Forse hai ragione tu. Tu hai tutto e io…

– Solo tanti soldi. Però adesso non diventare malinconico, si può sempre dare una svolta alla propria vita. E poi, se diventi triste, ti si chiude lo stomaco. Ti aspetta una cena…alternativa, ma sfiziosa.

 

A cena Guido mangia di gusto. Al contrario, la famigliola che lo sta ospitando non è per nulla famelica. Giocano col cibo che hanno nel piatto, assaggiano del tofu e delle verdure bollite, si guardano intorno. Stanno in silenzio. Fino a quando Martina fa una domanda – che sembrerebbe del tutto innocente – al padre:

– Papi, stasera non la mangiamo un po’ di carne?

– Finiscila.

– Che ho detto di male?

– Lo sai che non mangiamo carne.

– Lo so che non mangiamo un cazzo di niente.

– Vergognati! Stai dando spettacolo.

– Ma come parli? Sembra di stare in una commedia teatrale dell’Ottocento…

– E tu che ne sai del teatro? Stai sempre con gli occhi fissi sul telefonino come fossi una zombie.

– Tu invece sei molto vivo mentre sgranocchi cavolfiori.

– I cavolfiori non si sgranocchiano.

– Che vuoi farci, non parlo bene l’italiano. D’altronde il mio prof di Lettere sei tu…il che è tutto dire…

Interviene Roberta; non per sedare la rissa verbale, ma per fornire delucidazioni a Guido:

– Devi sapere che io e Pietro siamo i prof di Martina. L’anno prossimo farà l’esame di maturità da privatista.

– Praticamente mi hanno mandata in esilio -, puntualizza Martina.

Guido non interviene, spera che il conflitto imploda. Invece Martina incalza:

– Mio papà non ci fa mangiare più niente che viene dagli animali. Non ci fa fare shopping, non ci fa usare la macchina…ha una grande sensibilità ambientale…mio papà è un santo e vuole che tutti siano dei santi!

– Io non sono un santo e nemmeno voglio esserlo. Solo che non voglio che la mia famiglia contribuisca al disfacimento di questo pianeta. Bisogna produrre meno, consumare meno, inquinare meno. Questo è il senso di…

– Di quanto sei stronzo.

– Cara la mia Martina, pensi di essere una gran donna emancipata a parlare così a tuo padre…e invece stai vivendo una banalissima fase di ribellione adolescenziale alla figura paterna -, commenta, serafico, Guido.

– Incazzati almeno una volta, papà! Fai vedere che hai i coglioni, fai una scenata, prendimi a schiaffi!

– Ti piacerebbe farmi fare la figura dell’orco…per me, ti puoi attaccare al tram.

– Non sei neanche più un uomo, sei un’ameba. Io me ne vado in camera mia. E quando avrò finito il liceo…

– Per finire il liceo devi passare almeno qualche ora sui libri. Perché non cominci stasera invece di fare il cinema?

– Ma vattene affanculo tu e il cinema!

– Sogni d’oro, principessa!

Ora che la ragazza se n’è andata, Guido si rivolge alla moglie:

– Potevi dire mezza parola per sostenermi, no?

Roberta si versa del vino bianco in un bicchiere. Poi, con una calma infinita, come se la cosa non la riguardasse, risponde:

– In effetti stasera era un po’ nervosetta la ragazza. Si vede che avrà le sue cose.

 

Due ore dopo, in camera da letto, moglie e marito sono distesi al buio. Roberta vorrebbe semplicemente assopirsi e dormire, ma Pietro le dà il tormento:

– Proprio non ci riesci…

– A fare cosa?

– A stare dalla mia parte.

– Io che c’entro? Sei tu che ti fai trascinare sul ring da una ragazzina.

– Io non mi faccio trascinare su nessun ring.

– Allora mettiamola così…

– Così come?

– Mettiamo che la colpa sia tua, ma non solamente tua. Hai un complice.

– Che vuoi dire?

