Racconto di Alessandro Sirio
(Prima pubblicazione)
Varco la soglia, faccio due passi verso il bancone e vedo Edith per la prima volta. Non mi scuote nessuna sensazione particolare, la noto ma senza notarla. Però ho di lei una prima impressione superficiale: è giovane, bellissima, all’apparenza allegra ma con un lato dark. Se non fossi fuorigioco, direi già che non è il mio tipo: troppo giovane, troppo bella, probabilmente troppo pericolosa. La osservo sorridere a un cliente, ha labbra carnose tinte di rosso ciliegia intenso. Il suo sguardo egizio è come una lama che taglia la sala del Pub a trecentosessanta gradi e mi domando quanto sarà affilata. Alcuni uomini ne sono subito affascinati, io invece resto stupito poiché esita un lunghissimo attimo sui miei occhi.
Vibra il telefono, a fianco al sottobicchiere che regge la prima pinta di Kilkenny, rispondo: “Ciao amore, sono arrivato in serata qui a Bologna, dovrei fermarmi al massimo tre giorni, no, non sono a casa di Mario… bevo una cosa al nostro vecchio Pub e poi salgo. Si, a letto presto, domani ho una giornata di fuoco… i ragazzi sono quasi a nanna? Hanno finito i compiti? Bene, ci sentiamo domattina. Baci”. Appoggio l’apparecchio inconsapevolmente a schermo in giù, come a nasconderlo dai miei ultimi pensieri, poi sento una mano leggera sull’avambraccio e una voce con un lieve accento dell’est: “Ciao, piacere, sono Edith, la tua ostessa. Se ti occorre qualcosa fai un fischio…”. Sono fuori allenamento, impreparato, evito di strozzarmi con una nocciolina e bofonchio: “Giovanni, ciao, molto piacere…”. Non ho il tempo di elaborare una battuta che già si sta allontanando, conscia che una mia occhiata segue le linee della sua schiena, le braccia nude, il laccio del grembiule che oscilla sul fondoschiena, delicatamente fasciato da un paio di jeans neri. Fa un passo sul retro e dopo qualche minuto riappare, dritta verso di me: “Aspetti qualcuno per un tavolo o resti al bancone?” Rispondo d’istinto: “Sto bene qui, grazie, sono solo stasera”. E lei fissandomi: “Ok, benone, faccio il giro della sala e poi ti spillo la prossima. Bionda o rossa?”. I suoi capelli lisci luccicano di un nero intenso come il mare notturno sotto la luna piena e sono in armonia cromatica con un voluto eccesso di eyeliner. Vorrei dirle mora corvina ma mi limito a un robotico:” Rossa. Doppio malto. Grazie”. Scorre la serata, ci guardiamo spesso, la sua è una sbirciata gentile, calda e accogliente, anche insistente, che non riesco a capire. Penso che avrà la metà dei miei anni. Che avrà cento ragazzi che le stanno dietro. Ma anche, un bicchiere dopo l’altro, inizio a fantasticare che stia accadendo qualcosa. Mi sento lusingato. Verso mezzanotte pago il conto alla cassa e mi avvio all’uscita. Sulla porta mi volto, la cerco, mi guarda, alzo la mano in segno di saluto, leggo le sue labbra nel caotico rumore del locale: “A domani”. Forse mi ha letto nel pensiero e a me sembra già l’unica cosa possibile, rivederla al più presto.
Dopo un giorno di lavoro disturbato dal pensiero invadente di una misteriosa favolosa sconosciuta, la sera torno al pub, incuriosito o già ipnotizzato. Il copione è circa lo stesso: scambio di sguardi, qualche battuta arriva, uno scontro delicato tra le ginocchia e verso l’una, quando sono già sciolto dalla quarta o quinta media, lei pare sempre a suo agio, sicura, con un elevato tono di confidenza dice: “Ti va di aspettare che stacchi? Così mi accompagni a fare colazione e facciamo due parole”. Una voce nella mia testa dice meglio di no, ma dalla bocca esce un: “Certamente!”. Nell’attesa rallento il ritmo dei miei sorsi e fingo di leggere un paio di capitoli di un libro senza afferrare una parola. Verso le quattro ci incamminiamo giù per Via Zamboni, inizio io lo scambio di generalità, con una bugia bianca: separato, due figli, rappresentante. Poi l’ascolto: “Lavoro al Pub, ma da pochi mesi… sono studentessa, molto fuori sede. Faccio anche la modella e la mistress per alcuni miei fan, oh, ma solo online ovviamente!” ghigna. Mi porge il suo smartphone, aperto sulla su una galleria di foto, sono artistiche stile Newton forse e mi scioccano dolcemente: in posa è meno sorridente, lo sguardo spesso severo, molto vestita con tutine nere attillate e mi pare di scorgere anche un collare con le borchie. Ritrae la mano, lo schermo si oscura e poi spara: “Domani ho uno spazio per una sessione, vuoi provare? …magari ti farebbe bene”. Solo per un breve attimo sono preso dal dubbio di essere semplicemente vittima di un adescamento. “Ma scherzo! Quello non lo faccio certo con chi conosco. E noi ci stiamo ormai conoscendo, no?” Vorrei dire di no, ma propendo per il sì. Ci fermiamo così in un bar notturno, per entrambi cappuccio decaffeinato e cornetto. Così succede. Succede che parliamo, parliamo a ritmo di tango, come due affluenti di un unico fiume di parole, per oltre un’ora: delle nostre vite, delle famiglie infelici, dei nostri fratelli emigrati, dell’amare il vento, del cercare e riconoscere la bellezza nelle cose, dello stupore di entrambi per non avere nulla in comune, eppure avere anche tanto in comune. Usciamo, albeggia, facciamo ancora quattro passi e giunti ad un portone scalcinato vedo Edith per la seconda volta: è un amore di tenerezza. “Io sto qua, allora buonanotte o buongiorno?” si avvicina, mi bacia sulla guancia esitando una frazione di secondo sulla mia barba ingrigita. Si chiude il portone alle spalle lentamente e in ogni gesto sembra sempre che sappia l’effetto che fa. Rimasto solo sussurro: “A domani”. Mi volto dondolando, una saetta mi trafigge il cervello: penso a mia moglie, è a casa, sola nel lettone. In una battuta di vent’anni fa ci eravamo detti che non eravamo fatti per la monogamia, poi non se n’è mai più parlato.
