Racconto di  Margit Horsky

(Quinta pubblicazione)

 

Il giorno di San Valentino un’amica ha postato in Facebook una foto di un mazzo di rose gettato a terra intitolata “Breve storia triste”. Un’immagine inaspettata che rattristava, si voglia o meno festeggiare il giorno degli innamorati. Il commento più frequente al post era “Chissà che storia c’è dietro…” Ho provato a rispondere. Ognuno è libero di scegliere la versione che preferisce. O crearsene una propria.

14 FEBBRAIO

PREAMBOLO

Se ne stava lì, vicino al cordolo del marciapiede. Intorno alcune macchie rosse spiccavano sull’asfalto grigio. I pochi passanti buttavano un’occhiata e tiravano dritto, chi con perplessità, chi con indifferenza. Passò una macchina e il mulinello d’aria lo spostò più in là.

 

PARTEPRIMA: CHI HA GETTATO I FIORI?

 

  • CINZIA

Già le quattro e mezza! Mi devo sbrigare. Ho tutto? Telefono, chiavi, il pacchettino. Tutto. Ciao Pici, ciao amore, torno presto, sai? Ciao Morbidone mio, smack smack, ciao amore. Dimmi buona fortuna!

Ultima occhiata allo specchio in ascensore. Non male dai. E questo ritocco ai colpi di sole ci voleva. Fa miracoli Luigi, lui non delude mai.

Oggi è giorno importante. Oggi mi deve una risposta. Fa che sia un sì…

Pronto? Sì sì appena uscita di casa. Sto arrivando amore. Come? Proprio oggi? Ma dai, vuoi non poterti liberare prima? Ok Ok non voglio litigare, il tuo socio è proprio uno stronzo, però. Va bene, alle cinque e mezza allora. Bacio.

Sempre il solito. Ogni volta un problema. Purché non sia per lei. Ma oggi me lo deve. Deve dirmelo che la lascerà e che cominceremo una vita insieme. Sono tre anni che aspetto. Ho finito la pazienza. Sì, magari…mi piacerebbe pensarlo. No, davvero sono stufa di questa situazione. Voglio una famiglia, voglio lui. E poi voglio un figlio. Carla dice che è il tic tac dell’orologio biologico, a volte mi sembra mia madre. Accidenti, ora devo riempire un’ora, a casa non voglio tornare.  L’avessi saputo non avrei messo questi tacchi. Prima mi facevo un giretto in trainers per allentare la tensione.

Ah già mi pregusto la cenetta e il dopo cena. Peccato arriveremo sui colli più tardi, è un bel pezzo di strada, tutto perché qualcuno non lo riconosca uffa. Non vedo l’ora di andare a passeggio con lui in centro. E che tutti mi vedano, F-E- L-I-C-E. Però il posto è romantico con tutte le luci della pianura ai nostri piedi. Speriamo abbia prenotato la camera con la veranda. Anche se fa freschetto tanto poi ci scaldiamo.  Un calice di champagne, lo guardo, mi guarda e mi dice che sì, sì la lascia, le ha parlato, non l’ha presa male, sa che sarà felice con me. In fin dei conti anche lei sarà stufa dopo tanti anni, no?  Si troverà qualcuno, è ancora passabile. Mi sento generosa.

Mi prendo un aperitivo intanto che aspetto? Così vado in bagno. Questo camminare stimola. Poi magari incontro qualcuno e di sicuro mi chiede che ci faccio al bar da sola a San Valentino. Un caffè veloce e via.

Pronto? Ciao Carla, no non è ancora arrivato. Dovrebbe essere qui a momenti. Dai non metterti anche tu, no non mi farò abbindolare come al solito. Aut aut, o stavolta o mai più. Certo che sono tesa! No guarda, davvero, se rimanda ancora non so come la prendo. Dio, fa che dica di sì. No, no non mi voglio agitare. Eccolo, ciao ciao sì sì appena ho una risposta, bacio.

Gli sorrido, mi sorride.

