Racconto di Maria Pia Rosati

(Ottava pubblicazione)

 

Dedicato a chi non c’è più

 

Il giorno atteso, eppure tanto temuto, è arrivato: domani consegnerò le chiavi di questa casa ad un nuovo proprietario. Spalanco la finestra del soggiorno in cerca d’aria ed un vento freddo di tramontana mi colpisce il viso. L’ultima sera fra queste pareti l’avevo immaginata allietata da un tiepido vento primaverile, ma ho ormai imparato che gli eventi seguono un flusso imprevedibile, proprio come questo vento gelido, insolito all’inizio di marzo, che sembra trascinare con sé le fronde degli abeti e dei cipressi.

Un desiderio improvviso mi spinge ad uscire in giardino e ad annusare l’aria alla ricerca di quel familiare odore di muschio, di pigne rinsecchite che il turbine di aria fredda sembra aver cancellato. Ho bisogno di rimanere in mezzo a questo vento che sembra ululare, per congedarmi da questo luogo che da domani ospiterà un’altra famiglia: altri bambini giocheranno su questo prato, nuove storie si consumeranno fra queste pareti. La temperatura sta scendendo; che tempo ci sarà domani? Scruto il cielo in cerca di risposte, ma invano: non sono mai stata capace di coglierne i segnali. Potrebbe anche arrivare una spruzzata di neve se questo vento cessasse all’improvviso: nella profondità del cielo plumbee nuvole stanno prendendo forma, si addensano sopra il tetto e sembrano incombere sulla mia testa. Lui saprebbe prevedere il tempo: sapeva fiutare il vento e leggere ciò che a me resta indecifrabile. Se fosse ancora qui lo farebbe anche adesso. E un ricordo mi sorprende, mentre il vento sembra rallentare la sua corsa e si attenua il fruscio fra le fronde.

Era una sera di inizio gennaio di un lontano 1985, quella in cui mio padre uscì a scrutare il cielo. Un vento gelido di tramontava tagliava la faccia e tutti noi dalla finestra lo vedevamo aggirarsi intorno alla legnaia. Riempì la carriola di frasche e un imponente ciocco posto in cima la fece barcollare con il suo peso. “Bisogna tenere il camino acceso per tutta la notte”, stava pensando con preoccupazione. Con la sua figura solenne, il colbacco di pelliccia di marmotta, la giubba scamosciata da cacciatore e quei buffi paraorecchie sembrava uscito da un romanzo di Jack London. Noi, radunati intorno al camino, lo osservavamo dalla finestra mentre scrutava il cielo.” C’è aria di neve”, sentenziò, rientrando in casa.” Il cielo è bianco: se si placa il vento, stanotte viene giù un metro di neve”, aggiunse con aria soddisfatta. Davanti al suo entusiasmo rimanemmo perplessi perché la neve fino ad allora non l’avevamo mai vista.

Eppure lui, che aveva avuto come compagni della sua infanzia il freddo e la fame, la sentiva arrivare fiutando l’aria. Succedeva spesso nel paesino circondato da montagne in cui era nato. Era un evento lieto ed atteso per un bambino che passava i mesi invernali a scaldarsi con striminziti maglioni e il braciere sotto le lenzuola. Solo in occasione di una nevicata quel freddo pungente diventava sopportabile con il camino che ardeva e il caldaio con la polenta fumante.

Quella sera, mio padre voleva rivivere l’ebbrezza della nevicata nel caldo della sua casa, con una catasta di legna da bruciare, i caloriferi accesi per tutta la notte e le provviste nella dispensa. Poteva godere del raggiunto benessere, ma con lo stesso entusiasmo di allora. Soltanto ora riesco a comprendere il senso di quell’allegria che arrivò a contagiare anche noi familiari.