Passo una giornata inquieto, non riesco a lavorare, il conto del tempo inizia a pesare. Penso a Edith poi penso a mia moglie, so di amarla ancora. Come lo so? Mi piace ancora guardarla dormire. La chiamo per tranquillizzarmi, vorrei dirle di venire a prendermi: “Niente di particolare, certo. Mario è gentilissimo, si… ti saluta anche lui, verrà a trovarci presto a Milano… ciao, saluta i ragazzi”. Che bella recita. Giunge così la terza sera al pub, prima ceno con Mario ma senza confessargli nulla, dico che devo vedere dei clienti in un locale e devo escogitare una bella scusa per mollarlo a casa. Esco intorno alle dieci, attraverso Piazza Maggiore, saluto Nettuno chiedendogli di vegliare sulle mie scelte. Appena entro mi adocchia il barman e mi saluta accogliente, forse è meglio informato di me sul mio destino. Non capisco bene in cosa mi stia cacciando, ma è come se mi avesse riportato lì un’onda di marea e fosse impossibile per me fermarla. Saluto Edith, confidenziale: “Magari riesci a liberarti un’ora pima?” – “Vediamo…” fa lei. Penso: se dovessimo stare insieme tutta la notte, domani che mondo sarebbe? Non lo stesso in cui sono oggi. Il panico sale dalla gola e incendia le tempie, tracanno alla svelta la prima birra ed opto per la miglior difesa: la fuga. Mi allontano senza voltarmi, lascio una banconota sul bancone come nel far-west ed esco, determinato a fuggire, scappare lontano dal desiderio di restare. Mi nascondo in un cinema ma non capisco nulla del film. Giro un paio di bar ordinando gin-tonic. Dovrei rincasare o andare all’aeroporto, invece vago tra i portici smarrendo inconsciamente la strada per casa di Mario. Quasi all’alba mi ritrovo allo stesso portone scalcinato. Non mi trattengo e le scrivo un messaggio: “Sono nei paraggi, ho fatto naufragio, tu sei un’isola o hai una zattera da prestarmi?”. Faccina sorridente. Penso sia ora di girare i tacchi, intanto lo leggerà quando si sveglia e forse penserà che sia un idiota. Invece, quasi immediatamente, leggo la sua risposta: “Ti vedo, sali, al quarto”. Il portone ronza e si apre. Niente ascensore, arrivo su col fiatone e un batticuore che miscela fatica ed emozioni. Lei è in short e maglietta, struccata è ancora più giovane e bella. Mi accoglie dicendo: “Sei scappato, ma ho immaginato che tornavi. E sei tornato” – “Ci starebbe di nuovo un buon cappuccio ma qualche ora sarà meglio che la si dorma, che dici?”. Mi prende la mano e mi guida dentro una stanza buia: “Il letto è da una piazza e mezza, ci stringiamo, però ti dispiace dormire vestito?”. Un messaggio non subliminale che rivela un lato di timidezza. Ci corichiamo, ci accoccoliamo con naturalezza a cucchiaio, gira la testa e mi permette di baciarla fugacemente, poi dice adagio:” Dai, che domani è un altro mondo”. Stordito dal flusso di agio nel disagio mi addormento ascoltando il suo respiro.
Dormo poco più di tre ore e al risveglio devo mettere a fuoco per capire dove sono. Non sono a casa, non sono nel mio letto coniugale, a fianco a me non c’è mia moglie. Sono chissà dove, sono finito in un chissà quando, nel presente e in un passato lontano, quando la realtà sembrava mischiarsi con i sogni. Passati i quaranta ho di nuovo vent’anni. Scottato da un colpo di fulmine, inesorabile, com’era già successo, mezzo innamorato di questa ragazza che fa l’ostessa e alte cose di secondo lavoro. Dopo aver vissuto un lunghissimo tempo di “amore è potersi dire oggi respira tu” mi trovo risucchiato in un vortice di “amore è solo ascoltare il tuo respiro”. E così ascolto, e lo sento leggermente cambiare, il suo collo si allunga, avverto un sospiro, si volta verso di me e con gli occhioni strizzati: “Buongiorno… e così come va il tuo matrimonio?”. In tre giorni con la fede al dito in bella vista non mi è nemmeno passato per la testa l’idea di toglierla. Così sorrido a mezza bocca: “Beh, è un matrimonio, niente di serio”. A volte ho immaginato l’occasione giusta in cui avrei potuto usare questa battuta e adesso ne sono al contempo divertito e terrorizzato.
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