– Voglio dire che non dovevi invitare il tuo amico.

– Perché non avrei dovuto invitarlo?

– Con la sua presenza, Martina si ricorda della vita che aveva prima di venire qui. Ma poi…io non te l’ho chiesto: perché hai invitato Guido qui? Volevi dimostrargli qualcosa? Volevi che diventasse un tuo discepolo? Volevi convertirlo alla causa?

– E tu?

– Io cosa?

– Lui ti fa ricordare della vita che avevi prima?

– No. Mi fa ricordare degli uomini che frequentavo prima di mettermi con te.

– E che uomini erano?

– Uomini innamorati del proprio ego. Uomini che erano ancora troppo figli per pensare di diventare, un giorno, padri.

– E io che uomo sarei?

– Uno troppo padre per capire i figli.

– I figli…ne abbiamo una sola di figlia.

– Per te siamo tutti figli.

 

Mentre Roberta e Pietro continuano con la loro autocoscienza senza sbocchi, Guido sta passeggiando intorno alla cascina. Conta le stelle, fuma una sigaretta. Si sente attratto da Martina.

 

Forse è vero che, quando gli Dei vogliono punirci, esaudiscono i nostri desideri: quando Guido apre la porta della stanza degli ospiti, vede Martina languidamente sdraiata su un fianco, a letto.

– Ti stavo aspettando -, dice la ragazza con una voce non sua, una voce da vamp. Il volto di Martina è trasfigurato. Se prima sembrava un’amazzone infuriata, ora assomiglia a una seducente sirena.

– Vieni a letto, Guido.

– Devi essere impazzita, vai subito in camera tua.

– Perché? Non ti piaccio? Forse sei gay?

– Non sono gay, ma tu sei una ragazzina e siamo sotto il tetto dei tuoi genitori.

– Quindi?

– Quindi devi andare a dormire in camera tua.

– Non vuoi dormire con me?

Guido fa uno sforzo terribile nel rispondere con un perentorio: – Voglio dormire da solo. Fai la brava, forza.

– Uffa, devo sempre fare la brava. Le cattive ragazze vanno dappertutto, così c’è scritto sulle magliette. Ecco perché io sono sempre piantata qui.

La ragazza, sbuffando, si alza dal letto. Si avvicina a Guido, gli mordicchia il lobo dell’orecchio destro. Poi esce dalla stanza, lasciandola impregnata del suo profumo.

 

All’alba Guido è già in piedi. Sta ficcando i suoi abiti alla rinfusa nel trolley da mille euro, lui che di solito prepara le valigie con lo zelo di un militare. Esce dalla stanza degli ospiti, fa le scale col passo felpato di un gatto per non svegliare nessuno. Ora è fuori, il suv – astronave lo sta spettando, fedele destriero che lo porterà lontano da quella casa accogliente come una pianta carnivora a digiuno da settimane. Entra nella vettura ma, prima di mettere in moto, sente un fragoroso

– CIAO! Ti stavo aspettando.

È Martina, la sua faccia ora spunta fra i sedili anteriori.

– Ma che ci fai qui? Come sei salita…

– Ieri sera, dopo essere uscita dalla tua stanza, ho fatto un giro qui fuori per calmare i bollenti spiriti…poi sarei dovuta rientrare a casa, ma ormai questo posto non lo reggo più…così ho provato a vedere se la macchina fosse aperta…lo era, quindi ho passato la notte qui…

– E adesso che facciamo?

– Adesso…no! Mia madre…

Roberta entra in macchina, si siede davanti, enigmatica come al solito, senza dire una parola. Martina fa per giustificarsi:

– Mamma, ascolta, io ti avrei…

Ma la madre la zittisce subito: – Non devi dirmi niente, va bene, va bene così.

Poi si rivolge a Guido: – E tu che fai lì impalato? Cosa aspetti a mettere in moto?

– La destinazione?

Roberta guarda per un attimo nello specchietto retrovisore, poi dice:

– Il più possibile lontano da qui.