Racconto di Alberto Carli

(Quinta pubblicazione – 15 luglio 2019)

 

Nelle pessime giornate crude, dure come pietre, rotolavo come gli aranci che, impazzito, facevo scivolare lungo via, come se la strada fosse stata un largo campo di bocce. Le arance amare si depositavano nelle canalette a decine. Ogni giorno le raccoglievo per terra e le lanciavo: il lancio del folle.

Ho conosciuto buone persone anche in quel tempo sballato, balordo, depresso e ignobile. Ho conosciuto uomini e donne senza valore e virtù, esseri animati senza anima, privi di musica dentro o, se ce l’avevano era rumore assordante.

“La barbarie a visàge humane” mi ha sfondato e colpito con la violenza che è solita, gettandomi all’angolo, in un angolo dal quale, se provavo ad uscire, con l’angoscia dentro, mi ci ricacciavano.

Un giorno d’Agosto, dopo essere stato gettato dietro le sbarre tra camici bianchi inutili e volgari nella scienza confusa dal denaro e dal vuoto dello spirito, ho deciso, senza scienza e coscienza, dii andare via. E ci vuole coraggio e irresponsabilità per andarsene: un responsabile disamore.

Il caso ha aperto la porta di casa e non era un Angelo, non il mio Angelo. Una corsa, un’infermiera che pareva partorisse nello sforzo di ridarmi la vita che mi era stata concessa, per errore, molti anni prima. Sudava e sperava, sperava e sudava Sara.

Ho vegetato, nel poi indefinito, senza futuro, per sei mesi, tra insulti, offese e tutte le incomprensioni di chi è sangue del mio sangue. Tutto il sistema corpo era saltato per aria, non c’era più nulla. Nessun organo vitale rispondeva e corrispondeva ad istanze vitali. Era tutto in blocco, in cortocircuito. Niente sonno, niente di niente, niente più. Poca acqua, poco pane, poco di tutto e poco di niente: niente di tutto.

Un giorno di gennaio, un freddo giorno, eccolo il mio Angelo, Giuseppe detto “Pepin”. L’ombra di un piccolo vestito parroco di paese che chiamava i “miei parrocchiani” i detenuti della prigione della mia città.

Mi sono vestito, come è normale che sia. Mi sono lavato prima, sotto quel getto maledetto getto della doccia che allagava quell’angusto bagnetto e ho detto: chi se ne frega.

Ho rivisto la gente e la gente ha rivisto la mia faccia.

È stato un nuovo inizio, sempre faticoso, pericoloso, ma nell Io adesso un uomo muoveva i piedi e il culo nel tentativo di ri-vivere.

E sono qui, ci sono malgrado tutto e tanti, forse troppi. Ci sono, c’è Antonia: Donna! E domani c’è sempre qualcosa da fare, per lei, per me, per noi.