Ho un brividino sinistro lungo la schiena. Conosco quell’espressione, quella bocca: un angolo su un angolo giù. E l’occhio cascante. No, non stasera ti prego!

Come non se ne fa niente? Lei gli ha preparato una cena a sorpresa per San Valentino. Glielo ha detto Luigi, per fortuna. Come per fortuna! Ma che ca… eh no. Non è ancora il momento giusto per parlarle? Dopo tre anni? Lo psicanalista le consiglia di stare tranquilla???

E …e ha il coraggio di darmi un mazzo di rose rosse!

Ecco cosa ne faccio del suo mazzo, una clava diventa, una clava sulla sua testa! E poi glielo tiro anche dietro.  Mi tolgo le scarpe: il senso di liberazione nel sentire il fresco dell’erba non solleva lo spirito ma almeno il passo è più spedito. Ho gli occhi appannati, mi cola il naso. Tiro su e mi allontano impettita.

Pici starà miagolando per la fame.

 

  • LEONARDO

Leo non era sicuro sarebbe stata una buona idea. O forse sì?

Gli era piaciuta dal primo istante. Era entrata in classe e aveva salutato tutti dicendo “Ciao, sono Ilaria vengo da Orvieto e spero di trovarmi bene con voi”. Le ragazze l’avevano guardata sorprese, qualcuna aveva sorriso cordiale. Le solite stronze si erano guardate tra loro.

I maschi, beh loro avevano visto un viso grazioso. Poi ovviamente gli sguardi erano scesi lungo il collo, avevano valutato il seno – chi piccolo, chi perfetto – e giù giù fino alle caviglie passando per i fianchi stretti e le gambe lunghe.

Leo aveva visto riccioli ramati e occhi verdi dietro gli occhiali rotondi, il sorriso incerto, nonostante una presentazione quasi spavalda. Per la verità anche i suoi occhi ne avevano disegnato la figura. Quando aveva già deciso che lei gli piaceva, però.

Quale santo aveva lasciato vuoto il posto accanto a lui? Ilaria, considerando le poche possibilità – non il primo banco, non l’angolo in fondo – si era diretta verso Leo. Chiese soltanto «Libero?»

Jacopo gridò «Ma come? Vicino alla secchia?» Tutti giù a ridere.

Leo sentì le orecchie diventare viola, mentre Marta zittiva il compagno «Sempre meglio di uno che ti copia le versioni».

Ilaria ridendo disse «Bene, mi sa che avrò bisogno di aiuto».

Le stronze tirarono un sospiro di sollievo – niente competizione – le simpatiche le sorrisero e via con le domande. Quando sei arrivata? Com’erano i prof nella vecchia scuola? Qui sono tremendi. Ti piace Trevigliano?

Suonò la campanella e si prepararono ad affrontare Abeti.

«Vedrai che figo,» disse Susi.

«Sì, ma incontentabile,» commentò Clara.

Lui non aveva ancora aperto bocca. Solo dire “Leo” alzando la mano a mo’ di saluto gli accelerò il battito. «E non sono secchione».

«Lo dicono tutti i secchioni,» sorrise mostrando un incisivo leggermente scheggiato. «Ma non ho pregiudizi».

Questo era stato cinque mesi prima. Durante i quali lei aveva riempito tutti i suoi sogni. Era simpatica, gli raccontava dell’Umbria – non c’era mai stato? Ah doveva venirla a trovare la prossima estate! – di come le mancassero gli amici, il paesaggio; gli diceva che dall’aula lì vedeva le colline, che questa nebbia era insopportabile. Lo canzonava amichevolmente con quell’accento musicale a ogni otto nei compiti di Matematica e si faceva correggere le versioni prima dell’ora di latino. Non c’era stato proprio niente di particolare. Però qualcosa gli diceva che, sì insomma, forse anche lui le piaceva. Non gli sembrava avesse un ragazzo. Con quelli della scuola non l’aveva mai vista in giro.

