Racconto di Milly

(Prima pubblicazione – 13 maggio 2019)

 

A ripensarci bene sembrava una serata come tutte le altre. Ero alla guida della mia auto da molte ore. La voce della radio mi faceva compagnia ma non riusciva a catturare la mia attenzione. Ero davvero molto stanca. Avevo provato ad alzare il volume, a cambiare stazione alla ricerca di qualcosa che mi coinvolgesse e mi tenesse desta ma nulla ero valso a qualcosa. A tratti sentivo gli occhi chiudersi. Controllando sul navigatore mi ero resa conto che avrei dovuto percorrere ancora molti chilometri prima di arrivare a casa. Le strade erano deserte. Attorno a me solo campagna. E buio. Quel buio che copre ogni cosa. E che non amo in queste condizioni perché mi impedisce di osservare la natura, di percepirne i cambiamenti, i colori, le atmosfere. Mi sentivo scomoda. Il sedile dell’auto non era accogliente. Mi sentivo prigioniera in un abito troppo stretto. La gonna mi strizzava la vita, le spalle della camicetta non mi permettevano movimenti sciolti, le maniche erano troppo corte, i piedi stanchi. Avevo caldo. E poi freddo. Sete. E sonno.

La prudenza mi suggeriva di fermarmi. Il desiderio della mia casa era potente. Immenso. Mi avrebbe accolta con il suo tepore e tra le mie cose mi sarei ritrovata. Ma era distante. Troppo distante.

Mille pensieri mi passavano per la mente. Sulla mia vita. Su tutto ciò che c’è che non mi piace, che mi costa fatica. E sacrifici. Senza un perché.

Lontane delle luci. Sembrava un edificio. Ho sperato fosse un bar. Un buon caffè avrebbe potuto essere una soluzione. Mi sono avvicinata. Scrutando guardinga. Era un MOTEL. Non ho mai amato questi posti che ho sempre evitato. Mi sono sempre parsi luoghi sinistri frequentati da strani viaggiatori, con chissà quali segreti.

Ma mi rendevo conto che non avevo alternative.

Ho parcheggiato l’auto. Quasi tutte le finestre erano illuminate. Chissà cosa stava accadendo in quelle stanze. Mi venivano i brividi. Ma sono entrata. Non c’era nessuno. Poca luce. Ho atteso qualche istante “C’è qualcuno?” Silenzio. Stavo per uscire. È spuntata dal nulla una donna. Giovane, con un viso pallido, gli occhi vispi e curiosi.

“Buonasera” mi ha detto “Per lei avrei una bellissima camera. Da dove viene, bella signora? Mi sembra molto stanca. Ma vedrà una bella doccia calda e un buon sonno faranno miracoli. Posso farle una tisana se gradisce! Non ha una valigia? Non si preoccupi! In camera troverà tutto ciò che le occorre!” Sono rimasta ammutolita. Mi mancavano parole. Il suo sguardo mi catturava e mi spaventava allo stesso tempo.

“Grazie”, sono riuscita a dire.

“Mi chiamo Letizia, e lei? Se non ha i documenti non importa, so bene com’è la vita, eccome se lo so! Venga, l’accompagno. La camera è la numero 10, al secondo piano “.

“Grazie”.

Ha aperto la porta. Acceso la luce.

“Ecco! Carina vero? Scendo e preparo la tisana! La aspetto cara! La berremo insieme!”

“Grazie, Letizia”

Ha appoggiato la sua mano sul mio braccio “E mi dirà come si chiama!”

Sono rimasta sola nella camera. Non era poi così brutta come avevo immaginato.

I miei propositi stavano svanendo “Non toccherò quasi nulla. Me ne starò lì, con gli occhi chiusi ad aspettare l’alba per ripartire e tornare a casa.”

Gli imprevisti non facevano per me, questo è sicuro! Tutto doveva andare secondo i miei programmi, questa stanchezza mi irritava e mi faceva sentire ancora più esausta. Invece decisi di andare in bagno per fare la pipì; ed era lindo e accogliente! Non mancava proprio nulla! Letizia, così mi pareva si chiamasse la portinaia, aveva pensato davvero a tutto.

Pensai “Una bella doccia calda mi farebbe bene! Questi abiti mi stringono sempre di più, potrei rilassarmi un po’ ”

L’accappatoio era un po’ consunto, questo è vero, ma era pulito, sapeva di sapone. Decisi di lasciarmi un po’ andare. La doccia fu lunga e rassicurante. Mi fece bene. Mi avvicinai al letto, sospettosa, le lenzuola erano ben stirate e invitanti.

Qualcuno bussò alla porta “Chi è?” chiesi.

“Sono Letizia! Si ricorda bella signora, la tisana!”

Pensai “Vuole la mancia.”

Cercai nel portafoglio qualche moneta e aprii. Letizia entrò con un vassoio in mano “Ricorda, le avevo promesso la tisana e lei mi avrebbe detto il suo nome. Ecco!”

Ad un tratto svanì quella sensazione di invadenza “Grazie Letizia! La appoggi pure lì. Io mi chiamo Anna”

“Bene Anna, allora le auguro la buonanotte”

Allungai la mano per darle la mia piccola mancia, ma lei la rifiutò, con decisione “Eh no! Non preparo la tisana per tutti, la offro solamente in certi casi, alle persone che ne hanno bisogno, ed è un piacere per me. Buonanotte!”

