Racconto di Matteo Consiglio

(Seconda pubblicazione)

 

La strada sterrata, sabbiosa, candida di sassi bianchi illuminati dal sole, era asciutta e polverosa. Si stendeva dritta, dal bivio imboccato, liscia, dai passi pestati innumerevoli sulla sua pelle. Poco dopo, un ponte ad arco morbido, dalla struttura snella, la prolungava aldilà del fiume. Un fiume stretto e profondo a giudicare dalle barche grandi che si lasciavano trasportare dalla corrente lenta e laminare. Era un ponte mobile, da poco abbassato una volta passata la barca a vela dall’aria vetusta, ma sana. Sopraggiungendo, Ovidio trovò un uomo ad aspettarlo. Era giovane; poco più che un ragazzo. Gli occhi ingenui di chi il male ha ancora da conoscerlo o ha ancora da accettarlo.

“Sarai tu ad accompagnarmi?”

“Sì. Sono io.”

Si strinsero la mano e Ovidio cominciò a titubare.

“È lunga la strada?”

“Non molto.”

“Non potremmo aspettare?”

Il giovane titubò anche lui.

“No… Voglio dire: non credo si possa.”

“Però, si avvicina un’altra barca. È a vela. Dovranno sollevare il ponte per farla passare.”

“Certamente. Ma abbiamo tutto il tempo per passare.”

“Sì. Ma capisci… Di qua potrei vedere la mia famiglia. Mia moglie. E mia figlia. Davvero non possiamo aspettare? Vorrei salutarle.”

L’uomo non riuscì a rispondere. Guardò la barca e il ponte; poi guardò tre uomini più vecchi che sostavano discosti dal ponte e dalla strada, sulla sponda del fiume coperta d’erba. Osservavano le barche passare, con aria serena, contemplativa.

“Aspetta qui. Provo a chiedere.”

Il giovane si diresse verso i tre che non si voltarono finché non ebbe messo la mano sulla spalla di uno. Parlava il giovane, ma Ovidio non poteva sentire. Gli uomini guardarono il giovane; si guardarono tra loro; guardarono Ovidio; guardarono il giovane e dissero lui qualcosa.

Uno si voltò verso Ovidio e alzò bene la voce perché Ovidio sentisse.

“Dovete passare. Non vi potete fermare. Dovete passare prima che la barca arrivi.”

Il giovane tornò da Ovidio guardando in terra; camminando fra l’erba alta. Davanti a Ovidio sollevò lo sguardo.

“Dobbiamo andare. Mi dispiace.”

Ovidio strinse le labbra.

“Andiamo allora.”

La terra liscia frusciava sotto i passi dei due. Attraversando il ponte, assi di legno consumato scricchiolavano indolenti, mentre Ovidio vedeva la barca avvicinarsi. Una volta passati non avanzarono molto prima che il ponte si risollevasse.

“Potevamo aspettare. Siamo passati per poco.”

“Lo immaginavo che avremmo fatto giusto in tempo. Ma mi hanno detto che le barche passano con tempi precisi. Non potevamo rimanere di là del ponte. Anche noi abbiamo una tabella di marcia. Legata al passaggio delle barche. Dovessimo tardare avremmo dei problemi.”

“Che genere di problemi?”

“Non so tu. Ma io verrei rimproverato.”

“Quindi il problema sarebbe dei tre.”

“Non saprei. Credo di sì. Io non ho mai tardato, quindi non saprei neppure cosa potrebbero dirmi.”

“Ho capito. La tua diligenza è una specie di abitudine.”

“Immagino di sì.”

Ovidio e il giovane continuarono a camminare in silenzio.

Ovidio si fermò un istante. Si passò lento il viso tra le mani. Il giovane si fermò a sua volta, incerto se redarguire o meno Ovidio. Ma era suo dovere non tardare.

“Dobbiamo andare. Mi dispiace.”

Ovidio tornò a camminare. Ma i suoi passi erano lenti, le sue gambe molli.

“Lo so. Dispiace anche a me. Non voglio farti tardare. Ma la forza di andare avanti non mi viene facilmente.”