La mattina del 6 gennaio 1985, al risveglio, trovammo la sorpresa: venti centimetri di neve caduti nottetempo avevano coperto ogni cosa: il prato, gli abeti, i tetti vicini erano ammantati di bianco e un silenzio irreale avvolgeva l’aria. “Non è finita qui”, disse mio padre. “Dobbiamo attrezzarci perché potremmo restare isolati”. Pronunciò queste parole con un misto di preoccupazione e di eccitazione. Rimanere isolati? Cominciammo tutti a ridere di gusto e a prenderlo in giro. Eravamo a pochi chilometri dalla città e presto quel mantello bianco si sarebbe sciolto facendo affiorare i ciuffi verdi del prato e le zolle di terra. Ma, nel primo pomeriggio, la temperatura scese ulteriormente: lo strato di neve ormai ghiacciato fu coperto dal manto farinoso di fiocchi fitti che cadevano giù placidamente nell’aria ormai immobile. Fu a quel punto che mio padre decise di andare a fare provviste. Salì sulla sua Panda 4X4, che per la prima volta fu messa alla prova, e i pneumatici solcarono il tappeto candido ancora intatto che ricopriva la strada: nessuno dei vicini era uscito di casa, erano tutti rintanati al caldo con le facce incollate ai vetri a scrutare il cielo bianco come un lenzuolo. Orgoglioso per questa sua impresa tornò dal supermercato con i rifornimenti necessari per una quarantena: fagioli, ceci, lenticchie, farina gialla per la polenta, carne di maiale, zucchero, uova, salsicce, una cassa piena di bottiglie di vino e di spumante.

Chi avrebbe mangiato tutti quei cibi calorici ed indigesti? Non certo noi che cominciavamo a smaniare alla prospettiva di dover rimanere chiusi in casa, con il sospetto che una nevicata così improvvisa e del tutto inattesa avrebbe creato difficoltà nello sgombro delle strade. Smettemmo di ridere all’ipotesi ormai reale di rimanere isolati. E il solo pensiero ci angosciava, perché ognuno di noi si recava ogni giorno in città. Apprendemmo dal telegiornale che le scuole e le università rimanevano chiuse fino a tempo indeterminato. Anche la città era rimasta paralizzata: mancava il sale per sciogliere il ghiaccio, insufficienti i pochi spazzaneve in circolazione. La capitale non vedeva la neve da almeno trent’anni. Occorreva del tempo per riaprire le comunicazioni con la città.

E così cominciarono quei lunghi dieci giorni che ci videro per la prima volta tutti insieme dentro la stessa casa. Ricordo il camino che ardeva notte e giorno e lui con la griglia in mano che arrostiva salsicce e versava la pasta e fagioli nelle scodelle. Ed era felice, come non mai. Era tornato il ragazzo di campagna dai gusti genuini e semplici che era sempre stato e quei giorni di neve gli avevano solo dato l’occasione per tornare ad esserlo. E riuscimmo a vivere tutti in pace: nessun litigio turbò quell’armonia familiare. I soli giorni felici che io ricordi.

Ora il freddo è diventato pungente. Dovrei rientrare, eppure continuo a rimanere fra questi alberi, ad inspirare forte per inghiottire le lacrime che cerco di ricacciare in gola. Meglio rimanere fuori: il camino è spento da mesi e le pareti trasudano malinconia. Da troppo tempo le stanze di questa casa non conoscono l’allegria, anche se rischiarate dalla luce del sole sembra abbiano assorbito il dolore per l’assenza di chi non c’è più.

Che gioia potrà più esserci nel trovare la neve al mio risveglio senza di te? I ricordi servono solo a rendere le assenze più consistenti delle presenze e il dolore ce le fa nutrire per paura di consegnarle all’oblio. Ora che non ci sei più tu a fiutare i venti, chi mi dirà che direzione seguire? Eri tu a proteggermi e ad indicarmi la strada da percorrere. Ce la farò a proseguire da sola senza farmi male? Osservo il cielo nel tentativo di trovare una tua presenza tra le sagome nere come la pece che le nuvole hanno disegnato e sembrano inseguirsi l’una con l’altra.

Ormai ne ho la certezza: stanotte nevicherà. È meglio che raccolga alcuni ciocchi di legna nella carriola e che accenda il camino per scaldare questa notte che sarà lunghissima. E sarà anche l’ultima. Domani dovrò scendere i gradini e chiudermi il cancello alle spalle senza più guardarmi indietro. E ho paura. Per il vuoto che sento, per la paura di non essere abbastanza forte per affrontare l’incertezza dei giorni che verranno. Eppure avverto la tua presenza ad ogni mio respiro e so che continuerai ad accompagnarmi anche se mi incamminerò su strade mai percorse perché tu, da lassù, riesci a vederle tutte.

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