Racconto di Miriam Zabotto

(Prima pubblicazione)

 

Aveva passato molta della sua vita cercando delle ragioni, delle emozioni, per considerare quella casa la sua casa. Prendendo treni, aerei, navi e qualunque mezzo di trasporto, solo per allontanarsene il più possibile e il più a lungo possibile. Ci aveva messo tutto l’impegno e la convinzione immaginabili, desiderando di sentirne forte la nostalgia per decidere, così, di ritornare. Arrivando all’alba, con le suggestioni della campagna umida e pulita al sorgere del sole, frammentato riflesso sulle acque torbide del canale. Rientrando la sera, le finestre del borgo illuminate e il rumore dei suoi passi coperto dallo scroscio dell’acqua, che usciva rapida dalla chiusa. Qualche volta aveva trascinato il trolley in mezzo ai pochi banchi del mercato, voci e volti conosciuti che salutavano e sorridevano, come sempre. In tutte le stagioni c’era stato un suo ritorno. Aveva camminato veloce e a testa bassa, mentre la neve cadeva lenta e profumata di freddo, con le chiavi di casa già pronte nella mano. A volte l’estate aveva visto il suo arrivo nelle ore più vuote ed afose, quando dal canale in secca saliva forte l’odore della melma che, putrida e grigia, ingoiava lentamente carcasse di vecchie barche abbandonate. Tornando nei primi giorni di primavera, era capitato che si confondesse con la gente che arrivava da fuori, per la festa del santo patrono. Forse era l’autunno che conosceva meglio i suoi occhi che, ad ogni ritorno, correvano veloci ai pioppi lungo gli argini contandone, ad ogni ritorno, sempre meno. Amava quegli alberi e provava un piacere puro e calmo osservandoli.

Sempre fermi e sempre diversi. Sentiva così tanta pace ed era all’opposto.

Sempre in movimento e sempre uguale.

Quel continuo andare e venire senza sentirsi mai nel posto giusto, con un senso di non appartenenza amplificato dai cambiamenti che registrava ad ogni ritorno. Negli anni, ettari di terra erano stati divorati da cemento e asfalto, scomparsi per sempre dalla vita e dai ricordi. Chilometri di siepi, che delimitavano confini e tenevano saldi i fossi, erano stati estirpati con brutale ed ottusa noncuranza. Un territorio che aveva perso, quasi del tutto, la sua fisionomia, un luogo che risiedeva nella memoria dei più vecchi e in qualche libro, che a nessuno interessava più leggere. Erano spariti tutti, quei sentieri tra i campi, terra battuta ai lati ed in mezzo una striscia d’erba, fatti apposta per le corse di bambini. Gli argini del canale erano stati trasformati in pareti quasi verticali, da cui nessuno sarebbe più potuto rotolare giù, come tanti ragazzini avevano fatto in un passato ormai lontano, con la paura di finire tra i rovi e le ortiche del fossato. Era con la promessa di un’ avventura che, rialzandosi e sfoderando immaginarie spade e bacchette magiche, ci si infilava nel piccolo boschetto d’acacie, fingendosi guerrieri antichi e fatate creature silvane. Quel contatto costante, profondo, fisico ed emotivo, con la terra, l’erba, l’acqua e l’aria, era perduto. Chiudere gli occhi e ricordare sarebbe bastato, avrebbe potuto rivedere il suo paese così com’era stato dieci, venti, trenta, quarant’anni prima, forse anche di più. Avrebbe rivisto anche i suoi amici, all’alba di un giorno d’estate, salire in barca con le famiglie e partire, scivolando piano, verso la barena, verso la laguna. Rimaneva a guardarli, piccola e solitaria figura sopra il ponticello, finché non scomparivano oltre l’ansa del canale e nella luce del sole nascente. Nessuno di loro abitava più nel borgo e non si vedevano da tanto di quel tempo che, qualche volta, dubitava perfino che fossero mai esistiti.