“A nessuno viene facilmente. Spesso si arrabbiano. Spesso se la prendono con me. Qualcuno non fa altro che piangere e io non lo posso aiutare. Io devo solo accompagnarlo. Io insisto e loro camminano.”

Ovidio continuò a camminare e, mentre il giovane parlava, gli venne un nodo alla gola. Voleva piangere anche lui. Ma non poteva. Doveva andare. Sua moglie e sua figlia erano al di là del fiume e lui non le aveva nemmeno potute salutare. Non le aveva potute abbracciare. Lo sforzo di incedere quei passi gli faceva dolere gambe e braccia, e si chiedeva cosa sarebbe successo se fosse tornato indietro, ma non trovava la forza di farlo, non trovava il coraggio. Il giovane parlò.

“Tu però non ti fermi. A parte quell’attimo di debolezza, continui a camminare. Ti garantisco che non è una cosa da tutti. E poi sei rimasto gentile. Non te la sei presa con me.”

Ovidio, per alcuni istanti, non riuscì a rispondere. Il nodo alla gola si fece tanto stretto che gli fece male, e pensò che l’unica cosa che gli avrebbe dato sollievo sarebbe stato buttarsi a terra. Con la faccia su quella terra arida per bagnarla con tutte le sue lacrime. Una di queste traboccò da un occhio.

“Non so perché se la prendano con te. Ma a me non viene da prendermela con te. Non è facile andare per questa strada, ma non è colpa tua se mi trovo qui.”

“Grazie per la comprensione. Ti ripeto: non è da tutti.”

La monotonia della strada in lontananza era spezzata dalla presenza sul bordo, di una casupola di pietra e mattoni. Un tetto di lastre. Di pietra anche quelle.

Il giovane si fermò.

“Siamo arrivati. O meglio: sono arrivato io. Tu dovrai arrivare alla casupola. Là dovrai aspettare che qualcuno ti chiami.”

“Una sala d’attesa?”

“Una specie.”

Ovidio salutò il giovane. Lo abbracciò stretto, perché aveva incrociato i suoi passi, ed era stato buono.

“Addio. E Grazie.”

Tenendo la mano posata sulla spalla del giovane, lo aveva guardato con enfasi, per lasciargli il ricordo del loro incontro. E aveva visto tremare gli occhi di lui; umidi.

“Addio.”

Il giovane tornò indietro e non si voltò più.

Ovidio stette a guardarlo alcuni attimi; poi si diresse verso la casupola.

L’entrata era bassa, l’interno scuro, e angusto. Si sedette a terra e si guardò attorno. Si coprì il viso, e si mise a piangere. Non riuscì a smettere finché non sentì una voce.

“È il tuo momento.”

Guardò la soglia della casupola ma non c’era nessuno. Quando uscì non trovò più la luce intensa di quando era arrivato, ma una luce tenue come quella del sole occiduo. Nessuno. Voltò un angolo della casupola e vide due bambini nei pressi di uno steccato. Uno, di otto anni circa, metteva un cordone, simile a quelli rituali shintoisti, attorno al collo dell’altro bambino più piccolo; il suo lo aveva già indosso.

Ovidio si agitò, si guardò attorno, vide una donna col viso inondato di lacrime. La scrutò incredulo. Vide il cordone attorno al suo collo.

“Ma… Anche voi? Anche loro?”

La donna fece una smorfia di dolore e annuì. Ovidio scoppiò in singhiozzi. Non poté, ne volle, trattenersi dal gridare.

“Ma no! Loro no! Loro non devono! Non è giusto! Perché? Perché anche loro?”

Si voltò verso lo steccato. Appeso stava un cordone, e come Ovidio l’ebbe visto, smise di gridare. Si avvicinò senza distinguerlo nitidamente: le lacrime gli guastavano la vista. Lo sollevò, lo strinse tra le mani e lo mise al collo. Lentamente si avvicinò ai bambini. E li abbracciò.

“Mi dispiace.”

Si fece buio.