Racconto di Silvia Marcarini

(Terza pubblicazione)

 

Il torrido vento del progresso accartocciò le nostre esistenze, come foglie secche appese al sottile ramo della speranza.

Vite bruciate, in pochi minuti, da un’indelebile frase: Vendiamo il passato. “Al giorno d’oggi, a chi interessa il passato?” pronunciata con rammarico, nella sala riunioni della nota Società per la quale stava lavorando, dal nostro Direttore del settore Marketing, un uomo di mezz’età con calvizie di vecchia data.

Il preludio di una discesa senza precedenti che avrebbe lacerato gli animi di carne di una platea di pochi eletti, dopo aver visionato l’amaro report sul volume delle vendite dell’ultimo trimestre.

I nostri prodotti, considerati oramai “anacronistici”: carta da lettere, agende, calendari, biglietti d’auguri erano stati soppiantanti da byte di messaggi impersonali che parevano, essere il prodotto d’incalliti automi.

Testimone dell’arringa finale del Direttore, carica di dilemmi esistenziali rivolti a un misero pubblico, guardavo avvilita la tazza di caffè nero bollente appoggiata sul tavolo ovale; lì dentro immaginavo di affogare alcune preoccupanti verità “smagliature emergenti” di una vita sgualcita dai debiti.

All’indomani senza più lavoro, qualcuno avrebbe riscosso una sostanziosa manciata di soldi destinati all’affitto di casa. Pertanto, rimuginai ancora un po’, su ciò che detestavo o temevo: “Maledetto denaro che trasformi l’uomo in tutto o in niente. Ora, come farò a tirare avanti?”.

Nel tardo pomeriggio, la riunione giunse al termine e guardando tante sedie vuote, già respiravo la deludente autenticità di quelle parole e intanto un pensiero comune lacerava il nostro precario spirito: chi avrebbe sfamato le nostre bocche?

Salutai i miei compagni di sventura, qualche collega che rimaneva fino a tardi in ufficio a inscatolare vecchi ricordi e alcuni raccoglitori ingialliti. Andai al parcheggio scoperto situato in una via adiacente alla Ditta, per cercare il mio prezioso catorcio a quattro ruote.

Avvolta da una gonna a tubino nera, con gli occhi gonfi di lacrime, mi dondolavo tra le fila delle auto in sosta su dei tacchi vertiginosi di un paio di scarpe non ben collaudato. Il buio invernale copriva ogni cosa e la rara illuminazione non presagiva ostacoli imminenti e così, per scongiurare l’inevitabile, feci un passo azzardato da sembrare una ballerina di danza classica, ma il mio “arabesque” fallì e così precipitai nel vuoto, volando per otto metri fino a raggiungere il suolo di un parcheggio seminterrato. Qualcuno si era dimenticato di mettere la grata metallica di protezione durante il rifacimento della pavimentazione stradale.

Sulla superficie rossa sfuocata, il dolore fisico si unì alla disperazione interiore, come un’impronta cristallina nella neve e la coscienza si prese inaspettatamente una piccola pausa, trascinandomi in un’altra realtà che sembrava abbozzata dalla mano rovente di un fumettista noir.

Mi ritrovai all’improvviso su una strada glaciale e cupa di una città che non mi apparteneva: dall’oscurità di anonimi edifici, fuoriusciva una folla umana di randagi che a poco, a poco avrebbe rianimato il nuovo giorno.

Seguì la scia di passanti diretti alla stazione della metropolitana, più per istinto che per curiosità e pertanto m’incamminai sulla passerella di gradini invasa da una pioggia screziata di mozziconi di sigaretta.

Una fuga di pareti bianche imbrattate d’incomprensibili graffiti di un secolo ancora sfuggente accompagnava i passeggeri al richiamo di un tortuoso sottosuolo.

Al bancone adibito per l’imbarco, una gentile signorina con un forte accento straniero e dal sorriso loquace, mi accolse con uno scanner per la lettura dell’iride che acconsentì al pagamento del biglietto per l’accesso all’ascensore destinato alle partenze del livello meno tre.

Laggiù, nel lungo tunnel fumoso e argenteo, si trovava una lunga vettura a più scomparti che pareva provenire da un girone dantesco senza fine.

Scelsi un opaco e sconosciuto vagone, al suo interno guardai con diffidenza, gli occupanti intercalati in un silenzio quasi “embrionale”: sembravano corpi vuoti; ognuno era interconnesso con un piccolo oggetto sottile vetrificato dalla forma rettangolare, portato al collo con una catenella, apparentemente innocuo ma potente che trasmetteva dati, proiettava ologrammi collegandosi agli emisferi cerebrali del cervello.

Mai visto qualcosa di simile: questi individui non sentivano freddo, fame o stanchezza, poiché la loro mente si trovava altrove. Constatai con astio che erano semplicemente dei disertori del genere umano inghiottiti dalle paludi virtuali di queste macchine.

La metro iniziò la corsa e nessuno si accorse della mia presenza.

Non ero l’unica “sveglia” in questo letargo di uomini. In fondo al vagone, un ragazzo dall’impermeabile logoro e sporco, mi osservava con l’istinto del predatore.

Avevo paura perché si stava avvicinando ed io ero sola con tanti dubbi e domande, ma il problema era a chi rivolgerle, qualcuno avrebbe capito?

Con complicità disse: “Guardali come sono docili; vittime di un contagio collettivo senza precedenti. Alla fine, chi ha potuto, si è sottomesso a quest’innovativa e illusoria tecnologia per assaporare l’illimitato benessere di un mondo artificiale. In tale baratro, hanno dimenticato ciò che in realtà sono e ora li hanno in pugno. Conoscono tutto di loro e già decidono per loro. Invece, nei sobborghi abbandonati delle periferie stanno nascendo nell’isolamento e nell’indifferenza, i nuovi poveri spaventati da questa insolita “stirpe” di persone. Poi c’è chi, affoga le proprie sconfitte o miserie nel piacere sintetico venduto a caro prezzo da qualche “stregone” di strada, sotto un cielo di rabbia e polvere”.

“Dobbiamo fare qualcosa. Ti sembra normale tutto questo?” risposi con indignazione.

“Non possiamo farci niente, però abbiamo la capacità di lottare per le nostre libere scelte e di valutare le conseguenze. Adesso, è tempo di andare” affermò il ragazzo.

Un profondo sconforto sorprese il mio cuore, pensando all’umanità ribelle che aveva sotterrato per secoli, padri, madri e figli solo per ottenere un pezzo di pane o per ideali, a volte anche sbagliati.

Ci fu un boato improvviso, la nostra vettura si scagliò contro un’altra proveniente dal senso opposto di marcia; deragliammo con urla di terrore e vetri in frantumi verso un’unica destinazione. Tutti si staccarono dall’ingegnoso marchingegno, increduli di ciò che stava avvenendo e in pochi attimi vidi degli uomini vivere nella morte.