Oggi era deciso a fare il passo. Con la scusa di San Valentino ci si poteva fare un regalo anche tra amici, no? Le avrebbe dato un mazzo di rose dicendo che non c’era un secondo fine, solo un San Valentino all’americana, alla migliore amica e compagna di banco. A meno che lei non trovasse simpatica l’idea di qualcos’altro, avrebbe aggiunto fingendo di scherzare.

Cinque e venti. Ci siamo, pensò. Sapeva dove abitava e anche quando usciva di casa per andare a pallavolo. Si mise ad aspettare vicino alla fermata dell’autobus, nascosto dalla pensilina.

Dopo dieci minuti si aprì il portone del palazzo e la vide uscire. Con un sorriso luminoso attraversò la strada e…. si diresse verso un ragazzo che l’aspettava accanto a una moto. Guardò le sue labbra incollarsi a quelle di lui, le braccia che gli cingevano il collo, quelle di lui che la tiravano ancora più vicino. Vide i riccioli sparire sotto un casco nero. Partirono con un rumore fragoroso, volgare.

Gli sembrava che le rose lo guardassero con pietà, o era scherno? Le scaraventò a terra e si allontanò da loro il più in fretta possibile.

 

  • ARIANNA

Finì la composizione di inglese in fretta e furia – l’avrebbe rivista dopo cena – e si preparò per uscire. La mamma le diceva che non aveva bisogno di truccarsi, che era fresca come la primavera. Siiì e quel brufolo? Proprio oggi, accidenti. Lo nascose con la sua crema coprente trovata nel cestino dei trucchi e si mise matita, mascara e lucida labbra. Una spazzolata ai capelli castani con un sospiro rassegnato: perché non li aveva biondi come il padre e il fratello? Comunque Massimo diceva che le facevano risaltare gli occhi azzurri.

Doveva sbrigarsi, erano già le cinque e dieci. Prima arrivava, più tempo avevano per stare insieme.

«Ciao mamma, vado».

«Aspetta! Fatti vedere, bella come il sole la mia bambina. Ti trovi con Massimo, vero? Eh già, San Valentino. Mi raccomando, niente giri in moto ed essere a casa per cena. Sai che papà ci vuole a tavola tutti insieme.»

«Ma sì dai, non ti preoccupare».

«Fatti dare un bacio, su».  La trattava ancora come quando andava alle elementari.  Aveva quasi 15 anni insomma!

Si svincolò dall’abbraccio come un’anguilla e uscì mandandole un bacio con la mano.

Nello zainetto aveva una T-shirt per Massimo, così quando la metteva pensava a lei. Chissà se gli sarebbe piaciuta, se l’era fatta comprare a Londra da sua cugina.

Attese che il semaforo pedonale diventasse verde e attraversò per entrare nel parco.

Ma non era Giacomo quello? Che ci faceva con un mazzo di rose? Da non crederci! Anche lui aveva una innamorata? Ahah Lorena non ci avrebbe mai creduto: lo sfigato, lo chiamava. Le venne in mente una canzone, vecchia di secoli, che sua nonna ridendo canticchiava quando vedeva una coppia male assortita: “Per ognuno c’è qualcuno, sempre…”

Giacomo si stava avvicinando. Speriamo non mi fermi a chiacchierare, pensò, magari per chiedermi se ho fatto la versione o come è andato il compito di greco. Erano in classi parallele e avevano la stessa insegnante. Avrà fretta pure lui no?

No, non aveva fretta, anzi cominciò a chiacchierare del più e del meno, lei intanto guardava l’orologio. Ad un certo punto non ne poté più.

«Devo andare adesso, ciao».

«Aspetta, tieni è per te,» disse ficcandole in mano il mazzo di rose rosse. Erano pallide in confronto alle sue guance.

Lo guardò incredula mentre scappava via. Proprio in quel momento arrivò Massimo. La guardò strano, dapprima preoccupato e poi ridendo.

«Non saranno mica per me!» Disse baciandola.

«Non ci crederai mai da dove vengono».

