Racconto di Carlo Giarletta

(seconda pubblicazione – 9 ottobre 2020)

 

 

 

Come la neve finta in un contenitore di plastica trasparente, mi si espande nella mente la figura di S. C., una ragazza della città di M. che lavorava nella stessa stanza con me. Magra, un fuscello dai capelli corti a caschetto, neri. Gli occhi pure, color stami di papavero. Un comune collega d’ufficio, non so se maligno o stupido, o con entrambe le doti, diceva che quella giovane sembrava un maschio. Sì, è vero, S. aveva corpo tutt’altro che formoso, curve poco… accentuate, seno piccoletto. Però il target della carineria del viso era buono e la voce, un po’ roca, poteva anche stimolare la voglia di un uomo. Tra me e la ventisettenne dagli occhi neri montò la panna dell’attrazione reciproca. Una mattina mi canticchiò “Come saprei amarti io”. Entrammo nel ruolo degli amanti. Gli incontri clandestini li facevamo nella casa ammobiliata e, per logica, disabitata, di proprietà dei suoi genitori. Concordata la fase di stesura del piano che li precedeva, schiacciato lo start, i miei passi solitari scorrevano sui marciapiedi di certe strade di M., in attesa di raggiungere la meta a tempo debito. Di seguito veniva raggiunto l’obbiettivo. La magrolina mi apriva le porte d’ingresso e del desiderio. Ma non scendemmo mai a toccare il fondo dove si sprigionava l’estasi copulatoria. L’occupazione della vagina da parte del pene non venne mai effettuata, l’intenzione di scopare si fermava allo stadio neonatale. Ci appropriavamo dei contatti delle labbra sulle labbra, sulle lingue, sui visi, sulle parti scoperte del corpo ed io subivo il blocco dell’inibizione. Non mi liberavo dei vestiti. L’abbigliamento suo le restava addosso. La mia amante portava quasi sempre i pantaloni. Credo che lo facesse perché sapeva di non avere belle estremità. Ricordo che una sera, vicino al divano del soggiorno, stese una gamba davanti alle mie ad accenno di sgambetto. Provocazione evidente per ottenere sesso. Anche quella volta tutto cadde nel vuoto causato dalla mancanza di decisione: di leccate dell’orifizio anteriore, di penetrazione dentro di questo, e dentro il corrispondente posteriore meno che mai, non ci fu nemmeno l’ombra. Un pomeriggio ci incontrammo in un pub. Io provenivo da A.P., S. dalla sua città. Il posto lo avevamo raggiunto con le nostre rispettive auto. Dopo aver spento i motori, il tavolo del ritrovo scelto fu testimone di baci, mani nelle mani, emozioni e vene pulsanti. La sabbia di una delle spiagge del luogo, San B. del T., ci riempì tasche, calze, pieghe, angoli, interstizi degli indumenti intimi e meno intimi e dei corpi. Parlammo, ridemmo, giocammo, rotolammo, la presi in groppa, caddi con lei e su di lei, la mia bocca a cercare la sua, il suo sì, seguito subito da un no impastato di timidezza, ritrosia e contrasti interiori. Verso l’ora del tramonto lanciò il messaggio, io non voglio una storia, voglio essere soddisfatta. Ed io lasciai intatto uno schema che invece, con molta probabilità, chiedeva di essere frantumato! Altri brevi momenti trascorsi in coppia ci videro impegnati solo in preliminari amorosi. Questi nel giro di dieci minuti lasciavano spazio ad un crescente affanno del fuscello dai capelli a caschetto, agitato e scalciante per negarsi. Io, al solito, mi cementavo. Tuttavia fu bello! Fu bello lo stesso! Oggi, a distanza di quasi quattro lustri, l’icona della relazione con S., durata cinque o sei mesi, è lì, sullo screen della mia anima. Piccola gemma nel diadema delle rimembranze, storico file mantenuto in una delle cartelle del passato. E spero nel tempo futuro portatore di nuovi lucori, tanto forti da bucare la coltre dell’oblio in estensione lenta ma progressiva. Ai prossimi scuotimenti di un contenitore di plastica trasparente, il sottoscritto si ri-emozionerà. Se i pulviscoli bianchi, in movimento dentro lo spazio di quell’oggetto, mi riporteranno dalla giovane donna di M. Una ragazza che, lo stupido maligno roteante nell’ambiente di lavoro aveva torto, non assomigliava ad un maschio.