Racconto di Francesca Erriu Di Tucci

(Prima pubblicazione)

 

 

Mi chiamano Penelope. Ma non perché tesso la tela, no, non per questo. Non aspetto nessun Ulisse, se è questo che vi state chiedendo. Anche se non so, ogni tanto guardo il mare come se un Ulisse dovesse arrivare. Ma so che non accadrà, perché ciò che dovevo perdere l’ho già perso tempo fa.

Mi chiamano Penelope per un altro motivo. Per il suo antico mito, lo conoscete? Risale alla sua infanzia: quando nacque fu gettata in mare per ordine del padre e fu salvata da alcune anatre che, tenendola a galla, la portarono verso la spiaggia più vicina. Dopo questo fatto, i genitori la ripresero con loro e le diedero il nome di Penelope, che appunto significa anatra. È una dea protettrice. Senza dubbio, lo posso dire, sono stata protetta. Sono stata salvata in mare tra centinaia di persone che naufragavano con me. Qualcuno mi ha afferrata e mi sono ritrovata a riva, salva. Dovrei esserne felice, penserete voi. Ma non è così. Il mio bambino non ce l’ha fatta. E lo vedo sempre nei miei sogni: galleggia, ma è vivo.

Chi mi ha salvata era certamente un angelo, un eroe, ma non l’ho più rivisto. Sono svenuta sulla riva, poi mi hanno portata via. Riconoscerei le sue braccia forti. Riconoscerei forse gli occhi, che ho visto solo per un attimo. Oggi ho avuto di nuovo quella sensazione, di rivedere i suoi occhi. Nel ragazzo dell’autolavaggio, assorto nel suo lavoro, che per un istante ha alzato lo sguardo. Poteva essere mio figlio. Gli ho sorriso, anche se dentro di me mi veniva da piangere. E poi mi sono abbandonata sotto il lavaggio. Quell’acqua mi cullava e rilassava, e mi ricordava il mare. Che quel giorno era calmo, non faceva paura.

***

Mi sorprendo a osservare l’acqua che lava e spruzza, le spazzole che si agitano, le automobili lì sotto, in movimento precario. Quasi incantato, oscillo leggermente, come trascinato dalla corrente. Ogni giorno mi torna in mente quel mare.

“Come Nemecsek!” aveva esclamato il più piccolo, dopo aver sentito la storia. Avevano parlato dei Ragazzi della via Pàl a scuola, e gli era rimasta impressa la fine del piccolo protagonista. No, non sono un eroe solo perché ho rischiato di annegare. Non in una vasca di pesci, chiaro. Qualcosa di più grande. Ma non si diventa eroi solo perché si cerca di salvare.

Il giorno dopo scrissero: il mare uccide ancora. No, un momento, non è il mare che uccide ma soltanto le persone. Le persone che guardano senza far niente, soprattutto. Ecco, io non ci riesco. Ero lì e rischiavo di morire, ma non potevo stare a guardare. Così mi son buttato e ho fatto quello che potevo. Non c’era molto tempo, era quasi buio. Arrivavano le luci da una barca più grande che si avvicinava. Mi ricordo di aver trascinato una donna e un bambino, piccolissimo. Probabilmente non ce l’hanno fatta. Poi me ne sono andato. Non potevo rischiare.

A volte ci ripenso, a quella donna col bambino. Poteva essere mia madre, forse. Con i capelli lunghi, gli occhi persi. Ogni tanto mi sembra di rivederla, le vorrei dire: non sono un eroe. Mi è capitato anche oggi, all’autolavaggio: una donna mi ha guardato, poi ha sorriso ed è sparita con l’auto sotto l’acqua e le spazzole. Dolce acqua che unisce, dolce acqua che divide.

***

Spesso sogno un’onda gigante che invade la riva, travolge tutto e tutti, anche me e il mio bambino. Siamo ancora in Siria. Nessuno fugge, stiamo fermi, di fronte allo spettacolo. E poi ci siamo ritrovati qui… a divorare il mare, a sentire il sale. Non più respirare. Ma so che mi resta ancora tempo per amare. Mi sento un pesce fuor d’acqua.

Alexa, dammi il mare.

Che mi riserva il mare
Le onde, il sale?
Che mi riserva il sole
I raggi, l’odore?
Che mi riserva il cuore
Se non aspettare.

-°-

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