Mentre si allontanavano, le rose disegnarono una parabola alle sue spalle e finirono sull’asfalto grigio. Alcuni petali staccandosi si adagiarono qua e là, come gocce di sangue.

 

PARTE SECONDA: CHI HA RACCOLTO I FIORI?

 

  • PINA

Pina parlava ai fiori. Era quindi naturale che vedendo le rose sull’asfalto le venisse spontaneo raccoglierle e consolarle. Vederle gettate via ancora intatte nella loro bellezza, solo qualche petalo staccato a sporcare di rosso la strada, le aveva provocato un groppo alla gola. Come quando vedi un gattino investito ma non straziato, che sembra addormentato in una posizione inusuale.

Si assicurò che stessero bene, chiese loro chi era stato, chi poteva fare una cosa simile, quale affanno o malevolenza avesse guidato la mano che aveva gettato via il simbolo dell’amore. Non c’era biglietto e comunque non lo avrebbe letto. Avrebbe solo acuito il senso di frustrazione.

Le portò a casa, tagliò un piccolo pezzetto di gambo ad ognuna e le mise nel vaso di cristallo. Ci aggiunse anche mezza aspirina per tirarle un po’ su. Ce l’avrebbero fatta. Stavano proprio bene lì sulla credenza accanto alla foto di lei e Manuele, giovani e spensierati, ancora ignari delle tribolazioni che li aspettavano.

  • UMBERTO

Aveva sempre un’andatura piuttosto circospetta, come se si aspettasse di essere scippato da un momento all’altro. E così guardava al mondo, tenendo stretto quello che aveva e concedendo il minimo. Ma non era tirchio, no. Aveva solo patito un’infanzia di privazioni. Conosceva il valore dei soldi lui. E anche se ora ne aveva più di quanti gliene servissero, perché sperperarli? Se dal panettiere pagava tre euro e novantanove, perché doveva rifiutare il centesimo di resto? A forza di centesimi quello tirava su una bella cifra a fine anno!

Perso nei suoi pensieri vide il mazzo di rose all’ultimo momento. Era quasi intatto. Chissà com’era finito lì? Si guardò intorno, non c’era nessuno. Lo raccolse rapidamente e continuò verso casa buttando gli occhi qua e là per accertarsi che non fosse uno scherzo e non saltassero fuori dei ragazzini a prenderlo in giro. Non vedeva l’ora di vedere la faccia di Cristina. Lei che si lamentava che non le faceva mai un regalo.

  • KAYLA

La prima cosa che pensò fu che fosse il luogo di un incidente. Qui avevano l’abitudine di mettere fiori dove era morto qualcuno. Dalla posa del mazzo capì che invece era stato gettato e con una certa violenza. Raccolse le rose e le odorò. Non avevano un gran profumo e ne fu delusa ma qualcosa rimaneva. O era immaginazione?

Pensò al venditore cingalese che vedeva in centro, l’insistenza con cui tormentava ogni uomo perché comprasse una rosa per la bella signora seduta con lui al tavolo del bar; al posto anonimo e pieno di infelicità che era costretto ad abitare, alla piccola somma che mandava alla famiglia a fine mese. Pensò alle ragazze del suo paese che lavoravano nelle serre in Kenya, la cura che avevano per questi fiori meravigliosi, ai pochi soldi che ne ricavavano in cambio, alle violenze che spesso subivano e ai licenziamenti se rimanevano incinte. Pensò al lago che piano piano si prosciugava per alimentare le serre, ai liquidi inquinati che queste rilasciavano avvelenando l’acqua e il bestiame che la beveva. Quanto lavoro ancora da fare per sensibilizzare la gente. E quanta spietata noncuranza, quanto egoismo nel buttare via le rose così, magari per un futile motivo.

Domani le avrebbe portate in ufficio, avrebbero reso più umano quel posto così asettico e pieno di faldoni. Gli immigrati che le si rivolgevano per aiuto avrebbero goduto di quella nota di colore e il loro spirito si sarebbe alleggerito per qualche minuto.