Ancora una volta rimasi senza parole.

Mentre gustavo quella tisana deliziosa il mio sguardo cadde su un oggetto accanto al piccolo armadio. Osservai con maggiore attenzione: era una valigia. Una vecchia valigia di cartone. Sembrava triste e sola. Dimenticata, pareva avesse bisogno di qualcuno che si occupasse di lei. Non pensai a nulla, mi abbassai, la presi tra le mani. Era leggera ma non era vuota, sentivo che conteneva qualcosa. La osservai. La toccai. Ero curiosa di conoscere la sua storia. Era molto vecchia e un po’ malandata. Doveva aver fatto molta strada. Non c’era nessuna scritta. Solamente un cartellino logoro attaccato al manico con una scritta che, alla luce fioca della stanza, non riuscii a decifrare. Il suo mistero mi conquistava, mi affascinava. Decisi di aprirla. Una chiusura si aprì facilmente, l’altra era bloccata. Con fatica riuscii a sboccarla. Ecco. Ora potevo aprirla davvero. Il cuore mi batteva forte. Forse dentro a questa valigia…

Sorpresa! Conteneva bustine di semi di verdure per l’orto e di fiori per il giardino.

Dovetti bere un bicchiere d’acqua per sciogliere il nodo che mi era venuto in gola. Quanti ricordi. Di tanto tempo fa. Ma quanti anni erano passati? E come avevo potuto scordarmi di tutto?

Presi in mano le bustine: sentii l’odore della terra, i profumi dell’orto e dei fiori.

Quell’orto e quel giardino dove avevo trascorso molte ore della mia infanzia, con la nonna che lavorava e mi spiegava, mi insegnava mille segreti.

Ora quel pezzo di terra era abbandonato, chiudeva i suoi occhi per non vedere le rose che appassivano tra l’erba alta da rubare la luce al grano. Ora non sperava più voci, parole e sorrisi nascosti intorno al pozzo che non rifletteva più il chiaro della luna. Ora aveva lo sguardo triste e si agitava sgomento ripensando ai suoni delle voci con i vestiti a fiori.

La sentivo mia quella valigia. Non l’avrei lasciata più. Aprii una bustina di semi, quella dei fagiolini, presi un seme e lo misi sul palmo della mia mano. Lo osservai da vicino.

Mi venne in mente una frase di Henry David Thoreau ” Ho una grande fiducia in un seme. Convincimi che hai un seme e sono pronto ad aspettarmi meraviglie.”

Bellissima questa questione dei semi. Immaginai che nei palmi delle persone, di tutte le persone, ci fosse un seme. Il sogno, la realizzazione del sé…la parte più vera. Quando siamo bambini ci accorgiamo della sua esistenza. Forse nasciamo con il nostro seme, è lì… aspetta solo di essere nutrito. Ma poi diventando adulti ce ne dimentichiamo. Ci insegnano che il nostro sogno è sbagliato.

Io avevo trascurato il mio seme. Solo in quell’ istante me ne resi conto. Stavo vivendo come “bisogna”. Ed ora questo seme aveva una voce e mi ricordava chi ero, cosa facevo e dicevo, cosa volevo. Forse tutte le ferite che mi portavo dentro erano state utili a un solo scopo : a ricordarmelo. Ed ora che avevo attraversato mille inverni potevo trovare la mia primavera.

Uscii sul terrazzino. L’aria era fredda. Mi diede energia. Alcune luci delle stanze erano accese. Sentii in quel luogo una carica di magia che mi si attaccava addosso. Un incantesimo.

Quel luogo aveva un’anima, una memoria.

“Qual è la tua strada? ”

Avrei voluto chiedere a chi occupava quelle stanze.

“Una strada piccola, stretta, riservata, nascosta, fatta di passi semplici, di visi segreti e luminosi, di panni appena stesi, di anziani sulla porta, di sugo e di caffè appena fatto? ”

Dentro ad ognuna di queste finestre c’era una vita che aspettava di essere raccontata.

Ed io avrei voluto domandare “Ed io quale strada devo prendere? Ora che non posso più tornare indietro!”

E se poi mi chiederanno: “Ma tu, dove vuoi andare?”

Risponderei “Non lo so, forse nell’orto della nonna.”

Ecco. Potrei donare un seme a coloro che occupano quelle stanze, potrei aiutarli a far crescere il loro albero. “Trova il coraggio delle emozioni e nulla sarà più impossibile. Prendi questo seme”

Ritornai in camera. Mi sentivo una nuova pelle addosso.

Abbandonai la mia strada e presi il sentiero. Il sentiero dell’orto della nonna. Iniziò così un nuovo viaggio, con un nuovo bagaglio: il mio cuore.

La notte mi aspettava. Ero rilassata. Avevo lasciato andare tutto. Abbracciai la valigia. E mi sentii al sicuro.

Il mattino mi svegliai molto tardi. Il sole era già alto e i suoi raggi illuminavano le pareti. La stanza brillava. La valigia era lì, accanto al comodino.

Guardai meglio l’etichetta appesa al suo manico, la scritta era sbiadita, leggevo a fatica. C’era scritto un nome, piccolo, “Annina” il nome della mia nonna.