La sua famiglia non possedeva una barca, non faceva gite, non si curava di ciò che aveva intorno. La sua famiglia aveva altro a cui pensare, si doveva trovare il modo di portare a casa il cibo, bisognava guadagnare un po’ di soldi e sopravvivere, aspettando tempi migliori. I prati servivano per andare a raccogliere l’erba da dare ai conigli, nei campi coltivati a mais si prendeva di nascosto qualche pannocchia, per le galline e le anatre del pollaio di casa. Appena il ghiaccio liberava le foglie del tarassaco, venivano tirate via dalla terra ancora dura e fredda, per poi essere cucinate e mangiate o vendute al mercato. Erano anni in cui si poteva pescare nel canale, i pesci d’acqua dolce erano poveri e poco gustosi ma, fritti nella nera padella di ferro, andavano giù lo stesso. All’altro capo del paese c’era il fiume grande, osservato speciale, quando il vento di scirocco spingeva l’alta marea dalla laguna verso la terraferma. Lungo i suoi argini larghi e possenti svettavano ancora loro, i pioppi, dalle cui radici e cortecce i funghi non smettevano di spuntare, durante gli autunni nebbiosi e carichi di malinconie. Ricordava con molta precisione alcune di quelle stagioni, nette e definite, come ormai non erano più. D’inverno la neve era una presenza costante, i corti e leggeri cappotti non bastavano a fermare il tremore per il freddo, anche i sacchetti di nailon sopra i guanti di lana, dopo qualche tempo, diventavano inutili. La faccia tagliata dal gelo faceva male, quando, entrando in cucina, impattava il calore sprigionato della legna che bruciava nella stufa. Era l’unica stanza della casa ad essere riscaldata, la sola in cui i vetri delle finestre avevano il ghiaccio all’esterno, e non all’interno. Il vento di primavera, quando arrivava portava pioggia, tepore e sferzate di colori vividi, ma anche strette al cuore e pensieri cupi, sotto cieli leggeri. Nelle notti d’estate, insonni di caldo e zanzare, ascoltava il silenzio e assimilava tutta la stanchezza degli abitanti del borgo. Crescendo, aveva compreso la loro frustrazione e il desiderio di riscatto, l’inarrestabile volontà di sconfessare qualcosa che sembrava già scritto. La sua voglia di scappare era cominciata con quella comprensione. In principio era stato con i libri, non ricordava quanti ne aveva portati lungo il canale; li leggeva ad alta voce all’acqua, ai pioppi e ad un unico salice, sotto il quale si sedeva per interi pomeriggi. Fino a quando, un giorno che ricordava ancora, qualcuno mise delle reti di metallo sugli argini, così da interdirne il passaggio. Non fu neanche la cosa peggiore che successe, fu solo la prima di cui ebbe la consapevolezza e segnò l’inizio di un mondo nuovo, di nuove geografie e di nuovi paesaggi. Progressivamente le pannocchie presero il sopravvento sulle spighe di grano, le barbabietole da zucchero sparirono del tutto e la terra non conobbe più il riposo, né il ristoro dell’erba medica. Furono trasformazioni lente ma, allo stesso tempo, veloci. Gli occhi si abituavano rapidamente ai nuovi scenari, i borghi venivano declassati prima a paesi, poi a frazioni, infine a vie di mero passaggio. Alle terre agricole si davano nuove denominazioni e nuove destinazioni, comparivano cartelli con scritte gialle su fondo marrone: “zona industriale”, “zona commerciale”, “zona artigianale”. Per qualche decennio, i soli punti di riferimento geografico rimasero le chiese ed il municipio, la vecchia stazione dei treni e, al confine est, il capolinea degli autobus. Tutto il resto fu preso e plasmato, appiattito e di nuovo ricostruito, deviato e compresso, coperto e assoggettato, quasi che non avesse vita e una propria dignità. Molti limiti erano stati oltrepassati e non era importante essere uomo, donna, vecchio o bambino, ci si sentiva come le mongolfiere prima di prendere il cielo. Ogni cambiamento era una lama, ogni lama tagliava una corda, ogni corda tagliata un legame in meno e, infine, la totale assenza di ancoraggio obbligava alla partenza. Guardare dall’alto permetteva di