Racconto di Andreina Moretti

(Seconda pubblicazione – 8 febbraio 2021)

 

 

 

C’è la neve nei miei ricordi e l’odore avvolgente della cannella. Mi piace l’aroma della cannella, mi rapisce i sensi il dolce profumo di spezia orientale, odore di biscotti golosi.
Da piccola spesso ero triste e piangevo, suor Angelica mi consolava sfornando biscotti alla cannella a forma di cuore. Mi ingozzavo avidamente per placare il desiderio di affetto, di tenerezza, di amore e di casa… casa. Dov’è il tuo cuore, c’è la tua casa.

Sono cresciuta in un orfanotrofio dell’Abruzzo. Un orfanotrofio austero dove le regole vigevano sovrane, non poteva essere diversamente, come avrebbero gestito centoventi anime  tra ragazzi, bambini e lattanti?
La casa Maria madre degli orfani si sviluppava su tre piani: al primo piano erano situate culle e lettini per i lattanti e i piccoli; al secondo piano c’erano i bimbi e gli adolescenti; al terzo piano vivevano i maggiorenni e chi, come me, non aveva avuto la fortuna di essere adottato.
Aiutavo le suore sbrigando i lavori domestici e accudendo i più piccoli, nel pomeriggio correggevo i compiti degli scolari.
La vita scorreva veloce tra cambi di pannolini, disinfettanti per bagni e pavimenti, problemi di matematica, tossi e raffreddori da curare.
Amavo tanto suor Angelica, suor Benedetta e suor Monica, mi avevano cresciuta e resa grande, regalandomi valori unici e saldi principi, ma il vuoto che mi portavo dentro non riuscivano né a colmarlo né a lenirlo.
Loro si prodigavano per tutte le sventurate creature della “casa”, ma non le sentivo mie, mie soltanto intendo.
La casa “Maria madre degli orfani” pur avendo accolto i miei natali, è stata fin da sempre come la grotta di Gesù bambino: povera, buia e fredda.
Crescendo ho capito che una famiglia è calore, amore, affetto che circonda e inonda anche nella precarietà o nelle crisi. E’ un dono che possiedi e non puoi né comprarlo né inventarlo.
Quando sprofondavo nelle mie crisi affettive, sentivo le suore in cucina trafficare tra i fornelli: farina, uova, zucchero e cannella. Spendevano le scarse provviste e le poche energie rimaste, per donarmi la dolcezza di un ricordo dal gusto di biscotto.
Ero magra come un chiodo, capelli lunghi e lisci, un bel visetto su di un corpo da maschiaccio, sgraziata e poco femminile, sembravo più una monella che una dolce ragazzina. Le suore mi sgridavano continuamente «Alza le spalle, non stare curva! Quando ci si siede, si tengono le gambe chiuse, non sei mica un cowboy! Mastica a bocca chiusa!  Non giocare a pallone con i ragazzi! Insomma, hai 18 anni, vuoi diventare o no una fanciulla a modo?»
Erano disperate e io non sapevo come accontentarle. Non riuscivo ad andare d’accordo con le altre ragazze, erano insopportabili con le loro gonnine stirate, i capelli curati, i loro modi da gatta morta. Uffa! Non le sopportavo, le detestavo! Anche loro mi rimproveravano per ogni cosa «Anastasia, fai la doccia! Anastasia, hai le scarpe infangate! Anastasia, sei scapigliata! Anastasia questo, Anastasia quell’altro… Anastasia quando crescerai?»
Fortunatamente avevo incontrato un ragazzo che mi capiva, ed era diventato un fratello maggiore per me. Abitava nel reparto maschile della “casa”. Mi aiutava nei lavori da sbrigare, sapeva ascoltarmi, mi consigliava ed era l’unico che sapeva come tranquillizzarmi. Cosa avrei fatto senza di lui? Era diventato il mio rifugio sicuro, la mia valvola di sfogo, la mia pace interiore, il mio confidente, il consigliere e anche l’unico con cui riuscivo a ridere di gusto. Ridere, già, ridere! Ma si ha la più pallida idea di cosa significhi ridere per gli orfanelli della casa? Avrei riconosciuto i senza famiglia in mezzo a mille persone, semplicemente guardandoli negli occhi. Gli occhi degli abbandonati senza amore sono profondi come il mare e vuoti come il nulla. Ci si impaluda nel vuoto abissale dei loro occhi. Nei miei ricordi, c’è la profondità del nulla di questi sguardi.
Molti ragazzi della “casa”, crescendo, si perdevano dentro le trappole della vita: alcool, droga, prostituzione. Venivano allontanati dagli altri ospiti dell’orfanotrofio e portati nei centri di accoglienza per dipendenze. Tutti hanno bisogno di dipendere da qualcosa: le tenere suorine dipendono dallo Spirito Santo e dal buon Gesù, io dipendo da chi mi dona affetto e considerazione e i ragazzi più sventurati dipendono dalle sostanze e dal denaro.
Il mio amico Matteo mi rassicurava e mi garantiva che i nostri confratelli sarebbero stati aiutati a guarire, andavamo a trovarli appena era possibile, prendendo il treno carichi dei pacchetti preparati dalle suore.
Esse avevano un odore di pulito, di lindo, di fresco che mi faceva pensare al bianco, al candido, anche se le loro tonache erano nere. Nei miei ricordi c’è il loro buon profumo di bucato fresco.
Come avranno i capelli sotto il velo? Una sera io e Matteo in vena di scherzi, le abbiamo spiate. Povere suore! Oltre allo spavento di vederci nascosti sotto delle lenzuola come fossimo fantasmi,  trascorsero l’intera notte inginocchiate in preghiera. Comunque, avevano i capelli corti… chi sarà stato mai il loro parrucchiere? Tagliava i capelli in modo orribile!
Un giorno alcuni benefattori offrirono un lavoro a Matteo come garzone in una tipografia, questo lo avrebbe reso autonomo. Autonomo di poter pagare un affitto e di lasciare la “casa”. Ero contenta per lui ma con una nota di gelosia, perché non lo avrei più avuto tutto per me, perché le giornate sarebbero tornate vuote e solitarie.
Avevo paura di perderlo, questa era la verità! Si, ero gelosa! La gelosia ha un sapore amaro e nei miei ricordi questi eventi hanno il gusto di forti abbracci.
Sono trascorsi tanti anni da allora, ora lavoro come commessa in una panetteria, lo stipendio è modesto ma sono circondata da persone serie e perbene. La brava gente profuma di pane, c’è questo nei miei ricordi.
Matteo ora gestisce una tipografia tutta sua. Gli piace il suo lavoro e ci si dedica con onestà e volontà. E’ sposato e alla sua bimba ha posto il mio nome. La moglie, Noemi, è una ragazza di quelle all’antica, che irradiano stabilità e sicurezza.
Io e Matteo siamo rimasti amici, non è più come prima, ora ci sono nuove responsabilità che ci distolgono da un’unione invisibile, che tiene incollate le nostre esistenze come sogni gemelli. Lui ci sarà sempre per me, come una casa sicura, ed io ci sarò sempre per lui, come un sorriso complice.
Ho ottenuto da lui ciò che nessun altro potrà mai avere, perché le nostre vite si sono elevate al di sopra delle nostre sventure, tenendosi forti per non essere ingoiate dalla notte. La notte buia odora di selvaggio e Matteo invece ha l’odore dolce della cannella.  Nei miei ricordi Matteo ha lo stesso profumo dei fragranti biscotti speziati a forma di cuore di suor Angelica.