vedere tutto nel modo più chiaro e preciso, un susseguirsi di aree e di spazi tracciati al millimetro, l’impronta umana era ovunque. Non c’era un solo angolo che fosse stato lasciato al suo stato naturale, la cosiddetta campagna era un’illusione di natura. La verità era che si giustificava qualunque cosa, in nome del profitto e di un falso progresso. Ciò che saltava agli occhi, almeno ai suoi, erano le recinzioni e le barriere. Quello che più di tutto amava della natura, che trovava straordinariamente potente, era il sistema di vasi comunicanti che teneva in equilibrio ogni cosa. Quel sistema era stato interrotto e poi sostituito, secondo chissà quale idea di miglioramento, con una logica di compartimenti stagni. Non capiva quali erano i vantaggi, in quel cambiamento vedeva solo caos e paesaggi scompaginati, molti tentativi mal riusciti di imporre artificialmente una qualsiasi identità. Era per questo che, sempre di più, partiva verso mete poco battute e poco abitate, dove poter camminare per ore, trovando in una montagna o in un fiume gli unici ostacoli, come unico limite il mare. Sentiva riallacciarsi il suo rapporto con il mondo, la connessione con la Terra era ripristinata e si sentiva un po’ meglio, il cuore batteva più lento ed il respiro si faceva profondo. Dove la natura era lasciata libera e selvaggia, quelli erano i luoghi dove anche le persone potevano ritrovare il proprio posto. Aveva impiegato molto tempo, davvero tanto, prima di capire quanto il suo stato interiore dipendesse da ciò che aveva intorno. C’era stato un momento preciso, in un posto speciale fuori dal tempo e dal mondo, in cui aveva iniziato a comprendere. Si trovava sopra ad una scogliera e lo spettacolo era magnifico, con l’oceano ed il cielo che quasi si fondevano, il vento che soffiava così forte da rendere difficile lo stare in piedi e fermi. Meccanicamente aveva alzato la macchina fotografica sulla linea dell’orizzonte, con l’intenzione di catturare la sottile separazione tra l’aria e l’acqua. Ma era impossibile tenersi in equilibrio, perciò, aveva cercato un riparo, anche solo una piccola roccia, che facesse d’appoggio e permettesse uno scatto. Ce n’era solo una ed era occupata da un ragazzo, sembrava molto preso dal panorama. Scusandosi per il disturbo che gli stava arrecando, aveva chiesto qualche minuto per fare un paio di fotografie, prima che la luce cambiasse. “Sicuro – aveva risposto il giovane – non c’è problema. Lo sa, io ho smesso di fotografare, nessuna foto rende giustizia a questi spettacoli. Ora vengo qua e guardo, mi siedo su questa roccia o sull’erba e ascolto. Si sentono molte cose, fuori e dentro, però bisogna avere le mani libere”.  Erano state solo poche parole, dette senza enfasi e senza l’intenzione di aggiungere altro. Si era allontanato con un piccolo cenno di saluto, l’aveva visto salire su una piccola utilitaria e partire piano, pochi istanti dopo lui e la sua macchinina erano spariti oltre la collina. Quel ragazzo, quelle due frasi, avevano cambiato la sua prospettiva in pochi secondi. Aveva appoggiato la macchina fotografica sulla roccia, sedendosi sull’erba umida aveva guardato, di nuovo, l’orizzonte. Aveva ascoltato. Le mani, ora libere, istintivamente si posavano sulla terra, che era calda e morbida come il seno e l’abbraccio di sua madre. Era stato quello il momento in cui, per la prima volta, aveva collegato il fuori con il dentro, la terra con il cuore, l’aria con l’anima, l’acqua con la mente. Gli alberi, i campi e le colline, ogni seme e ogni germoglio, prendevano e davano linfa al suo spirito.

Ad ogni ritorno, nel suo paese, era come se facesse un inventario e sempre, sempre, mancava qualcosa. Contava i pioppi sugli argini, li contava ogni volta. Non poteva far altro che ritornare, dimostrando rispetto per la loro grandezza, solo loro avevano la facoltà di essere così, sempre fermi e sempre diversi. Avrebbe smesso di ritornare, quando, non importava se di giorno o di sera, d’estate o d’inverno, anche l’ultimo albero fosse stato abbattuto.